Oltre l'Ego: Dialogo tra scienze della mente e spiritualità orientale
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Info su questo ebook
Attraverso una narrazione coinvolgente, esploriamo come le filosofie orientali, con idee quali il non-dualismo e l’illusorietà del sé, possano arricchire la visione occidentale dell’identità e della salute mentale.
Ispirato da Swami Vivekananda, che vedeva Oriente e Occidente come due espressioni della stessa anima universale, “Oltre l’Ego” ci sfida a ripensare le nostre convinzioni e offre un percorso per una vita più consapevole e soddisfacente. Un’esplorazione essenziale per chi è alla ricerca di una cura olistica e integrata.
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Anteprima del libro
Oltre l'Ego - Alessandro Rusticelli
Alessandro Rusticelli
OLTRE L’EGO
Dialogo tra scienze della mente e spiritualità orientale
ego_0Introduzione
Sono passati più di cinquant’anni da quando Alan Watts predisse, con entusiasmo, l’incontro tra psicologia e spiritualità orientale. L’eclettico filosofo americano era convinto che la saggezza millenaria dell’Asia, con la sua enfasi sulla consapevolezza e la necessità di andare oltre l’Ego, avrebbe portato nuova linfa alle scienze della mente.
Oggi l’interesse dell’Occidente per il Buddismo e altre discipline affini è più che evidente. Anche nell’ambito della psicologia, molti hanno iniziato a prendere in considerazione la possibilità di utilizzare tecniche provenienti da quelle tradizioni, integrandole con i classici metodi d’intervento. Viene spontaneo chiedersi se sia davvero possibile adottare la meditazione come un’ulteriore strategia terapeutica e se sia lecito astrarre certe dottrine dal loro contesto originario, applicandole a una realtà tanto diversa. Secondo alcuni il gioco non vale la candela: la tradizione orientale, infatti, è ricca di nozioni che ci appaiono sconcertanti, come il superamento del dualismo mente-corpo, la vacuità dei fenomeni e l’idea che il Sé - da noi considerato il cuore dell’individualità - sia niente più che un’illusione. Questi concetti scuotono le fondamenta del nostro modo di vedere il mondo, mettendo in discussione millenni di storia del pensiero, da Aristotele a Cartesio, fino ai giorni nostri. Integrarli nella visione occidentale della psiche non è un’impresa facile, né sempre possibile.
Nell’accostare le due scuole di pensiero, inoltre, non dobbiamo dimenticare che si sono sempre rivolte a categorie diverse d’individui, sviluppando la loro prassi su esperienze umane paragonabili solo fino a un certo punto. Mentre la terapia psicologica si è preoccupata per lo più di trattare individui affetti da disturbi emotivi, le filosofie orientali si sono rivolte a persone sane, che sentivano il bisogno di confrontarsi con quell’angoscia esistenziale che ci accompagna tutti. Evidentemente siamo di fronte a due realtà ben distinte, che non condividono né le premesse epistemologiche, né i metodi, soprattutto quelli terapeutici. Ciò nonostante, esistono delle importanti aree di sovrapposizione che rendono possibile un confronto stimolante per chiunque abbia a cuore la comprensione dell’animo umano.
Un’analisi approfondita del Buddismo, del Taoismo o del Vedanta rivela sin dal principio tematiche estremamente attuali. Il loro modo d’intendere la vita, inoltre, ci spinge a mettere in discussione conoscenze che davamo per scontate, maturando una visione del tutto nuova di chi siamo. La saggezza orientale condivide con la psicologia l’interesse per i modi in cui ognuno di noi, nel definire sé stesso, crea le condizioni per la sofferenza o la felicità. Può sembrare strano ma, al di là di ogni misticismo, queste discipline non sono altro che metodi per conoscere sé stessi e migliorare la propria vita.
Ispirati dal pensiero del maestro indù Swami Vivekananda - secondo cui Oriente e Occidente sono diversi nell’esteriorità, ma uguali nell’anima - in questo libro esploreremo insieme le due tradizioni, chiedendoci in che modo concezioni dell’uomo, apparentemente così diverse una dall’altra, possano contribuire a renderci persone più sane e felici.
ego_1La realtà è una costruzione della mente. La nostra percezione di chi siamo e del mondo non rispecchia la Verità.
I
Il Sé, tra miraggio e realtà
Il problema dell’Io
Nella storia del pensiero occidentale, tutti coloro che hanno riflettuto sulla condizione umana, cercando di svelare le cause della sofferenza e carpire i segreti della felicità, prima o poi si sono scontrati con lo spinoso problema dell’Io. Socrate gettò le fondamenta della discussione, affermando che l’anima è il luogo originario delle qualità intellettive e morali dell’individuo. Eppure, il contributo più incisivo rimane quello del filosofo francese René Descartes, la cui formula penso quindi sono
ha profondamente influenzato la scienza e il sentire comune per i secoli a venire. Secondo Cartesio, la caratteristica principale che definisce l’essere umano è la capacità di pensare; solo l’uomo, infatti, è in grado di esprimere dubbi e riflettere su sé stesso. C’è un’entità cosciente dietro a tutti i nostri giudizi: la res cogitans[1].
L’idea cartesiana dell’uomo ha dato vita in tempi moderni a ciò che è stato di volta in volta definito come l’Io, il Sé o l’Ego[2], termini relativamente intercambiabili, con cui la nostra cultura indica il cuore dell’individualità, quel nucleo assolutamente unico e irriducibile che contraddistingue ognuno di noi. Nell’esperienza quotidiana diamo per scontato che ci sia un Io che percepisce, pensa e si emoziona. Anche se l’organismo cambia nel tempo, continuiamo a sentirci noi stessi e di conseguenza consideriamo l’Ego una realtà diversa dal corpo, che non è intaccata dalle sue trasformazioni[3]. Lo avvertiamo come un’entità coesa e reale, un locus of agency unico, all’origine dei nostri giudizi e comportamenti[4]. Sebbene ognuno di noi percepisca questo senso di sé come un dato di fatto - afferma lo psicologo inglese Bruce Hood - tutto ciò potrebbe essere un miraggio, cioè l’esperienza di qualcosa che non è ciò che sembra[5].
In psicologia il primo ad affrontare l’argomento in modo sistematico è stato William James, che introdusse la famosa distinzione tra Me e Io[6]. Benché quest’idea abbia ormai più d’un secolo, negli ultimi anni è tornata alla ribalta, assumendo un ruolo di primo piano negli studi sperimentali sulla coscienza. In sintesi, l’Io è l’osservatore, cioè il soggetto che conosce la realtà in prima persona, dando alle esperienze il loro caratteristico senso di proprietà. Il Me, invece, è l’aspetto che rimanda all’immagine con cui la mente cosciente si identifica e dipende dalla capacità di percepirsi come un individuo separato dagli altri, con una storia del tutto unica. A partire dalle idee di James, nel corso del XX secolo sono state proposte un gran numero di teorie che hanno approfondito la questione da punti di vista differenti. Descriverle una a una richiederebbe un libro intero, del resto molte non sono più attuali e appartengono ormai alla storia della psicologia. Per i nostri scopi è sufficiente dire che oggi abbiamo raggiunto un consenso generale sulla concezione del Sé: lo consideriamo, infatti, una struttura multidimensionale e gerarchicamente organizzata, che conferisce un senso di unicità e continuità all’individuo a partire dall’infanzia, quando prende forma grazie ai rapporti con le figure di riferimento[7]. Questa definizione, proposta da Rich Shalveson nel 1976, ha il merito d’essere ampia, riuscendo a includere aspetti del problema prima trattati da scuole psicologiche differenti. Ciò nonostante, continua a restituirci una visione troppo statica, che privilegia la dimensione strutturale dell’Io, in cui organizzazione e coesione sono poste in primo piano rispetto al cambiamento, all’incoerenza e alla molteplicità. Come vedremo meglio più avanti, sono proprio le piccole e grandi inconsistenze che punteggiano l’identità a fornirci, invece, l’occasione di scoprire qualcosa in più su questo fenomeno.
In Oriente il tema è stato affrontato in modo radicalmente diverso: secondo molte scuole di pensiero l’Ego, inteso come un’entità dotata di esistenza intrinseca, è del tutto privo di realtà effettiva. In altri termini, ciò che intuitivamente consideriamo noi stessi e avvertiamo come qualcosa di unitario, autonomo e costante nel tempo, sarebbe nient’altro che un’illusione, una costruzione generata dai nostri stessi pensieri. Queste discipline vanno ancor oltre, affermando che l’idea di sé è una finzione con cui tendiamo a identificarci, creando le premesse per la sofferenza psicologica[8]. Il Buddismo riassume tutto ciò nella dottrina dell’anātman, un’espressione che in sanscrito significa non-sé[9]. L’insegnamento dell’anātman e il legame tra il Sé e la sofferenza sono temi molto complessi, a cui dedicheremo ampio spazio nel prossimo capitolo, per adesso limitiamoci a un ragionamento più generale. Secondo la tradizione risalente al Buddha storico, l’obiettivo principale della meditazione è la realizzazione del Nirvana, ovverosia la comprensione profonda e duratura dell’illusorietà dell’Io[10]. Il raggiungimento di questo stato determinerebbe un venir meno delle condizioni che ci spingono ad aggrapparci alle cose, generando sofferenza e insoddisfazione. Per i buddisti il Sé è una mera presupposizione, priva di qualsiasi referente concreto; nel momento in cui ci identifichiamo con essa, diamo vita a una moltitudine di aspettative irrealistiche di cui, a lungo andare, paghiamo lo scotto. Stress e infelicità derivano dalla discrepanza tra la natura impermanente della realtà e il nostro desiderio di controllarla a tutti i costi, trattenendo le cose a cui siamo più attaccati.
A farci soffrire, alimentando il nostro malcontento, non sono gli eventi in sé, ma il modo in cui prendiamo quel che ci accade. Secondo il Buddismo esiste una differenza fondamentale tra il dolore e la sofferenza: se il primo è inevitabile, la seconda è una scelta che dipende dal nostro atteggiamento verso la vita. Si tratta di una teoria interessante, che è oggetto di riflessioni sempre più frequenti tra gli esperti di salute mentale. Comunque, non mancano le voci critiche, secondo cui accettare l’irrealtà dell’Io potrebbe minare la concezione dell’individualità e della fondamentale libertà dell’uomo, portandoci alla follia. In realtà, le filosofie orientali non aspirano all’eliminazione tout court del Sé, cosa peraltro impossibile, ma alla comprensione del suo funzionamento. Infatti non è possibile abbandonare completamente l’Ego e nel momento in cui proviamo ad abbattere quest’illusione indispensabile, entriamo in una grande e profonda confusione. L’unico modo di svincolarsi dalla sua influenza è attraverso la consapevolezza[11]. Da essa dipende la capacità di relativizzare l’identificazione con un’immagine creata dalla mente che, a volte, può essere estremamente rigida, complicandoci la vita.
A dire il vero, l’idea del Sé come illusione non è una novità nemmeno a casa nostra. Già nel XVIII secolo, il filosofo scozzese David Hume sosteneva che l’Io non è altro che una collezione di differenti percezioni, che si susseguono con incredibile rapidità in un flusso perpetuo e travolgente[12]. Successivamente, anche Martin Heidegger si schierò contro l’esistenza di un Sé a priori, affermando che ognuno di noi costruisce continuamente l’identità