Il mistero di Chinatown
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Info su questo ebook
Dall’autore del bestseller Non uccidere
Tommy Davies, anatomopatologo in un ospedale nei pressi di Malpensa, si trova a eseguire un’autopsia sul corpo di un cinese che, da Milano, è volato fino a Pechino, per far ritorno in Italia qualche giorno dopo e morire prima di scendere dall’aereo. A quanto pare, nel breve tempo trascorso in Cina, l’uomo ha subito un espianto di fegato. Sono molte le domande che Tommy si pone sulla singolare operazione cui l’uomo è stato sottoposto, soprattutto dopo la visita in ospedale del capitano Pauli del Nucleo Investigativo dei Carabinieri, che instilla in lui il sospetto che quella morte nasconda qualcosa. Quando Tommy mette a parte della faccenda il suo migliore amico, Gualtiero Abisso, un giornalista in cerca dello scoop che dia una svolta alla sua carriera, accende in lui il desiderio di far chiarezza sulla vicenda. E gli ricorda un’inchiesta su un traffico d’organi che ha condotto qualche anno prima… La scoperta che la morte del cinese non è un caso isolato lo convince che in ballo ci sia qualcosa di grosso, probabilmente legato a traffici internazionali. E così, con l’aiuto di alcuni cinesi in vista all’interno della comunità di Milano, soprattutto Jin Wang, la caporedattrice del settimanale più letto dai cinesi di Milano, Abisso proverà a far luce su un mistero sempre più inquietante, a mano a mano che il puzzle si compone. Perché ci sono persone che considerano la vita altrui una merce di scambio. E perché anche chi sembra innocente nasconde spesso un lato oscuro…
Un autore da oltre 50.000 copie
Un giallo appassionante, che dosa al meglio inquietudine e ironia, capace di conservare il mistero fino alla fine.
Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Il nuovo romanzo di Mario Mazzanti è una storia da leggere tutta d’un fiato.»
Corriere della Sera
«Un giallo molto interessante, che sa trasmettere le atmosfere più cupe dell’orrore di provincia.»
Panorama
«Bel thriller, bella storia italiana.»
Famiglia Cristiana
Mario Mazzanti
Toscano d’origine, è cresciuto a Milano, dove ha compiuto gli studi di Medicina, e vive a Bergamo. Con la Newton Compton ha pubblicato Un giorno perfetto per uccidere e Non uccidere, raccolti poi, insieme a un racconto, in Tre casi scottanti, I 444 scalini e Il mistero di Chinatown.
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Anteprima del libro
Il mistero di Chinatown - Mario Mazzanti
2863
Copertina © Sebastiano Barcaroli
Prima edizione ebook: aprile 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-4849-2
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Corpotre, Roma
Mario Mazzanti
Il mistero di Chinatown
marchio.tifNewton Compton editori
Il silenzio fa sì che le immagini
del passato non suscitino desideri,
ma tristezza, una enorme sconsolata
malinconia.
E.M. Remarque
Indice
1. TOMMY
2. ABISSO
3. VERA
LUNEDÌ
4. IL RITORNO DI WU
5. MA YONG
MARTEDÌ
6. L’AUTOPSIA
7. LE VOLPI DALLE MOLTE CODE
MERCOLEDÌ
8. PAULI
9. FENG
10. KATMANDU
11. NOTTI AGITATE
GIOVEDÌ
12. L’INCIDENTE
13. BANANE
14. CONCISE TELEFONATE
15. SPONSOR & ROLEX
VENERDÌ
16. FUZHAO
17. IMPRESA DI PULIZIE
SABATO
18. L’ORGANIZZAZIONE
19. CENE E APERITIVI
DOMENICA
20. LA PARTENZA DI MA YONG
Lunedì
21. L’INCENDIO
22. DUBBI E CARABINIERI
MARTEDÌ
23. L’INTERVENTO
24. IN VIAGGIO CON JIN
25. LISTE DI ATTESA
MERCOLEDÌ
26. RISVEGLI
27. IL BROKER
28. IL cpr
29. IL VAMPIRO E L’AVVOLTOIO
30. BIRRE AMARE
GIOVEDÌ
31. MEMORIE E ADDII
32. CONVALESCENZA
33. CENA CON DELITTO
VENERDÌ
34. UNA GIORNATA CONVULSA
SABATO
35. LA DESNA
36. DUBBI
37. PROPOSTA INDECENTE
DOMENICA
38. L’UOMO NERO
39. RIVELAZIONI
LUNEDÌ
40. VIGILIE
41. GLADIOLI ROSSI
42. INDAGINI INFORMATICHE
MARTEDÌ
43. UNA MATTINA DI SOLE
44. TELEFONATE, SUICIDI,E ILLUMINAZIONI
45. LA CLINICA
46. BRUTTE SORPRESE
47. COGNATI E FURGONI
48. LA CAVALLERIA
GIOVEDÌ, DUE GIORNI DOPO
49. UNA CENA SENZA DOLCE
DOMENICA
50. BIRRE CRUDE
TRE MESI DOPO
EPILOGHI
«Ecco l’assassino. È lui».
Per un istante Tommy Davies alzò lo sguardo verso il suo giovane assistente. «Osserva bene: non può parlare, ma sta rendendo una piena confessione».
Maggio 2019, quattro giorni prima
Pioveva sull’aeroporto di Malpensa. Una pioggia sottile e insistente che aveva iniziato a cadere nel tardo pomeriggio, rovinando una luminosa giornata di primavera.
Wu Yaunsong, nel terminal 1 dello scalo milanese e in coda per il controllo passaporti, lanciò un’occhiata nervosa ai due connazionali che lo avevano scortato all’aeroporto e ancora non lo perdevano di vista: continuavano a osservarlo da lontano, con il volto completamente inespressivo e senza mai sbattere i loro occhi a mandorla. Si rigirò tra le dita il ciondolo di giada che gli avevano consegnato con l’ordine di non toglierlo mai dal collo e tenerlo ben in vista al suo arrivo. L’orologio segnava le 19:30; Wu avvertì una stretta allo stomaco: da lì a un’ora e mezzo il suo aereo sarebbe decollato per Beijing, Pechino. Volo diretto. Là avrebbe consegnato la merce preziosa che trasportava con sé.
Wu Yaunsong aveva ventiquattro anni, un lavoro duro e senza orario in un capannone dove si producevano filati, e una moglie, Ma Yong, appena più giovane di lui; lavoravano entrambi in quel capannone, ma sarebbe più esatto dire ci vivevano, dormendo nelle poche ore di riposo su delle brandine da campeggio condivise in uno spazio angusto con una quindicina di connazionali.
Ma Wu aveva anche, e soprattutto, un debito da saldare con chi, un anno e mezzo prima, li aveva fatti giungere da clandestini in Italia.
Un grosso debito che con il lavoro pur durissimo suo e di Ma Yong non stava riuscendo a onorare. Lo avrebbe però fatto con quel viaggio: gli era stata data quella possibilità, senza altre alternative che una ritorsione verso la sua famiglia in Cina, prima ancora che verso di lui e Ma Yong.
Wu guardò il biglietto che stringeva tra le mani assieme al passaporto; sola andata: se qualcosa non avesse funzionato, non sarebbe stato necessario un biglietto di ritorno. Per la prima volta, iniziò a provare una sottile paura per quello che stava facendo. Non era timore per il passaggio dei controlli: rassomigliava alla foto sul passaporto che gli era stato dato, e comunque il funzionario gli avrebbe lanciato solo un’occhiata distratta: per gli italiani tutti i cinesi sono uguali… Quanto a ciò che di tanto prezioso trasportava per saldare il debito, non poteva destare alcun sospetto.
Adesso era però come se per la prima volta si rendesse realmente conto di quello che stava facendo. Forse aveva sbagliato tutto, forse sarebbe stato più giusto rimanere in Cina nel suo sperduto, piccolo villaggio rurale dello Zhejiang. Accontentarsi di una vita povera, se non addirittura misera, ma nella sua grande famiglia, con a fianco Ma Yong e nel futuro un figlio, l’unico che, per legge, il Partito consentisse di procreare.
E ancora per una prima volta, dopo molto tempo, tra le pieghe dell’ansia avvertì nella lontananza da Ma Yong qualcosa di simile a quel sentimento privo di qualsiasi praticità chiamato amore.
Sfiorò di nuovo il ciondolo di giada al collo che rappresentava la dea Guanyin prima di passare, quasi senza rendersene conto e senza alcun intoppo, tutti i controlli.
Raggiunse il gate d’imbarco con il suo bagaglio a mano, l’unico che aveva, e si sedette in attesa che venisse chiamato il volo.
Guanyin, la dea della pietà e della compassione… Che davvero potesse proteggerlo…
Mentre la paura si andava tramutando in senso di nausea, avrebbe voluto avere con sé una foto di Ma Yong.
Il jet aveva rapidamente raggiunto i diecimila metri di quota. Wu slacciò la cintura; il posto che occupava, per lui dal fisico così minuto, era comodo: dieci ore e mezza e sarebbe arrivato a Beijing.
Solo oscurità dal finestrino, e in quell’oscurità di una notte che viaggiando verso il sole nascente sarebbe stata effimera, si persero i pensieri di Wu…
Tornava in Cina per la prima volta da quando l’aveva lasciata assieme a Ma Yong, e non poteva fare a meno di ricordare quanto diverso e difficile fosse stato il viaggio da clandestini per giungere in Italia. In realtà Wu avrebbe preferito gli Stati Uniti, ma la cifra richiesta per raggiungerli era per lui inarrivabile e una volta là maggiore il rischio di essere espulsi essendo più efficace la lotta ai clandestini.
In una ventina erano stati fatti salire su un aereo per Mosca, e da lì, su un camion che, con un viaggio interminabile, li aveva portati fino in Ucraina, in una città di cui non conosceva il nome affacciata sul mare. La sera stessa erano stati imbarcati su una nave carica di container e rinchiusi in una stiva. Per quattro giorni non avevano visto la luce del sole, e di quel viaggio ricordava solo il buio e l’umido, lento rollio che pareva rimescolare l’aria greve della stiva. Non avevano però subìto controlli e, appena sbarcati, dei connazionali li avevano divisi in più appartamenti. Due giorni dopo erano a Brescia, a stirare vestiti in un laboratorio tessile per sedici ore al giorno e una paga di seicento euro al mese ognuno. E con un debito residuo complessivo di ventitremila. Il corrispettivo di venticinquemila dollari era infatti la cifra che avevano pattuito con gli shé tóu, le teste di serpente, per raggiungere l’Italia. Mille in anticipo – tutti i risparmi delle famiglie – e il resto con il lavoro che gli stessi shé tóu avrebbero procurato loro in Italia. Ci avrebbero messo due anni a onorare quel debito, lui e Ma Yong, trattenendosi gli shé tóu mille euro al mese lasciandogliene solo duecento; ma dopo poche settimane dacché erano giunti in Italia, la sventura aveva iniziato ad accanirsi su di loro… Aveva cominciato a presentarsi con un’irruzione della guardia di finanza nel laboratorio; solo nascondendosi in un’angusta intercapedine, dove erano rimasti rintanati per più di dieci ore, erano riusciti a sfuggire all’identificazione e un provvedimento di espulsione. Ma era solo l’inizio della sventura… Gli shé tóu avevano procurato loro un nuovo lavoro, alla periferia di Milano questa volta, ma lì, poco dopo, Ma Yong si era ammalata della malattia dello Xiao Chuan, i suoni sibilanti e la respirazione difficoltosa. Non aveva mai smesso completamente di lavorare, ma non aveva più potuto farlo che per poche ore al giorno, e la sua paga era diminuita notevolmente.
Inizialmente gli shé tóu non avevano messo fretta, e del resto Wu consegnava loro tutto il denaro che poteva, ma quando Ma Yong aveva dovuto diminuire ancora di più il lavoro fino ad arrivare a non poterlo fare per giornate intere, avevano cambiato atteggiamento: il debito andava saldato subito. In caso contrario avrebbero punito, prima ancora che loro, le famiglie lontane. Ma c’era un’altra possibilità: un viaggio in Cina… a trasportare un certo tipo di merce.
Quando molte ore dopo l’aereo iniziò la lunga discesa verso Beijing, Wu era ancora sveglio. Non era mai stato a Pechino e pur provenendo dalla provincia dello Zhejiang, neanche a Shanghai. Quando aveva lasciato la Cina con Ma Yong, erano partiti da Hangzhou, la città sul Lago dell’Ovest, la perla caduta dalla Via Lattea, ed era l’unica città che Wu avesse mai visto fino ad allora. Vi aveva lavorato come muratore per oltre un anno ed era rimasto impressionato da quanto diversa dalla sua fosse la gente che l’abitava, e spaventato da quanto grande fosse e quanto alti potessero essere i suoi palazzi… nel villaggio tra le montagne del Sud della provincia dove sia lui che Ma Yong erano nati e cresciuti, non esistevano case più alte di due piani e bastavano pochi minuti a piedi per attraversarlo tutto. Un villaggio i cui campi non davano più da tempo un raccolto sufficiente; era per questo che Wu lo aveva lasciato per Hangzhou, dove la richiesta di mano d’opera per la costruzione di nuovi grandi palazzi era alta. Al contrario, la paga bassa e le condizioni di vita misere come al villaggio: dormiva in una baracca, Wu, e il cibo era poco più di quanto fosse appena sufficiente a sfamarlo; ma quella paga, per quanto bassa, gli permetteva di guadagnare in un mese più di quanto avrebbe fatto in un anno al villaggio.
Sporgendosi dal suo posto, Wu si sforzò di vedere la capitale dal finestrino, ma una fitta cappa di umidità e inquinamento sembrava nascondere ogni cosa.
L’altoparlante annunciò di allacciare le cinture.
Di nuovo la paura, il desiderio di poter tornare indietro nel tempo e non ripetere cose sbagliate. Di nuovo una sottile nausea.
Poche ore e tutto sarebbe finito, cercò di farsi coraggio Wu, pochi giorni ancora e sarebbe potuto tornare da Ma Yong, senza più debiti e un futuro davanti a loro.
Assieme a molti altri viaggiatori, Wu aveva raggiunto l’affollato salone degli arrivi internazionali di uno dei terminal dello sconfinato aeroporto di Beijing. Aveva passato la dogana e i severi controlli senza nessun problema: un cinese che tornava in patria per far visita alla famiglia.
Si sentiva spaesato, provava un senso di estraneità rispetto a tutta quella gente e alla scintillante modernità dello scalo: era tornato nel suo Paese, ma quello che provava era quanto di più lontano potesse esserci dal sentirsi a casa. Mentre se ne stava in piedi, quasi immobile e con i muscoli un po’ contratti come se gli occorresse concentrazione per mantenere l’equilibrio, si chiese in che modo, in mezzo a quella folla, chi stava aspettando lui e la preziosa merce che trasportava riuscisse a notare il piccolo ciondolo di giada che portava al collo; ma ci volle non più di un minuto perché due uomini gli si avvicinassero. Wu riconobbe subito quel modo di muoversi e di guardare l’interlocutore: shé tóu.
«Sei Wu Yaunsong?», gli chiese uno dei due nel dialetto dello Zhejiang.
Wu annuì abbassando il capo.
«Vieni con noi».
Wu era stato fatto salire su un’auto che si era diretta velocemente verso la città.
Strade larghissime, a più corsie.
Traffico intenso, congesto.
Palazzoni enormi, squadrati, caserme di uno sconfinato esercito civile, alveari ognuno uguale all’altro.
Rallentamenti e code con i fumi di scarico delle auto che sembravano voler strisciare sull’asfalto prima di alzarsi verso la cappa grigio-giallastra che appesantiva il cielo.
A mano a mano che si avvicinavano al centro, aumentavano le auto di grossa cilindrata, Audi e Mercedes soprattutto, e la gente vestita all’occidentale, con le donne che portavano gonne al ginocchio e scarpe col tacco. Grattacieli svettanti verso il cielo, palazzi scintillanti coperti di vetro.
Come quelli che aveva contribuito a costruire ad Hangzhou…
Erano stati giorni duri, quelli, difficili, ma per bassa che fosse, la paga era quanto più denaro avesse mai visto, tanto che avrebbe potuto permettergli di vivere lì con Ma Yong… Ma era solo un sogno, lì non poteva stare: la sua residenza ufficiale era rurale
e non urbana
; non aveva il permesso di risiedere in città, né mai lo avrebbe ottenuto e tanto meno ci sarebbe riuscita Ma Yong; condannati a vivere in povertà nel loro villaggio come milioni di altri contadini per non depauperare di braccia l’agricoltura. Anche la sua stessa presenza di muratore a Hangzhou era solo tollerata per la grande richiesta di manodopera, ma non l’avrebbero lasciato rimanere a lungo: in fondo era anche lì, come lo sarebbe stato più tardi in Italia, un clandestino.
E lì a Hangzhou, una sera di fronte alla sua cena frugale, qualcuno gli aveva parlato di come farsi una vita migliore in un altro Paese, e di come ci fosse chi poteva aiutarlo in questo. Era così che Wu aveva conosciuto gli shé tóu e alla fine si era messo d’accordo su tutto: dal modo in cui pagarli, alla possibilità di onorare il debito con un viaggio come quello che stava facendo adesso, se non fosse riuscito a rispettare gli accordi.
Ripensando a quei giorni, con lo sguardo perso oltre il finestrino dell’auto, Wu trasse un profondo respiro, e fu in quel preciso momento, proprio mentre l’auto imboccava il vialetto di accesso di un’elegante e discreta costruzione, che la sensazione di avere forse sbagliato tutto si tramutò in qualcosa di simile a un cupo presagio.
Wu era ormai disteso sul letto da almeno due ore; la camera che gli avevano assegnato gli pareva lussuosissima, eppure era tra le meno eleganti della clinica, era anzi situata su un altro piano rispetto alle camere di degenza, vere e proprie suite, che ospitavano i pazienti. Una clinica per ricchi, o potenti funzionari di partito, che vista da fuori pareva un hotel di lusso discretamente sorto in uno dei quartieri residenziali più verdi di Beijing.
Wu era vestito soltanto del camicione celeste allacciato sulla schiena che gli avevano consegnato appena giunto; gli avevano portato via tutto, compreso il ciondolo di Guanyin: di suo gli era rimasto solo quel cupo presagio e la conseguente sottile paura per ciò che doveva affrontare.
Dopo aver firmato tutta una serie di carte, gli avevano fatto dei prelievi e lo avevano visitato accuratamente. Poi l’avevano rimandato in camera invitandolo a riposare. Ma come per tutto il viaggio in aereo, Wu non era riuscito a chiudere occhio. Su una poltroncina di fronte al suo letto, sedeva immobile uno dei due shé tóu che lo aveva prelevato all’aeroporto: non lo aveva lasciato un solo attimo, e anche adesso, sebbene Wu fosse sdraiato immobile, non lo perdeva di vista nemmeno per un istante; una scelta saggia, dovette ammettere tra sé Wu: non ci fosse stato quell’uomo a sorvegliarlo, forse non sarebbe riuscito a resistere alla tentazione di fuggire così come si trovava… Una scelta saggia, dunque, e in fondo un bene anche per lui stesso: cosa ne sarebbe stato di Ma Yong e della famiglia se si fosse dato alla fuga? Gli shé tóu non perdonano e pretendono sempre di essere pagati… col sangue se necessario.
Ormai non poteva più tornare indietro.
Doveva scacciare la paura, fare appello al suo coraggio: presto tutto sarebbe finito e sarebbe tornato da Ma Yong, senza più debiti e un futuro davanti a loro, si ripeté ancora una volta.
La porta si aprì improvvisamente ed entrò un medico seguito da una giovane infermiera; indossava sotto un camice immacolato la divisa azzurra da sala operatoria. Era sui cinquant’anni e aveva in viso l’espressione dura di chi si aspetta di essere obbedito senza discussioni. Senza una parola visitò sommariamente Wu. Poi, prima di lasciare la camera, gli rivolse seccamente la parola in mandarino.
«Gli esami vanno bene. Operiamo domani mattina: questa sera digiunerai».
Si era dovuto arrendere alla stanchezza, Wu, e, dopo un sonno agitato, al risveglio aveva subito ritrovato gli occhi impassibili dello shé tóu a osservarlo: era certo che per tutta la notte non avesse distolto lo sguardo un solo istante. Si era fatto giorno da non più di un’ora quando gli infermieri erano entrati nella camera.
Gli avevano praticato un’iniezione e pochi minuti dopo per Wu tutto aveva iniziato a farsi confuso. L’ansia, la paura avevano a poco a poco lasciato il posto a una sfuggente rassegnazione. Si era a malapena reso conto di essere stato sollevato di peso, adagiato su una barella e trasportato da qualche parte; aveva visto le luci del soffitto succedersi a una a una attraverso un lungo corridoio. Poi un ascensore, ma non avrebbe saputo dire se salisse o scendesse. Adesso, sempre più preda della preanestesia e ormai sul limitare della coscienza, si trovava in una sala dove aleggiava un odore pungente, e con un medico giovane a fianco che sembrava aspettare. Da una porta a vetri che di tanto in tanto si apriva con uno sbuffo, aveva intravisto la grande lampada da sala operatoria pendere dal soffitto e un lettino chirurgico. C’erano delle persone, tutte con camici verdi e mascherina. Anche loro sembravano aspettare.
Wu finalmente si arrese all’incoscienza, non vide uscire da un’altra porta a vetri identica alla prima il medico che lo aveva visitato la sera precedente: teneva le mani intrecciate sul petto per non toccare nulla, e indossava dei guanti in lattice sporchi di sangue.
«Come mai non è ancora intubato?», esclamò con tono irritato. «Nell’altra sala ho il paziente con l’addome già aperto!».
Il giovane medico a fianco di Wu chinò la testa in segno di deferenza. «Al paziente manca l’elettrocardiogramma tra gli esami preoperatori. Stanno venendo dal reparto a farglielo».
«Paziente?!? Il nostro paziente è nell’altra sala con l’addome aperto. Questo è un donatore: ci interessa solo il suo fegato. Ci interessa che sia sano e vivo adesso, non le possibili complicazioni che potrebbe avere! Lo addormenti subito. Ho aspettato fin troppo».
1. TOMMY
«Ecco l’assassino. È lui».
Per un istante Tommy Davies alzò lo sguardo verso il suo giovane assistente. «Osserva bene: non può parlare, ma sta rendendo una piena confessione».
Il giovane esitò solo un istante guardando dentro il torace aperto del cadavere disteso sul lettino anatomico: «Gran parte della parete del ventricolo sinistro è praticamente nera», disse lentamente. «Si tratta di un infarto. Quello che si pensava».
Davies lasciò le pinze chirurgiche e le forbici con le quali aveva aperto il sacco pericardico, e sollevò di nuovo lo sguardo sul giovane: «L’infarto, dici? Quello è solo l’effetto. È come se tu buttassi giù da una finestra del quinto piano una persona e dicessi che l’assassino è la caduta… in realtà quella è solo ciò che ha fisicamente ucciso la persona, ma l’assassino sei tu». Tommy Davies prese il coltello autoptico per l’asportazione dell’organo e ne appoggiò delicatamente la punta sulla superficie di quel cuore ormai fermo da molte ore. «Cosa è questo?», chiese.
«Il ramo discendente della coronaria sinistra».
«Giusto… ed è completamente occluso nella sua parte iniziale: il flusso sanguigno necessario alla vita del cuore si è così interrotto e questo ha causato l’infarto. È l’occlusione il vero assassino». Con pochi tagli precisi Tommy liberò il