IL Castello della Verità
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ROMANZO STORICO.
L'ambientazione è nella Milano dei Visconti.
Un uomo scompare. Rapito? Fuggito? Ucciso?
L'episodio misterioso si verifica praticamente sotto gli occhi del figlio che non si dà pace: il ragazzo - deciso a trovare una risposta - affronta una serie di avventure e incontra tutta una serie di strani personaggi, fino ad arrivare a Milano, alla corte dei Visconti, nel celebre Castello.
Il romanzo è una ricostruzione storicamente fedele per personaggi, situazioni e ambienti ed è un tuffo nella Milano che precede questa dei grattacieli.
Molti di quei luoghi sono tutt'ora riscontrabili e spesso anche nei nomi (Via Orefici, via Armorari, via Speronari, via Spadari...)
Guido Sperandio
Guido Sperandio was born and lives in Milan. A freelance writer for some thirty national newspapers and magazines, he later became a creative-copywriter in advertising.A writer for adults, he has also published for children and young people with major national publishers and in the USA.He has also written comics, including the legendary Topo Gigio and Tiramolla.After a life spent practising the most unbelievable genres of writing, he has recently replaced the cult of the Word with a passion for the Image. He has been seduced by Pop Art, starting with Andy Warhol & Co and is now working on and publishing a whole series of albums under the 'Guisp Collages' label.Any special notes?He has no mobile phone, no car or microwave oven, but he does have a very affectionate and intelligent cat called Tatablu.Guido Sperandio è nato e vive a Milano. Free-lance per una trentina di giornali e periodici nazionali, diventa in seguito creativo-copywriter in pubblicità.Scrittore per adulti, ha pubblicato anche per bambini e ragazzi con le principali case editrici nazionali e negli USA.Ha scritto anche fumetti, tra cui i mitici Topo Gigio e Tiramolla.Dopo una vita trascorsa a praticare i generi più improbabili di scrittura, ha recentemente sostituito il culto della Parola con la passione per l'Immagine. A sedurlo, la Pop Art, a cominciare da Andy Warhol & Co e così ora ha in corso l'elaborazione e la pubblicazione di tutta una serie di album con l'etichetta "Guisp Collages".Note particolari?Non ha cellulare, nè automobile o forno a microonde, ma ha una affettuosissima e intelligentissima gatta di nome Tatablu.
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Anteprima del libro
IL Castello della Verità - Guido Sperandio
Quella sera, 1399 Anno del Signore.
Suo padre non era tornato a casa, non era mai accaduto, ed Erberto aveva trascorso la notte con gli occhi spalancati nel buio, l’orecchio teso. Pronto a cogliere il minimo accenno di rumore: l’eventuale fruscio, fuori nell’erba, dei passi di suo padre.
Ma aveva udito soltanto il lamento delle civette, e i versi degli animali nella foresta.
Appena era filtrato il primo chiaro, il ragazzino aveva lasciato il suo giaciglio di paglia. Aveva scavalcato i corpi dei fratelli che dormivano accanto, attento a non svegliarli. Ed era sgattaiolato all’aperto.
*
La sua era una baita. Di pietra grigia. Senza finestre. Col tetto di lastre, pure di pietra, grigia. Sorgeva su una balza. E godeva di una buona vista sulla valle. Sotto, ai piedi della balza, stava raccolto un gruppo di altre casupole, parte di pietra grigia e parte di legno. Si premevano l’una contro l’altra, proprio come le pecorelle di un gregge. Ed Erberto, appena fuori, fu avvolto dal fumo dei loro camini. Saliva da sotto, da sotto la balza. Segno che la gente nelle case si era alzata.
Erberto allungò le braccia contro il cielo, si stirò, e mentre si sgranchiva, scorse con la coda dell’occhio la testa di sua madre, che sporgeva dal recinto dove alloggiavano le capre.
Sua madre era già a mungerle, si disse Erberto. Un nuovo giorno era incominciato. La vita stava riprendendo com’era stata il giorno prima, e il giorno avanti, e avanti ancora, e come sempre, da sempre. Uguale. Come se niente fosse accaduto, pensò Erberto. Mentre si affrettava a correre con lo sguardo nella valle. Giù. Nel buio della gola.
Perché lì stava racchiusa la risposta al mistero della scomparsa di suo padre.
Era da lì che suo padre doveva ritornare.
*
In quel punto la valle si stringeva. Ai fianchi si alzavano le alte montagne e sul fondo correva incassato un torrente che sprigionava un fragore sproporzionato alla sua portata.
L’acqua saltava guizzando tra i sassi, nervosa, isterica, a scatti. E spumeggiava rabbiosa, ogni qualvolta cozzava contro una roccia o un masso che la contrastava.
Pareva, dal frastuono. che tutte le acque dell’universo fossero confluite lì a scatenarsi, mentre era soltanto poco più di un ruscello.
Piccolo, brutto e cattivo.
(Come si usa dire anche di certi esseri umani.)
*
Quanto alle alte montagne.
Non mostravano un carattere migliore.
Salivano erte, scure e minacciose, a partire dalle rive del torrente. E si ricoprivano mano a mano di aceri, faggi e castagni. E querce. Possenti.
C’era anche qualche betulla.
Con i tronchi bianco-zebrati che spiccavano nella penombra cupa della foresta, e la montagna saliva parecchio prima d’incontrare il sole. Occorreva superare i boschi, e poi ancora le foreste di conifere (abeti, larici e pini), e solo quando anche queste diradavano in prati… Ecco, il sole.
(Sempre che non tirasse la tramontana, e avveniva spesso. Perché allora il cielo si copriva di nubi dense, nere, da stupire che ne uscisse della neve così candida.)
*
Gli occhi di Erberto si appuntarono su un serpentello bianco che passava sopra alla gola. Era un sentiero, e il bianco era la ghiaia, chiara in quel tratto, che ne costituiva il fondo.
Il sentiero partiva da chissà dove, oltre la cornice delle vette, a settentrione. A monte dei monti da cui la valle stessa si dipartiva. Ed era la via seguita dai pellegrini che venivano dall’Europa, da ogni parte, per continuare fino a Roma. Qualche volta passavano anche dei mercanti, ma raramente. Più spesso, Erberto aveva visto dei soldati, a cavallo. Mercenari di qualche compagnia di ventura.
Vederli passare, giù, dentro le corazze, con i loro vessilli al vento, variopinti, eccitava la fantasia di Erberto.
Qualcuno, lassù dove il ragazzino abitava, gli aveva detto che il sentiero scavalcava montagne, valichi e passi, burroni, antichi ponti romani, e dopo avere costeggiato laghetti di montagna e grandi laghi, e ruscelli, torrenti e fiumi, sfociava in una grande pianura infinita, dove il sentiero si allargava fino a diventare strada, a volte perfino lastricata.
Del resto, era la sola e unica via che univa la valle al mondo. E va aggiunto che chi la imboccava spesso (molto spesso) non arrivava a destinazione. Per i pericoli. E le insidie di ogni genere.
Appunto.
La chiamavano Via Mala.
*
Erberto, adesso, scrutava la gola nera. Là il torrente formava un’ansa dove le trote si fermavano: indugiavano in attesa di riprendere la corsa, e si affollavano, grosse e numerose, facevano il pieno di insetti e moscerini.
Suo padre era abile a pescarle. Era capace di afferrarle anche (addirittura) con le mani, al volo, non appena affioravano, al pelo, ed era una sfida al colpo d’occhio sul filo della frazione di un istante.
Suo padre, il giorno prima, si era calato laggiù per prendere del pesce, e fare la provvista.
Mentre Erberto, dalla soglia della sua casupola, frugava con lo sguardo nei cespugli di sambuco che si protendevano sull’ansa, e nella vegetazione fitta circostante, sua madre aveva spinto le capre fuori dal recinto. Il ragazzo, riscosso dai belati, aveva staccato gli occhi dalla valle, e seguito con gli occhi sua madre che accompagnava le capre in alto, dove si aprivano i prati. Qui, la donna le aveva lasciate a pascolare, e s’era incamminata verso la chiesetta che sorgeva lì vicina.
*
Era un insieme di case senza nome, in una valle senza nome. Troppo povera e dimenticata per meritarne uno. Ma una chiesa c’era.
Costruita sasso su sasso, di pietra, grigia, la stessa delle case, occupava la posizione più privilegiata, esposta al sole. Si profilava contro il cielo. Dominava. Come si conviene alla Casa del Signore.
Era poco più di una cappelletta, rifletteva la povertà dei suoi fedeli, e nemmeno era dotata di una campana che, sebbene piccola e modesta, sarebbe stata un lusso, impensabile. Ma bastava per fare arrivare di tanto in tanto un frate a dire Messa, e ad avvisare che era Pasqua o Natale, o che ricorreva qualche altra festa principale. (Come Ognissanti.)
Perché lì nessuno aveva un calendario. La misura del tempo la davano la luna e il sole.
(La luna indicava i mesi, a secondo di come appariva, se smilza o piena. Mentre il sole funzionava da orologio: scandiva le ore del giorno col suo cammino attraverso il cielo. Toccava poi ai germogli delle piante, e ai fiori, e ai frutti annunciare le stagioni. E alla neve e al gelo dire ch’era inverno. E ciò bastava. A uomini. E ad animali. A regolarsi.)]
Raggiunta la chiesetta, sua madre era entrata, ed Erberto non poteva più vederla, oltre la porta. Ma sapeva che sua madre adesso era inginocchiata ai piedi del Cristo. A supplicarlo.
Dentro la chiesetta infatti campeggiava una grande Croce con un grande Cristo. Di legno. Al naturale, il più sincero: non lucidato né dipinto.
Era legno di pino cembro, il migliore, perché tenero ma compatto, e duttile al giusto punto per essere scolpito e lavorato, e dalla Croce emanava gradevole fragranza di pino.
Il Cristo portava intagliato nel suo viso il grande dolore del mondo, e la sofferenza della carne straziata. Ed Erberto si disse che non era mai successo che sua madre andasse a pregarlo, a quell’ora.
È per mio padre - pensò -, segno che la cosa è grave.
Più che triste, era sorpreso. Fino a essere stordito. Tutto era accaduto all’improvviso. Stava sulla soglia della sua baita, frastornato, senza muoversi, e dalle casupole, sotto la balza, arrivavano brandelli di voci e di discorsi. Frammisti ai versi degli animali, che formavano con i cristiani una grande unica famiglia.
Uomini e donne, galline e asini, bambini, cani e gatti, e capre, si condividevano gli stessi spazi, e le giornate. Specie l’inverno, quando esseri umani e animali si stipavano nelle casupole, mischiati gli uni agli altri, in un reciproco scambio di cibo e di calore, per sopravvivere al freddo che fuori imperversava, e non perdonava chi, nella buona stagione, non aveva previdentemente messo da parte le provviste (mele, miele, orzo, avena, segale, cavoli, castagne e noci, formaggio, fieno).
Il ritorno di ogni primavera era salutato col sollievo, e la festa, di chi ha superato un duro, interminabile viaggio, assediato dal ghiaccio, e approda sano e salvo al sole.
(La stretta vicinanza conferiva a uomini e animali lo stesso sentore, grosso e grasso, di strame, e di stallatico. Portato dal vento nella foresta, faceva venire l’acquolina in bocca ai lupi, e alle belve, che nei loro anfratti, covavano agguati, e attacchi, per soddisfare la loro eterna fame. Era tutto un solo grande corpo a corpo: la grande lotta per la vita.)
*
L’attenzione di Erberto era stata risucchiata dal vortice di voci e rumori che salivano dalle casupole. I galli avevano finito di cantare da parecchio, e la vita era ormai in piena attività, e il ragazzino, da dove si trovava, poteva seguire i movimenti attorno alle casupole.
Ciascuno era intento a sbrigare le sue cose, e c’era chi si aggiustava l’ascia e chi, attento, frugava nella paglia per rintracciare le uova che le galline (sbadate!) gli avevano deposto a casaccio, senza alcun criterio.
E c’era chi accudiva al suo somaro, e lo strigliava: col somaro che ragliava, e in quel modo ringraziava, grato, o protestava, riluttante e irritato. A secondo del suo umore, e della socievolezza del carattere.
La vita non aspetta, e ciascuno faceva le proprie cose, e siccome tutti erano vicini l’uno all’altro, a tiro di voce, mentre lavoravano, operosi come le formiche laboriose in un formicaio, commentavano la novità del giorno: la scomparsa del padre di Erberto.
Lì non accadeva niente che non si risapesse, e tutti erano al corrente della scomparsa… praticamente da prima che avvenisse!
(Nelle casupole era come non ci fossero pareti. O meglio. Era come se i muri, invece che di pietra spessa e grossa, fossero di carta velina o di vetro, trasparente. Le casupole erano incastrate l’una nell’altra, con porte e finestre che le apriva una sull’altra. Lo schiocco di un guscio spezzato era sufficiente perché l’intera comunità fosse informata che era stata rotta una noce. E, quella mattina, era bastato che una donna vedesse la madre di Erberto entrare nella cappelletta perché subito si risapesse che il padre non era riapparso nemmeno dopo quella notte.)
*
Erberto seguiva con gli occhi la gente delle casupole ma la distanza gli impediva di sentire quello che dicevano. E, a un certo punto, vide uomini e donne abbandonare occupazioni e attrezzi, e riunirsi.
(Più tardi avrebbe appreso che tutto era nato dalla frase di una donna: «Bisognerebbe far qualcosa, invece di stare qui… Le mani in mano…». La donna si riferiva chiaramente al padre di Erberto, e stava lavando dei panni in una tinozza. Tanto aveva detto e insistito – tra un’insaponata e una sbattuta di panni e una strizzata – che anche gli altri s’erano convinti a non lasciare il poveretto, volatilizzato al suo destino.)
Erberto vide il gruppo discutere animatamente, e a turno, ora l’uno ora l’altro indicava giù verso la gola. Il ragazzino capì dai gesti, verso la gola, e dall’espressione dei visi, accorata, che si parlava di suo padre. E che se ne parlava come se gli fosse toccato qualcosa di preoccupante. Erberto provò una stretta al cuore.
Ansioso di sapere cosa dicessero, e avere notizie, Erberto si affrettò a raggiungere il gruppo. Ma, mentre si avvicinava, il gruppo si mosse verso il grande noce, sotto il quale stavano seduti i vecchi. I saggi. Coloro a cui per tradizione ci si affidava per ogni consiglio e questione piccola e grande, pubblica ma anche privata, e personale. (I saggi funzionavano anche da tribunale: componevano le liti e giudicavano.)
Tante verità, quale la «vera»?
I vecchi, in realtà, erano due, soltanto. In proporzione alla comunità che era minuscola.
Si chiamavano rispettivamente Frido e Valdo, ed erano tanto vecchi che nessuno, loro per primi, sapeva più la loro età. Non c’erano d’altronde registri parrocchiali a ricordarla. Non c’era anzi neanche una parrocchia, o se c’era chissà dov’era. Oltre la valle.
A guardare Frido e Valdo non si riusciva