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Endora - Donne d'ombra e di spada
Endora - Donne d'ombra e di spada
Endora - Donne d'ombra e di spada
E-book232 pagine3 ore

Endora - Donne d'ombra e di spada

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Info su questo ebook

Endora- secondo episodio - Il reggimento guidato da Naydeia è arrivato nei territori di confine, dove le incursioni dei Qanaki si fanno sempre più sanguinose. E qui, tra agguati, battaglie e assedi, lei deve arrendersi all’idea che anche la sua vita privata non è scevra da pericoli e da scontri. Soprattutto l’unione con l'uomo che ha sempre amato, ma che non ricambia il suo amore.

Anche Killiar sta cominciando a pensare che quel matrimonio non sia stato una buona scelta. Continua a rimpiangere Izrhad, la sua prima moglie, una donna con un carattere totalmente diverso, e la sua inquietudine lo porta ad agire in maniera impulsiva e a correre rischi che potrebbero costargli molto, forse troppo.

E Daigo, infine, è inquieto. Il suo amore verso Naydeia è senza speranza, il suo astio contro Killiar cresce di giorno in giorno. Eppure l'Aldair è un uomo astuto e intelligente: sa che le sue intenzioni potrebbero fargli rischiare la forca, ma non rinuncerà a costruire le proprie trame.

Nel frattempo, a Omira, la capitale, il potente Yadosh sta per cadere in una trappola. Il suo progetto segreto per ridare dignità agli uomini di Endora ha scatenato una ferocia inestinguibile, perché chi ancora porta avanti il complotto storico che ha dato il potere alle donne non può permettere che le cose cambino. Persino un uomo furbo e senza scrupoli come lui può trovarsi avviluppato in una rete di inganni, tessuta da una nemica di grande intelligenza.

All’orizzonte si profilano nubi nere per tutti…

A Endora il matrimonio può essere una condizione molto pericolosa. Per un uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2015
ISBN9786050385489
Endora - Donne d'ombra e di spada

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    Anteprima del libro

    Endora - Donne d'ombra e di spada - Fernanda Romani

    Parte prima

    I

    Regione di Nilyai – Territori di confine

    Iene.

    Interi branchi banchettavano lungo la pista, attorno a quelli che ormai era arduo considerare cadaveri. Dikkral, erano tutti Dikkral. Dovevano essere lì da diversi giorni.

    Naydeia trattenne il senso di nausea che le saliva dallo stomaco.  

    Il fetore appestava l’aria, rendeva ripugnante il solo respirare.  

    Guidò il cavallo ai margini della lunga distesa di corpi mentre le esploratrici tentavano di scacciare i predatori.  

    Non c’era più nulla, dei morti, che fosse riconoscibile; solo le divise a brandelli distinguevano le donne dagli uomini. Chiazze di sangue rinsecchito, ancora capaci di attirare qualche mosca, facevano da cornice a pezzi di carne ormai senza più forma.

    Dopo che ebbe terminato il giro del massacro una voce la raggiunse alle spalle.

    – Non abbiamo trovato vodron nei dintorni, eppure abbiamo usato i richiami diverse volte. Io non capisco. Come hanno potuto mandare qui un simile convoglio senza una scorta di lupi da guerra?

    Naydeia non rispose all’esploratrice, non la guardò neppure. L’imbecillità delle ufficiali superiori non era cosa di cui discutere con una subordinata.

    Continuò a osservare il risultato dell’idiozia di qualche incompetente, di certo mai stata nelle zone di confine.  

    I Qanaki avevano portato via i propri guerrieri caduti, come sempre.

    I carri erano stati depredati, ma non si vedeva un solo cavallo in giro. Prede troppo preziose per essere eliminate.

    Da uno dei veicoli partiva una scia di fagioli secchi che subito si disperdeva nell’erba appiattita da grumi scuri. Vari passi più in là giaceva un sacco sventrato, circondato da poche tracce di farina.

    – Questi erano i rifornimenti per l’avamposto di Oden.

    Aveva parlato più che altro a se stessa, ma la sua accompagnatrice non tardò a rispondere.

    – Passeranno più di venti giorni prima che l’Alto Comando riesca a far arrivare un altro convoglio.

    Venti giorni.

    Una folata di vento le assalì le narici. Il violento puzzo di carne decomposta la fece vacillare, ma subito si ricompose.

    Ricordava l’avamposto.  

    Duecento donne e una cinquantina di uomini. Non era possibile sapere da quanto tempo aspettavano le scorte di cibo, ma la situazione richiedeva decisioni, e ordini.

    Naydeia voltò la giumenta e la spronò.

    – Torniamo al campo!

    ***

    Daigo strigliava il proprio mustano con vigore, ma si rendeva conto che non serviva ad allentare la tensione.  

    Era accaduto qualcosa di grave. Naydeia e la sua scorta avevano lasciato il campo con le facce scure e l’aria nervosa. Solo il loro ritorno avrebbe potuto svelare gli eventi che appesantivano il respiro di ogni uomo e ogni donna del reggimento.

    Si era messo in una posizione strategica, sul lato nord del luogo di raccolta dei cavalli; l’avrebbe di certo vista arrivare e sarebbe riuscito a sentirne gli ordini. Per precauzione aveva mandato diversi dei suoi uomini in altri punti dell’attendamento.

    Si fingevano indaffarati in un’attività qualsiasi oppure soltanto occupati a passare il tempo. Era difficile che sfuggisse loro qualcosa.

    Udì avvicinarsi gli zoccoli di diversi cavalli e sorrise tra sé. Aveva scelto il posto giusto.

    La vide arrivare e la osservò mentre impartiva comandi ancora prima di scendere di sella.

    – Ma-nisa Ossidra!  

    Un’arciera corpulenta si fece avanti rispondendo con deferenza.

    – Prendete un carro e tutti gli uomini che non stanno facendo nulla di urgente e andate verso est, lungo la pista. Portate venti donne di scorta. Fate bruciare tutti i cadaveri che troverete e recuperate qualsiasi cosa possa esserci utile: legno, teli cerati, armi.  

    Cadaveri. Materiali da recuperare.  

    Quei semplici particolari furono sufficienti per dare a Daigo un’idea della situazione.

    Il nemico era più vicino di quanto pensassero. Nessuno aveva mai visto i Qanaki penetrare tanto all’interno del territorio di Endora.  

    Finì di strigliare il cavallo, sbirciando la comandante che si allontanava verso la propria tenda e mandava a chiamare le ufficiali.

    Ormai non aveva più la possibilità di ascoltare il resto. Ma altri l’avrebbero fatto per lui. Da quando si erano messi in viaggio, due mesi prima, in tutto il reggimento serpeggiava l’attesa dello scontro con il nemico. Malgrado la stanchezza e la contrarietà per la mancata licenza, le guerriere si erano fatte forza, usando gli Aldair anche come confidenziali compagni di sfoghi.

    Daigo legò il mustano alla posta, consapevole del formicolio che lo pervadeva. Era sempre così quando si avvicinava il combattimento. Malgrado fossero ormai più di undici anni che si batteva solo per addestrarsi, ricordava ancora le battaglie alle quali aveva partecipato da giovane. Tempo addietro aveva pensato spesso che vivere da guerriero e da capo fossero le uniche cose per cui valesse la pena tornare alla sua tribù.

    Poi, le cose erano cambiate.

    ***

    – Dobbiamo mandare subito un messaggio all’Alto Comando di Utria.

    Naydeia, attorniata dalle sue ufficiali, si era rivolta alla ma-dei Vannia. – Scegliete due donne. Porteranno lo stesso messaggio, ma partiranno a un’ora di distanza l’una dall’altra. Non possiamo rischiare che Oden rimanga senza rifornimenti.  

    Il cenno di obbedienza dell’ufficiale fu subito seguito dalla domanda di un’altra.

    – Perdonate, mia signora, ma non credete che, se anche mandassero un altro convoglio al più presto, arriverebbe comunque tardi?

    – Sono d’accordo con voi. Per questo faremo una deviazione dall’itinerario stabilito e ci dirigeremo verso l’avamposto. Cercheremo di portare loro del cibo.

    – Ma non possiamo privarci delle nostre scorte! – si intromise un’altra voce.

    – Non è questo ciò che faremo – rispose Naydeia, voltandosi a fronteggiare chi aveva parlato. – Avanzeremo lentamente e, lungo la marcia, un gruppo di guerriere avrà il compito di andare a caccia e procurare animali di qualsiasi tipo. Abbiamo una buona scorta di radici di bianhea e i cuochi possono raccoglierne altre lungo la pista. Lavoreranno sopra i carri in movimento, se necessario. Impiegheremo una decina di giorni per arrivare a Oden e per allora avremo pronta una discreta quantità di vernum.  

    – Credete che sarà sufficiente per più di duecento persone?

    Lei fissò la donna che aveva parlato.

    – Sarà sufficiente per tirare avanti. Sempre meglio che dover ammazzare i cavalli.

    Il silenzio che seguì a quell’affermazione fu interrotto dalla voce della ma-dira delle esploratrici.  

    – Se posso permettermi, mia signora, avrei un’idea.

    Naydeia si voltò. Stimava quella veterana dal volto sottile e i capelli ormai grigi.

    – Dite pure.

    – Sono già stata in questo territorio – affermò l’altra, con il suo solito tono basso e deciso. − Ricordo che a una decina di miglia da qui, verso nord, c’era un boschetto di alberi nutrice. E siamo nella stagione giusta per trovare i frutti maturi, pronti per essere macinati.

    – Pane! Un vero dono degli dei! – esclamò un’altra voce. – Le donne di Oden avrebbero farina sufficiente fino all’arrivo di un altro convoglio.

    Un fremito di sollievo attraversò la tenda, alimentato dall’entusiasmo che quell’informazione aveva provocato.

    – Bene – concluse Naydeia. – Ci metteremo subito in marcia. Ci riuniremo lungo la pista con la squadra mandata a bruciare i morti. Andate!

    Osservò le ufficiali uscire, ma la sua mente era già occupata a considerare i pericoli di quella situazione.

    Dov’erano i Qanaki che avevano attaccato il convoglio?

    Quanto sarebbe stato pericoloso mandare le arciere a caccia e una squadra a raccogliere il pane?

    Stava rischiando di far massacrare il proprio reggimento a poco a poco?

    Forse anche quelle mandate sulla pista della carovana massacrata erano in pericolo…

    D’un tratto, un brivido feroce le artigliò la nuca.

    Aveva ordinato a Ossidra di portare con sé tutti gli uomini non impegnati in lavori urgenti, senza pensare che tra di loro avrebbe potuto esserci Killiar.

    Fece per lanciarsi fuori dalla tenda ma, appena scostato il telo dall’apertura, un sussulto d’orgoglio la fermò. Non poteva comportarsi così. Non poteva correre a cercarlo per accertarsi che fosse ancora al campo. Tutti avrebbero riso di lei.

    Ma sapeva di non potere nemmeno restare nell’incertezza. Non sarebbe riuscita a pensare ad altro.

    S’incamminò con passo deciso verso il quartiere degli uomini. Lungo la strada avrebbe trovato di certo un buon motivo per chiedere di suo marito.

    ***

    Killiar deglutì, oppresso dall’odore di carne bruciata.  

    Il pezzo di stoffa, avvolto attorno al viso per coprire bocca e naso, non serviva a molto e gli dava fastidio. Il darvad che gli raccoglieva i capelli pesava, inzuppato di sudore.

    – Sei già stanco, uomo?

    La voce aspra dietro di lui lo irritò, ma non rispose. Era abituato allo scherno di certi lavoranti. Continuò a smontare lo scheletro di legno annerito che aveva di fronte; alcuni pezzi delle ruote erano ancora buoni.

    Ma chi aveva parlato non era disposto a rinunciare.

    – Perché non dici a tua moglie che le tue mani delicate non sono adatte per questa vita? – Il tono sarcastico si insinuava nelle orecchie con il suo alito astioso. – Se le chiedi perdono, forse ti manderà nel suo palazzo di Omira, a vivere nel lusso com’eri abituato una volta.

    Killiar sospirò.

    Non aveva senso spiegare che non aveva affatto offeso sua moglie e che il lavoro non era una punizione. Quella situazione era così strana che tutti si sentivano in diritto di ricamarci sopra.

    E molti uomini non gli perdonavano di aver perso in passato ciò che loro non avrebbero mai avuto. Una vita di agi, piena di donne da soddisfare.

    Nessuna femmina, nemmeno la più miserabile delle guerriere, si era mai accostata a loro. Non abbastanza attraenti per essere addestrati nell’arte virile, talmente insignificanti da essere lasciati nell’ignoranza di qualsiasi cosa non fosse puro istinto. L’unico piacere a cui potevano ambire era solitario e senza futuro.

    Uno spintone lo fece finire addosso alla carcassa del carro. Si voltò, infuriato, e, così facendo, evitò di un soffio il pezzo di legno messo di traverso sul cavallo dietro di lui. L’uomo che lo stava caricando gli sorrise, maligno.

    – Che c’è, libero amante? Non ti reggi in piedi dalla fatica?

    – Falla finita, Tianur! – inveì Killiar, esasperato.

    – Altrimenti che fai, dita-di-farfalla? – lo canzonò l’altro, a bassa voce.

    Anche lui sapeva quanto fosse pericolosa quella situazione, ma era evidente che non voleva rinunciare.

    Gli si avvicinò, brusco.

    – Ti sei dimenticato che non sei più un uomo libero, lingua-di-velluto? Che succederebbe se ti togliessi quella rete dai capelli? Vogliamo vedere quanto si arrabbierebbe tua moglie?

    Killiar alzò il braccio mentre l’altro allungava di scatto una mano verso il suo darvad, ma non fu soltanto questo a fermarlo.

    Un sasso grande un palmo arrivò da destra e colpì Tianur sul volto.

    Questi barcollò e si portò la mano al viso con un’esclamazione soffocata.

    – Tianur, amico mio, cos’è stato? − disse la voce di Nidrat.

    L’anziano caposquadra, assieme ad altri due lavoranti, stava accorrendo a sostenere l’uomo. Ma, appena gli fu vicino, cambiò tono. – Cosa stai cercando di fare, merdoso idiota? – sibilò, mentre uno dei compagni abbrancando il ferito, lanciava sguardi attenti alle guerriere che sorvegliavano i dintorni.  

    – Sei stato tu, maledetto! – si lamentò l’attaccabrighe.

    – Certo! − rispose il vecchio. − E la prossima volta ti spacco quella zucca vuota che hai al posto della testa! Non voglio guai con la comandante, mi hai capito bene?

    Killiar era sollevato da quell’inaspettata difesa, pur sapendo che gli uomini stavano proteggendo se stessi, non lui.

    – Attenti! – avvertì, sottovoce, quasi all’unisono con uno dei lavoranti.

    Una falconiera stava cavalcando verso di loro, di certo aveva notato la scena insolita.

    – Che succede, qui? – li apostrofò, con lo sguardo sospettoso, mentre i cinque piccoli uccelli verdi aggrappati alla manica di cuoio del suo braccio sinistro si guardavano attorno, incuriositi.  

    – Niente di grave, mia signora – rispose Nidrat. – Soltanto uno che ha inciampato e ha sbattuto la faccia, ma si rimetterà subito a lavorare.

    La guerriera li squadrò, accigliata, poi annuì.

    – Bene. Allora muovetevi. Questo posto non è sicuro.

    Mentre la donna girava il cavallo e tornava al proprio compito Tianur ritrovò la voce.

    – Te la farò pagare, vecchio!

    Il caposquadra non sembrò affatto intimidito.

    – Allora sei proprio idiota del tutto, sacco di merda! – inveì, tra i denti. – Ascoltami, imbecille: con quel sasso ti ho salvato la vita, ma non lo farò un’altra volta. Non lo sai chi è l’unico giudice nel raggio di cento miglia? L’ufficiale più alto in grado: Naydeia. Credi che se ti facessi sorprendere a litigare con suo marito ci penserebbe due volte a farti impiccare come sospetto contagiato? Pensi davvero che non sarebbe disposta a farci impiccare tutti pur di salvarlo?

    Killiar vide lo sguardo di Tianur posarsi su di lui, colmo di un odio profondo.

    – É il Legame, stupido – continuò l’anziano. – Perché credi che una donna come lei abbia voluto sposare un uomo povero?  

    Il Legame.  

    L’avevano capito tutti, rifletté lui, l’uomo povero e intoccabile. Naydeia era convinta di aver nascosto bene i propri sentimenti, ma bastava il loro strano matrimonio a rendere evidente la situazione. Gli uomini disprezzavano e temevano quell’unione, così come le donne la dileggiavano e biasimavano.

    Si sistemò il darvad, scivolato all’indietro durante il brandello di colluttazione avuta con Tianur.

    Era importante che il copricapo fosse sempre in ordine, era un segno di rispetto verso sua moglie.

    I tre lavoranti si divisero, solo Nidrat rimase vicino a lui, per continuare a caricare il cavallo.

    Non lo guardava nemmeno, faceva il proprio lavoro e basta.  

    Forse non aveva alcuna importanza, ma Killiar non voleva rimanere in silenzio.

    – Ti ringrazio – disse.

    L’altro gli rivolse appena uno sguardo.

    – Non l’ho fatto per te.

    – Lo so – rispose – ma io non cerco guai. Voglio vivere in pace.  

    Il vecchio lo fissò.

    – Se lo pensi sul serio allora sei più stupido di Tianur.

    Parole che suonavano come una sentenza.

    – Cosa vuoi dire?

    Una domanda che divenne superflua nel momento stesso in cui la formulò. Conosceva la risposta.

    – Tu vorresti vivere in pace, eh? – ribadì il caposquadra, sarcastico. – Con quella faccia e la tua reputazione? Vorresti vivere in pace in mezzo a un branco di donne che hanno conosciuto la tua arte e adesso non possono neanche toccarti? – Gli si avvicinò, il viso duro e ostile. – Ascoltami bene, imbecille. Il tuo problema, qui, non siamo solo noi maschi, sono tutte le femmine che vanno in calore appena ti vedono. Non vuoi guai? Peccato, perché tu sei un guaio che cammina.  

    Killiar, aggredito da quelle parole senza pietà, rimase in silenzio.  

    Ma, prima che entrambi tornassero al lavoro, si udirono una serie di brontolii minacciosi.  

    – I vodron sentono qualcosa − mormorò l’anziano.

    Subito le grida delle domatrici riempirono l’aria. I lupi rossi che sorvegliavano i lavori di smantellamento si lanciarono nell’erba ai lati della pista. Le falconiere si erano immobilizzate al proprio posto, con il braccio sinistro alzato, pronte a lanciare in volo i dighli, non appena il nemico avesse osato farsi vivo.

    Killiar stava osservando quella che poco prima si era avvicinata, quando vide la freccia piantarsi nel suo collo, giusto al di sopra della corazza. Un colpo fortunato per l’arciere che ne era l’artefice, ma inutile a proteggerlo dalla ferocia degli uccelli che lei portava con sé. I dighli si staccarono dalla manica e sfrecciarono via, velocissimi, in cerca di un nemico a cui mangiare gli

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