La donna dagli occhi d'oro
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Antonio D'Orrico
Un'indagine di Max Mariani
Dall'autore del bestseller Il gigante sfregiato
Max Mariani, un detective romano, riceve un giorno la visita di Helmut Moreno, un ragazzetto che si atteggia a grande boss. Sua madre – gli rivela Helmut – avrebbe assoldato un sicario per ucciderlo. In cambio di diecimila dollari, Max deve trovarlo e consegnarglielo. Ma poche ore dopo aver accettato l’incarico, Max riceve la visita di un uomo armato, che gli ruba i soldi avuti e lo minaccia di morte. Eppure sarà proprio lui a morire: appena esce dall’appartamento viene freddato sul pianerottolo, e il denaro che ha con sé sparisce. L’ulteriore complicazione – che scatena le indagini della polizia – arriva quando anche Helmut Moreno viene ucciso. E a questo punto Max Mariani decide di vederci chiaro: parte alla volta di Trieste per incontrare Ursula Koch, la madre di Helmut, donna bellissima e dallo sguardo magnetico. Basta poco perché tra i due esploda la passione. Ma Ursula è una donna ambigua, così come ambigue sono le sue frequentazioni… Chi è in realtà? E cosa nasconde? E soprattutto, cosa sa lei della morte del figlio?
Ha scritto centinaia di sceneggiature per il cinema ma la passione per il thriller lo ha portato in libreria. Enrico Vanzina è tornato.
Autore dei bestseller Il gigante sfregiato e Il mistero del rubino birmano
Hanno scritto di Enrico Vanzina:
«Questo è un gran bel romanzo scritto da un vero scrittore.»
Antonio D’Orrico
«Omicidi romani in salsa multietnica. Un esordio che non delude.»
la Repubblica
«Una storia a tinte forti che si colora di commedia.»
Il Messaggero
Enrico Vanzina
È nato a Roma, tempo fa. Suo padre, Steno, era un regista. Il fratello Carlo, un regista. Lui, invece, fa lo sceneggiatore. Ha firmato circa cento film, alcuni dei quali famosissimi. Fa il giornalista, ha scritto per il teatro ed è autore di dieci libri. Nel 2013 con la Newton Compton ha pubblicato il suo primo romanzo giallo Il gigante sfregiato, acclamato dalla critica, con cui ha vinto il prestigioso premio di letteratura internazionale della Città di Penne, Il mistero del rubino birmano e La donna dagli occhi d'oro.
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Anteprima del libro
La donna dagli occhi d'oro - Enrico Vanzina
1
Il cliente di Panama
Era un giovanottino decisamente alto, capelli biondi impomatati con cura, doppiopetto grigio, camicia sintetica e una cravatta pacchiana che avrebbe fatto venire l’orticaria a Coco Chanel. E con un sorriso da malfattore.
Sedendosi alla mia scrivania, mi fissò con apparente simpatia e disse sfoderando uno stridulo accento del Nord:
«Lei, signor Max, coincide in maniera sfacciata con quello che uno immagina debba essere un investigatore privato».
Istriano o triestino. Umorismo enigmatico, dal lessico ricercato.
Gli risposi con una punta di sarcasmo:
«Infatti faccio il detective. Per i più distratti ho messo perfino una targa fuori dalla porta. Probabilmente l’avrà notata».
Mi suonava strano dare del lei a quel ragazzino che si dava arie da uomo maturo.
Lui sorrise e aggiunse:
«M’immagino un detective come un tizio ben piantato, vagamente malinconico, avaro di parole ma attento a quelle dei suoi clienti».
«Esatto. Io però cerco anche d’interpretare le loro intonazioni».
«E la mia com’è?»
«Sfacciatamente falsa», risposi.
Stavolta il giovanottino si mise a ridere. Aveva un sorriso aggraziato e luminoso. Ma era solo una copertura: aveva tutta l’aria di essere un tipo irascibile e subdolo.
«Mi è simpatico, signor Max. Di solito quelli che si divertono a stuzzicarmi finiscono con il setto nasale rotto. Con lei, invece, penso che finirò per diventare amico».
Faceva il duro, ma pareva la caricatura di un gangster da fumetti. Gli lanciai uno sguardo annoiato e dissi:
«Faccio il detective per sbarcare il lunario. Non cerco compagnia, tantomeno certe amicizie virili. La sera, rientrando a casa, mi accontento di dividere i miei guai con una bottiglia di vodka. L’unica cosa che mi entusiasma di me stesso è che non fumo».
Stavolta incassò la risposta con leggero fastidio. Si chiamava Helmut Moreno, passaporto italiano ma di padre panamense e madre tedesca, come mi aveva raccontato appena arrivato. Quella mattina, mi era piombato in ufficio mentre stavo inutilmente cercando di rianimare il vecchio apparecchio dell’aria condizionata che stava tirando le cuoia.
Helmut riprese a parlare:
«Anche io sono pieno di guai. E non sono felice. Ma se non cerca calore umano, signor Max, lasciamo da parte i sentimenti. Io la pago e lei si limiterà a fare tutto quello che le chiedo».
«Tutto? Nel vocabolario, alla voce libera professione
, non mi sembra ci sia scritto esattamente questo», gli feci notare.
Cominciava a seccarsi, il bamboccio. Senza ribattere, tirò fuori una busta dalla tasca interna della sua giacca.
«Sono diecimila dollari. Niente domande, io i soldi li guadagno in questa valuta».
Non feci domande. Lui lasciò scorrere la busta verso di me, sul piano della scrivania. L’aprii. Dentro c’era un tripudio di bigliettoni verdi. Con la crisi che c’era, qualsiasi fruscio di banconota pareva manna caduta dal cielo. Anche se di quei tempi arrivava sempre da mezzi delinquenti.
«Sorprendente, signor Moreno. La possibilità di diventare amici comincia ad avere qualche fondamento concreto», commentai con un sorriso compiaciuto. «Cosa vuole che faccia per lei?»
«Mia madre ha ingaggiato un sicario per farmi fuori. Lo deve trovare. A lui poi ci penserò io. È un problema mio».
Quel bravo ragazzo era uno che faceva progetti. Io, invece, per il momento, no. Perché il suo problema era anche il mio. Fissai la busta con dentro i diecimila bigliettoni e gli chiesi:
«E se quel tizio che devo trovare facesse fuori me? Diecimila dollari sarebbero un magro lascito per i miei eredi».
«Un detective non ha eredi», sentenziò lui beffardo.
Non era uno stupidotto qualunque. Aveva una certa dimestichezza con le miserie di chi esercita la mia professione. Infilai la busta nel cassetto della scrivania. Stavolta, con il progetto di tenerla.
«Perché sua madre vuole liberarsi di lei?», domandai.
Helmut sospirò. Malgrado la sua aria da delinquente, sembrava visibilmente preoccupato.
«Di solito si uccide per odio o per soldi. Nel caso di mia madre, tutti e due».
Poi, dopo una pausa, aggiunse:
«Ma il fatto più grave è un altro: mia madre è una psicopatica. Non prova emozioni vere. Ha vissuto tutta la sua vita ingannando gli altri e amando follemente solo se stessa. È una donna crudele che non sa cosa significa il rimorso. Adesso forse capisce perché non sono felice…».
«Helmut, lei quanti anni ha?», mi venne da chiedergli.
«Ventitré».
«E allora che altro importa?»
«A che cosa serve essere giovani se si vive nell’angoscia?», rispose Helmut.
Era una storia complessa. Il ritratto che il giovanotto mi aveva fatto di sua madre pareva uscito dalla trama di uno di quei meravigliosi film americani degli anni Quaranta: una pazza schizofrenica, o paranoica, ma molto lucida, che imbambola il protagonista perché lo vuole uccidere.
Mi adagiai comodamente contro lo schienale della poltrona.
«Come ha avuto il mio indirizzo?», gli chiesi.
«Diciamo che non l’ho trovato sulle pagine dell’elenco telefonico», rispose. «Qualcuno mi ha consigliato di rivolgermi a lei. Comunque tutto ciò non ha importanza. Prima di fare domande, un detective è un tizio che ascolta le disavventure degli altri, no?».
Sorrisi e replicai:
«Sono tutt’orecchi, signor Moreno. La parte più interessante del mio lavoro è quando un cliente mi racconta perché il destino lo ha fatto scivolare in un mare agitato. E mi sembra che il suo sia in tempesta».
Helmut smorzò il mio entusiasmo:
«Non sono venuto qui a raccontare la mia biografia. Voglio solo evitare di ritrovarmi con qualche grammo di piombo nel cervello per mano di un sicario. A lei basterà sapere chi sono e da dove vengo. Tutto il resto è coperto dal segreto professionale pagato profumatamente dai soldi che ha appena intascato».
Si accese una sigaretta e con tono sbrigativo mi mise brevemente a conoscenza di alcuni dati essenziali che lo riguardavano. Poi, scarabocchiò sulla mia agenda il numero del suo cellulare. Spense la sigaretta in terra, sotto la suola del suo mocassino di marca, si alzò e uscì dall’ufficio senza nemmeno salutare.
Era un tipo così, Helmut Moreno.
Nel pomeriggio scoppiò un violento temporale estivo.
La pioggia ticchettava contro i vetri delle finestre del mio ufficio. Mi ero messo a fissare il fiume, sotto l’argine del Lungotevere, dove transitavano tronchi giganteschi, con qualche gabbiano zuppo appoggiato stancamente sopra. Un breve scroscio d’acqua che, invece di rinfrescare l’aria, fece salire a livelli insopportabili l’umidità.
Ripassai alla moviola della memoria l’ultimo brano della nostra conversazione, quando Helmut mi aveva frettolosamente tracciato il suo identikit:
«Nel 1993, mio padre Manuel Moreno era primo ufficiale su un cargo panamense. Durante uno scalo a Trieste, incontrò in un night club Ursula Koch, una bellissima ballerina tedesca. Accadde tutto in una notte. Al momento di salpare da Trieste, papà scese dalla passerella della sua nave con la valigia in mano e andò a vivere con Ursula. Un mese dopo si sposarono in municipio. E dopo qualche tempo nacqui io. Questo accadeva ventitré anni fa. Ma nel frattempo mio padre è morto, lasciandomi in eredità due cose: la Slavia Export, un’avviata azienda di import-export di auto di lusso, e una madre pazza che vuole uccidermi».
Aveva smesso di piovere. Nel mio ufficio, senza più aria condizionata, il caldo si era fatto insopportabile. Presi il mio piccolo quaderno di appunti in pelle nera, la vecchia stilografica che mi aveva regalato mio padre da ragazzo, uscii e mi trasferii in un tavolino interno del locale a due passi dal mio ufficio, all’angolo con Ponte Cavour. Lì, confortato dal fresco climatizzato che usciva a fiotti dai bocchettoni del soffitto, rimisi in fila, nero su bianco, la breve e curiosa storia di Helmut e della sua famiglia male assortita. Buttando giù, a margine, qualche strategia per proteggerlo.
Malgrado il caldo, mi sentivo bene. Nell’ultimo periodo avevo perso un po’ di peso e questo aveva fatto crescere la mia autostima. Solo che mi mancava l’azione. Era da diversi mesi che non mi capitava un caso interessante per le mani. E quello di Helmut Moreno pareva finalmente esserlo.
Quella sera cenai, in splendida solitudine, da Lello, la mia trattoria abruzzese di riferimento al Flaminio, un brutto quartiere di una brutta città. Roma è piena di marciapiedi sfondati, di alberi piantati a casaccio, di muri sfregiati da scritte della new era analfabeta, è piena di negozi fatiscenti, di quartieri senza capo né coda, di segnaletica stradale in perenne bilico statico. È un disastro disorganizzato.
Dopo aver pagato il conto, restai qualche minuto ad ascoltare gli aneddoti ippici di un vecchio cameriere che si era rovinato l’esistenza per correre dietro a cavalli che correvano poco. Tra i tanti personaggi che la vita ci butta sul piatto quotidiano, i giocatori d’azzardo sono tra i più interessanti. Tutti con un’identica storia alle spalle, ma tutti convinti di vivere un’avventura speciale. E tu stai lì ad ascoltarli, già sapendo che il finale sarà sempre lo stesso: soldi buttati al vento.
Dopocena, l’idea di rientrare nel mio buco patologicamente in disordine – i piatti sporchi oramai me li ritrovavo negli scaffali della libreria accanto a Turgenev e Mark Twain – mi parve insopportabile. Così prenotai una corsa a buon mercato su Uber e mi feci scarrozzare fino al Besame Mucho, zona Termini, un lounge bar frequentato da mezzi miserabili e malavitosi di seconda fascia, dove però la filosofia dei proprietari è: il cliente si deve divertire. In quel locale, avevo stretto una sorta di amicizia affettuosa con Dayana, mulatta tutto pepe con la quale avevo già dato un senso a diverse serate uggiose. Quando entrai, la vidi stancamente appollaiata su uno sgabello del bar. Tamburellava sul vetro del bancone con le sue unghie ricoperte di smalto dorato. Si accorse di me e in un batter d’occhio accavallò le sue lunghe gambe scure che uscivano da sotto una minigonna giallo canarino, gonfiò il petto tanto da far quasi esplodere il suo approssimativo top e mi lanciò uno sguardo malizioso che era una promessa a senso unico. Le storie con Dayana erano come quelle dei giocatori di cavalli, sapevi che sarebbero finite sempre nello stesso modo: soldi buttati al vento.
Le offrii una coppa di Veuve e mi accomodai al bancone con davanti un’Absolut doppia. Era da un po’ che non ci vedevamo. E appena attaccò a parlare, nel suo cantilenante italo-castigliano, mi tornò in mente un fatto curioso: anche Dayana aveva origini panamensi. Come Helmut Moreno, il mio nuovo cliente.
«Pensa, oggi ho conosciuto un tuo mezzo paesano, con un papà di Panama», le dissi.
«Un bastardo, seguro», fece lei con una smorfia. «En Panama son asì».
«Lui però è nato a Trieste. Con una madre tedesca che faceva lo stesso lavoro che fai tu».
Dayana sorrise ed esclamò:
«Che ti ho detto? ¡Un hijo de puta!».
«Sì, hai ragione. È un ragazzino che gioca a fare il gangster. Ma mi ha riempito di dollari e io da circa dodici ore lavoro per lui».
La parola dollari
diede a Dayana una scarica di adrenalina. Immaginò che, a fine serata, una bella