Occidente. Le idee che hanno portato allo Stato democratico
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Anteprima del libro
Occidente. Le idee che hanno portato allo Stato democratico - Raffaele Carboni
gazometro
© 2014 Lantana editore srl
Copertina di Valentina Volpi
ISBN: 978-88-97012-35-1
www.lantanaeditore.com
Raffaele Carboni
OCCIDENTE
Le idee che hanno portato allo stato democratico
SOMMARIO
INTRODUZIONE
LA DISUGUAGLIANZA NEL MONDO PAGANO
MONOTEISMO E TEOCRAZIA NELLA CIVILTÀ EBRAICA
IL CRISTIANESIMO
Le idee di libertà spirituale, uguaglianza e fratellanza 28
Le due Città
Caratteristiche della civiltà cristiana
IL MONDO DEI POPOLI CRISTIANI
Il feudalesimo
La regalità
Il governo del mondo
Le autonomie locali
L’organizzazione dei popoli
L’eresia
IL MONDO DEGLI STATI
Il cristianesimo senza Chiesa
L’autonomia etica della società politica
La nascita degli Stati sovrani
La comunità internazionale
La libertà religiosa
LO STATO MODERNO E IL PENSIERO SCIENTIFICO
L’IDEA DEL CONTRATTO SOCIALE
Lo Stato rappresentativo
Il contratto sociale
Il principio di legalità
La funzione etica della legge
LO STATO DEMOCRATICO
Le trasformazioni dello Stato rappresentativo
L’istanza parlamentare
I partiti politici
Il principio di nazionalità
La divisione dei poteri
Le due forme di Stato
Le forme di governo
Le carte costituzionali
LA COSTITUZIONE ECONOMICA DELLO STATO
L'UTOPIA
LA VICENDA DELLO STATO ITALIANO
NOTE
INTRODUZIONE
Questo libro è nato dalla riflessione che il meccanismo fondamentale della democrazia, che consente di ben amministrare lo Stato, è la designazione del Governo da parte dei cittadini, e dalla constatazione che talvolta questa regola può incontrare difficoltà ad affermarsi, perché ne mancano i presupposti, cosicché lo Stato assume forme distorte.
È cominciata così una ricerca a ritroso sulle tappe che hanno portato la civiltà occidentale a costruire quella forma politica che chiamiamo Stato democratico. Non è semplice, quando ci si ponga la domanda, dire perché esistono i parlamenti, perché è stata superata la monarchia assoluta nella quale i popoli hanno vissuto per secoli, perché la formazione della democrazia ha coinciso con un miglioramento generale sia delle condizioni di vita che dei comportamenti. La via migliore, anche se è la più ardua, è sembrata quella di cominciare dall’inizio, e d’individuare uno dopo l’altro gli anelli dell’evoluzione della civiltà occidentale, dall’impatto prodotto dal cristianesimo fino alle ultime vicende politiche italiane. Ne è nata un’opera che non è un’esposizione storica e neppure una trattazione sulle istituzioni politiche, bensì appunto una riflessione, necessariamente poggiante sull’illustrazione di alcuni eventi storici, sull’origine, sulla ragione e sui princìpi regolatori delle istituzioni pubbliche all’interno delle quali si svolge la nostra vita quotidiana e che plasmano il nostro modo di vivere.
A ben vedere, siamo abituati a classificare la storia occidentale in grandi periodi con riferimento all’assetto e alle trasformazioni del potere, come feudalesimo, epoca dei comuni, principato, assolutismo, Stati nazionali, e ci sfugge la peculiarità di questo stesso succedersi di forme d’organizzazione pubblica.
Non si tratta, infatti, d’occasionali mutamenti dovuti alla necessità d’adeguarsi a circostanze esterne, bensì d’una civiltà che, diversamente da altre rimaste uguali per millenni e che anzi tendono a cristallizzare le forme istituzionali e i modi di vita, possiede un’interna spinta evolutiva, in forza della quale ha trasformato continuamente le sue stesse regole sviluppando i suoi princìpi fondamentali, che sono quelli del valore preminente dell’individuo e della distinzione fra temporale e spirituale, fra società e individuo, fra pubblico e privato.
Seguendo queste riflessioni, senza doverle necessariamente condividere, il lettore imparerà da sé, come l’autore si augura, ad amare e apprezzare questa civiltà che ha prodotto, tutt’insieme, la scienza moderna, l’economia del benessere e lo Stato democratico; e a comprendere quali debbano essere le regole di funzionamento delle istituzioni politiche e quali ne siano le deviazioni.
LA DISUGUAGLIANZA NEL MONDO PAGANO
L’umanità ci si presenta, nella più remota antichità, divisa in gruppi reciprocamente ostili, o per lo meno che s’ignorano, che s’allontanano popolando il mondo man mano che da un gruppo se ne separa un altro, diversificandosi nella lingua, nelle abitudini, nel modo di vestire e nell’aspetto fisico. Non poteva esserci, in questo modo di vivere, nulla che assomigliasse ai nostri concetti di umanità e di uomo, d’individuo appartenente alla comunità umana e d’umanità come insieme di tutti gli appartenenti al genere umano, ma soltanto il concetto e il sentimento di membro del gruppo, e l’individuo aveva valore per gli altri soltanto se fosse componente della stessa comunità, partecipe della conoscenza personale reciproca, della lingua, della religione e dei metodi per procurarsi i mezzi di sussistenza, mentre ogni altro essere umano era visto come nemico. Anche uscendo dalla preistoria, un abisso ci separa dal mondo precristiano, ed è per noi impossibile immedesimarci con chi, normalmente e senza nessuna riprovazione sociale, praticava la schiavitù e l’infanticidio, sterminava i nemici, compiva con indifferenza raccapriccianti crudeltà e si divertiva a gettare esseri umani in pasto alle fiere. Un uguale abisso ci separa da altre civiltà rimaste lontane o sconosciute all’uomo occidentale fino ad epoca relativamente recente, che presentavano e in qualche parte presentano tuttora caratteri essenzialmente identici a quelli del mondo antico.
Alla base delle società, che per intenderci possiamo chiamare pagane, c’è una concezione rovesciata rispetto a quella dell’uomo occidentale contemporaneo. Quest’ultimo pensa e si comporta come se la società politica fosse il continuo risultato di un accordo tra gli uomini; per l’uomo pagano, come per l’uomo primitivo, è la società a dar valore all’individuo che le appartiene.
L’immedesimazione dell’individuo col proprio gruppo sociale è appunto la chiave per intendere la concezione politica del mondo pagano, se si tien conto che essa ha due facce, l’una delle quali è l’appartenenza completa dell’individuo alla società e al potere pubblico, l’altra è il sentimento d’estraneità per gli esseri umani non facenti parte dello stesso gruppo sociale; estraneità che si manifesta vistosamente nella crudeltà e che è appena mitigata da usi e istituti relativi ai rapporti tra popoli, come l’ospitalità e l’alleanza.
La predominanza della vita sociale su quella individuale appare chiaramente in materia di religione, quando si consideri che per l’uomo antico la religione era uno dei modi con cui si manifestava la sua appartenenza alla città o al gruppo. Il culto delle divinità, nato come propiziazione per la caccia o per i raccolti, era un’attività sociale, propria del gruppo e, almeno in origine, necessariamente praticata da tutti, al pari delle attività di provvista dei mezzi di sussistenza. Per l’uomo antico la religione è qualcosa di ben diverso che per l’uomo occidentale moderno, assuefatto a considerarla come un affare privato del quale la società non ha diritto di chieder conto; questo nell’antichità non avrebbe avuto senso. Ancora nel mondo greco-romano gli dèi erano gli dèi della città, diversi da quelli di altre città o di altri popoli, proteggevano la città e la rendevano prospera, aiutavano le truppe in guerra e si scontravano con gli dèi nemici; la loro potenza era potenza della città che li venerava, e viceversa, tanto più la città sapeva produrre divinità potenti quanto più era valorosa.
La divinità, per l’uomo antico, è infatti qualcosa d’ambivalente, che s’identifica con l’idolo che la rappresenta: entità misteriosa e oggetto che serve a controllarne la potenza magica, potenza ultraterrena più o meno terribile o benefica, e nel contempo feticcio o statua, prodotto della città e delle sue arti, al pari dei palazzi, delle opere di difesa, delle statue e dei dipinti. C’era nell'antichità un’arte, la teurgia, che consisteva nel riempire le statuette delle divinità con le sostanze necessarie per infondere loro le virtù magiche, e lo stesso si ritrova fra gli Aztechi, scoperti dagli europei nel XVI secolo, che veneravano le potenze naturali materializzate in idoli fatti di semi tritati e impastati con il sangue del cuore di vittime sacrificali umane. Senza tener presente questo carattere materiale e cittadino delle divinità non sapremmo spiegarci il fatto che gl’imperatori romani diventassero dèi dopo la morte, né capire che cosa spingesse ogni giorno numerosi cittadini a prendersi cura delle persone degli dèi, simulando sulle loro statue l’acconciatura dei capelli o la pulizia dei calzari.
Politica e religione, Chiesa e Stato, per dirla in termini moderni, sono distinzioni che non han significato per l’uomo antico, per il quale erano magistrati tanto il pretore quanto il pontefice massimo, era attività pubblica tanto l’amministrazione della giustizia quanto la consacrazione d’un tempio; e per il quale anzi, risalendo nel tempo, le stesse attività che più tardi saranno propriamente pubbliche e politiche, come la definizione d’un giudizio e la dichiarazione di guerra, si risolvevano in riti religiosi. A sua volta il potere pubblico poteva intervenire in qualsiasi aspetto della vita dei singoli, e i magistrati o i sacerdoti o gl’imperatori potevano ordinar loro tanto di pagare un’imposta quanto di sposare una determinata persona, di vestire in una certa foggia o di nutrirsi d’un certo cibo, o anche di darsi la morte; perché appunto non esisteva una distinzione tra l’uomo e il cittadino, e la comunità politica era tutto e l’uomo fuori della sua comunità non era nulla. La misura dell’immedesimazione tra individuo e società è data dal sacrificio umano, al quale le vittime si sottoponevano; esso, nella sua forma bruta o trasformato nel suicidio rituale, è presente dappertutto nelle società primitive e largamente presente, anche in epoca molto recente, nelle culture evolute di altri continenti, mentre per quanto riguarda il mondo greco-romano ne troviamo le tracce nei miti e una forma attenuata in quel supplizio che erano le lotte fra i gladiatori.
Accanto a questa onnipresenza della comunità politica la società pagana è caratterizzata da un’altrettanto grande estraneità e indifferenza per gli esseri umani non appartenenti allo stesso gruppo, cioè per gli stranieri e per coloro che, pur vivendo nello stesso territorio, non fanno parte della cittadinanza.
Per quanto riguarda i rapporti delle comunità umane tra loro, man mano che esse si fanno stanziali da nomadi che erano, sorgono la consapevolezza dell’esistenza di altri gruppi e la necessità d’intrattenere rapporti con essi; e tuttavia permane un profondo senso d’ineguaglianza, vale a dire che gli altri uomini vengono identificati come soggetti fondamentalmente eguali a sé soltanto se appartengano alla medesima comunità, alla città-stato o, al più, all’insieme di città popolate dalla stessa etnia. Perciò anche in epoca storica e nelle civiltà antiche più vicine a noi, il modo in cui vengono in considerazione gli altri, gli stranieri, i non appartenenti alla propria comunità, è quello della conquista, dell’assoggettamento e dell’asservimento, in aderenza a un pensiero che non è ancora capace di estrarre dall’esperienza l’idea d’individuo umano, uguale a sé e dunque avente valore di per sé e non comparabile con gli esseri viventi di cui l’uomo si serve.
Gli antichi elaborarono bensì l’istituto dell’ospitalità, che era un vero e proprio vincolo giuridico, anche trasmissibile agli eredi, tra famiglie di popoli diversi; ma appunto quell’istituto era un modo per prevenire, nel reciproco interesse, la sorte alla quale altrimenti si sarebbe andati incontro toccando terra in mezzo a una popolazione straniera: ancora nei primi secoli dell’impero romano lo straniero che si trovasse nei territori dei Germani senza l’ospitalità d’una famiglia locale poteva essere ucciso o venduto schiavo da chi se ne fosse impossessato.
Se la storia della civiltà, fino ad epoca recentissima, è storia di guerre, per l’uomo antico non soltanto la guerra è il modo normale di venire a contatto con gli altri popoli, ma l’epilogo naturale della guerra è lo sterminio o l’asservimento dei vinti. Possiamo supporre che l’incontro casuale tra due gruppi nomadi di uomini primitivi non desse luogo a manifestazioni propriamente amichevoli; ma anche gli storici dell’antichità ci narrano ad ogni pagina, con tutta naturalezza, degli eccidi in cui consistevano le capitolazioni di città o di eserciti nemici.
Per i condottieri era titolo di gloria l’aver piantato le insegne fra popoli che neppure avevano mai sentito nominare i Romani, e lo storico latino Tacito, per descrivere in che consistesse la pace che Roma si piccava di portare al mondo, nell’Agricola fa dire a un condottiero britannico che i Romani «fanno il deserto e lo chiamano pace» (ubi solitudinem faciunt, pacem appellant); e che non si trattasse di esagerazioni lo mostrano le crude immagini di strage dei vinti scolpite in bassorilievo sulla Colonna Traiana e sulla Colonna di Marcaurelio.
Gli scrittori latini avevano elaborato, per esprimere cordoglio a un concittadino illustre che avesse subìto un lutto, un apposito genere letterario, le consolazioni, alcune delle quali commuovono ancor oggi il lettore e restano, per l’elevatezza del sentimento e la profondità delle meditazioni filosofiche, opere eccelse della spiritualità. Ma quei medesimi uomini che scrivevano simili opere erano poi del tutto indifferenti al fatto che durante i trionfi dei generali vittoriosi venisse sgozzato il capo dei nemici vinti e che i prigionieri venissero gettati a centinaia in pasto alle fiere per divertire il popolo.
Oggi restiamo stupiti quando udiamo di eccidi del genere, che ancora avvengono tra popolazioni poco civilizzate; ma la matrice di questi comportamenti è la stessa degli analoghi comportamenti dei popoli antichi, cioè un sentimento radicale di disuguaglianza e di superiorità. Ci scandalizziamo quando scopriamo nel seno della nostra stessa civiltà residui di sentimenti razzisti, e mentre giustamente ci sforziamo di trattare da eguali gli uomini con la pelle di altro colore che abitano nei nostri Paesi, non ci rendiamo affatto conto di quanto a volte quegli stessi uomini possano essere razzisti tra di loro.
Il sentimento d’estraneità e di sopraffazione non riguarda soltanto i rapporti tra i popoli, ma condiziona anche la costituzione interna della società politica pagana, e raggiunge l’apice con l’istituto della schiavitù. Siamo ben lontani dal poterci capacitare della schiavitù, qual è stata praticata e concepita nel mondo mediterraneo fino a quindici o sedici secoli or sono, qual è stata ritrovata, identica a quella dei popoli antichi, nelle civiltà precolombiane del XVI secolo, e qual è stata, nel mondo antico, presso tutti i popoli che si fossero stanziati su un territorio precedentemente abitato. Esseri umani venivano comprati, venduti, regalati, potevano essere uccisi come si distrugge un oggetto, e stando a quello che narra Svetonio, storico latino del II secolo d.C., l’imperatore Nerone in certi momenti di megalomania faceva lanciare al popolo «tessere che davano il diritto di ottenere in regalo viveri, abiti, oro, argento, pietre preziose, perle, quadri, schiavi, bestie da soma…».
La schiavitù trae origine principalmente dall’assoggettamento dei popoli vinti, ed è l’effetto di quel sentimento primitivo di disuguaglianza che impedisce di vedere nello straniero un uomo simile a sé: il vincitore non ha ragione di considerare lo straniero vinto come qualcosa di diverso dal bottino. Una volta istaurato con la soggezione forzata, l’istituto si perpetua da sé, perché chi nasce schiavo in mezzo agli schiavi trova naturale la schiavitù non meno di quanto la trovi naturale il padrone nato padrone. Partendo dalla regola, indiscussa e addirittura ovvia per gli antichi, che il vincitore diventa padrone della città vinta, terra cose e persone, e ha pieno diritto d’uccidere i vinti, a maggiore ragione i vinti potevano essere trattenuti in proprietà o venduti; e la struttura schiavistica della società, derivante dalla concezione della guerra e dei rapporti tra popoli, veniva poi alimentata con le conquiste, con l’esposizione dei neonati, che potevano essere fatti schiavi da chi li prendesse, con la riproduzione in schiavitù.
Secondo l’etimologia dei Romani rimasta in voga per molti secoli, la parola servus, che in latino designa lo schiavo, deriva da servare, salvare o conservare, cioè appunto risparmiare il nemico vinto e nel contempo conservarlo per sé; si tratta d’una delle tante spiegazioni fantastiche dei grammatici antichi, e tuttavia il fatto che essi l’abbiano formulata è significativo. Con qualche rara eccezione, tra cui la più notevole è quella dei filosofi stoici, tutto il pensiero antico considerava la schiavitù come un fatto naturale.
Gli storici antichi parlano incidentalmente degli schiavi, come di qualsiasi altra cosa di questo mondo, dandone per scontata l’esistenza, e il più grande filosofo dell’antichità, Aristotele, trattando della politica dice che i liberi e gli schiavi differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo e l’uomo dalla bestia, salvo poi a impantanarsi in ragionamenti tortuosi quando vuol ricercare chi per natura, ossia per le proprie qualità intrinseche, debba essere schiavo: in realtà il pensiero antico non intendeva che vi siano degli uomini naturalmente schiavi, bensì che è naturale che vi sia la schiavitù. L’altro grande filosofo greco, Platone, riteneva anch’egli ovvio che i barbari, cioè i non greci, fossero tratti in schiavitù, mentre trovava scandaloso che si tenessero schiavi greci.
A comprender meglio la schiavitù nel mondo antico possono valere due considerazioni. La prima è quella tratta dalla consistenza numerica degli schiavi, che non era necessariamente di poche persone adibite al servizio dei ricchi, ma poteva essere anche maggiore di quella dei liberi. Nell’Atene di Pericle, nel V secolo a.C., c’erano circa ventimila cittadini, mentre si ritiene, sulla base delle approssimative e contrastanti indicazioni dei documenti e degli storici antichi, che gli schiavi fossero non meno di centomila e fino a trecentocinquantamila; in Italia nella tarda epoca repubblicana dovevano esserci due o tre milioni di schiavi su un totale di sei o sette milioni di abitanti, ed è ragionevole pensare che nella capitale la concentrazione di schiavi fosse enormemente più alta, dal momento che a Roma il possesso di qualche schiavo era cosa normale e che le famiglie aristocratiche più ricche potevano avere anche diverse centinaia di schiavi domestici. Perciò la stessa parola popolo indica, presso gli antichi e presso di noi, concetti diversi, perché noi intendiamo per popolo tutti gli esseri umani stanziati su un determinato territorio o appartenenti a una certa etnia, gli antichi intendevano l’insieme degli uomini liberi, e quando i filosofi ateniesi disquisivano sulle varie forme di governo della polis, parlavano dei rapporti politici tra i ventimila cittadini, non degli altri due o trecentomila esseri umani, i quali costituivano una semplice dotazione patrimoniale dei primi.
La seconda considerazione è che la schiavitù, non sorretta da differenze razziali, si risolveva in una condizione puramente giuridica, nel senso che si poteva passare dalla condizione di libero a quella di schiavo e viceversa semplicemente con un procedimento legale o con un atto giuridico: lo schiavo poteva diventare libero con la manomissione o per testamento, il figlio del libero diventava schiavo se il padre lo vendeva a uno straniero, il libero poteva diventare schiavo per debiti o per punizione. Le qualità intime della persona, cioè, non avevano nulla a vedere con la sua condizione di libero o di schiavo, tant’è che anche uno scrittore dell’antichità, Terenzio, fu schiavo, e nell’antica Roma professioni apprezzate come quelle di medico, pedagogo, segretario, lettore, bibliotecario, cassiere, erano normalmente esercitate da schiavi. Una pura classificazione giuridica, cioè convenzionale, faceva sì che un uomo dovesse esser trattato come proprio eguale oppure fosse trattato come un oggetto. A questo punto, commetterebbe un errore chi individuasse la causa della schiavitù nel mondo pagano in una determinata costituzione economica della società: la struttura economica poteva determinare la consistenza e le modalità del fenomeno, ma non in se stesso il fenomeno, il quale riposa su un sentimento d’ineguaglianza originario, così profondo da costituire bisogno mentale di distinguere tra chi è membro del consorzio politico e chi è non-cittadino e non-uomo.
Il rapporto umano effettivo tra padrone e schiavo dovette variare molto a seconda del tipo d’economia nella quale la schiavitù veniva praticata. Nelle società rurali e nell’ambito domestico esso era probabilmente di tipo familiare e patriarcale, non molto diverso da quello, pur sempre autoritario, tra padre e figli. Nel grande dominio e nell’economia latifondista gli schiavi invece si compravano e si vendevano a migliaia al giorno nei grandi empori del Mediterraneo e venivano tenuti in ceppi in appositi edifici, gli ergastoli, come dire le stalle per il bestiame, o mandati in catene nelle miniere. Nel secondo e nel primo secolo a.C., peggiorata la condizione servile, il governo di Roma dovette fronteggiare diverse rivolte di schiavi, che si conclusero con crocifissioni di massa o con altri simili supplizi ed eccidi; ma certamente queste lotte per la libertà non hanno niente in comune con la lotta contro la rinata schiavitù che si svolse nel secolo scorso nell’America del Nord: quando gli schiavi ribelli ai Romani avessero riportato la vittoria, si sarebbe semplicemente ribaltata la posizione reciproca di schiavi e liberi.
Allo stesso ordine d’idee al quale appartiene la schiavitù va ricondotto l’infanticidio, altrettanto normale e diffuso nel mondo pagano. Si pensi che per i popoli germanici e slavi che si convertivano al cristianesimo la decisione di convertirsi implicava, tra l’altro, quella di rinunciare all’infanticidio; anzi, gl’islandesi, che furono gli ultimi a convertirsi nell’anno 1000 d.C., in un primo momento avevano deciso di adottare, sì, la legge cristiana, eccezion fatta però per l’infanticidio, che doveva continuare ad essere regolato dalla legge pagana e consentito. Nel mondo greco-romano esso era praticato di solito mediante l’esposizione dei neonati nei templi o nelle discariche, dove però c’era qualche probabilità che un mercante di schiavi passasse a raccoglierli; il comportamento degli ebrei, dei quali si sapeva che allevavano tutti i figli che nascevano loro, era considerato come una delle tante stranezze di quel popolo. Non importa sapere se quella pratica rispondesse anche a una funzione eugenetica o di contenimento demografico; il fatto è che non c’era proprio l’idea di un essere umano appartenente per nascita al consorzio umano, e il nuovo nato entrava a far parte della comunità politica solo se chi ne aveva il potere, il capofamiglia o l’assemblea degli anziani o il sacerdote, avesse deciso che lo si dovesse tenere e allevare. Del resto in Cina ancora nel XVIII secolo quello dell’uccisore di neonati era un mestiere riconosciuto.
Non meno sorprendente della schiavitù e dell’infanticidio è, nelle costituzioni antiche di tipo monarchico, il rapporto tra capo e sudditi, che si atteggia come una sorta di schiavitù generale del popolo nei confronti dell’unico padrone. Il passaggio dal nomadismo primitivo alle prime città deve aver dato luogo alla trasformazione, in tempi relativamente molto brevi, della naturale autorità degli anziani o del capo nel potere pubblico d’un re sacerdote, capo d’una casta sacerdotale, intermediario con le divinità, proprietario terriero e regolatore dell’economia e dei mercati, padrone di vita e di morte, intoccabile e suscettibile, che con un cenno e per un nonnulla poteva far mettere a morte chiunque. È significativo che dopo la mitica cacciata dei re nella memoria storica dei Romani il nome regio sia rimasto aborrito come sinonimo di schiavitù, vale a dire, dal momento che la schiavitù vera e propria ancora esisteva, di schiavitù dell’intero popolo nei confronti del re. Ma lo stesso accade quando le città-stato, dopo esser divenute grosso modo repubblicane, acquistano dimensioni di grandi imperi e tornano ad essere comandate da un despota.
A Roma già le guerre civili che prelusero alla trasformazione della repubblica in principato furono seguite da inenarrabili stragi e strazi di concittadini poste in essere da chi, vincitore, assumeva in sostanza la posizione di un re. Quanto agl’imperatori, che da Augusto in poi furono a capo dello stato romano, il seguente passo di Svetonio su Tiberio, tratto fra i tanti che si possono citare dalle biografie imperiali, può render l’idea: «Non interruppe mai i supplizi, nemmeno per un giorno solo, nemmeno durante le feste sacre e religiose, e fece uccidere gente persino il primo giorno dell’anno. Molti furono accusati e condannati insieme con i loro figli. Nessun condannato evitò di essere gettato alle Gemonie dopo essere stato trascinato con l’uncino. In un solo giorno ne furono gettati e trascinati venti, tra cui donne e bambini. Le fanciulle impuberi, poiché la tradizione non consente che le vergini siano strangolate, erano prima violentate dal carnefice e quindi uccise». E tuttavia, quando dopo Caligola i senatori proponevano di restaurare la repubblica, il popolo reclamò che voleva essere sottomesso a un solo reggitore; cosa del resto abbastanza logica, dal momento che si era assolutamente incapaci di adattare a un vasto impero esteso su popolazioni lontane le strutture costituzionali egualitarie nate in una piccola comunità di cittadini, e che la pretesa di far governare l’impero dal popolo della capitale secondo le regole della città-stato repubblicana avrebbe comportato torbidi peggiori della tirannia di uno solo.
La totale dipendenza dell’individuo dalla società, dunque, e nel contempo l’estraneità tra gruppi sociali e la disuguaglianza, sono le caratteristiche del mondo pagano. Le radici di questo comportamento generale non appartengono alla storia civile e vanno ricercate nell’evoluzione della specie. La nascita stessa della ragione fa sì che l’uomo elabori costruzioni mentali e le tratti come realtà e sviluppi il pensiero magico e la superstizione e l’idolatria; l’appartenenza al branco, l’ostilità per gli altri branchi e le differenze sociali interne al branco sono all’origine dei sentimenti tra le società e i gruppi sociali umani; l’innestarsi dell’intelligenza e dell’abilità manuale sugl’istinti aggressivi dà luogo alla crudeltà, sconosciuta al resto del regno animale; la percezione di se medesimo come realtà fondamentale, che all’incirca dovrebbe essere la visione del mondo dell’animale superiore, sta verosimilmente alla base tanto del sentimento della propria superiorità quanto del completo assoggettamento al più forte.
Una volta che si sia acquisito il principio evolutivo e si sia preso atto di quel che è l’uomo, non v’è luogo per giudizi morali collettivi, ed è fruttuoso piuttosto chiedersi quale ulteriore evoluzione, ossia quale storia dello spirito ha così tanto diversificato dalle società pagane le società e gli uomini occidentali contemporanei, e di riflesso e in prospettiva il mondo intero, portandoli a forme di vita più sopportabili.
MONOTEISMO E TEOCRAZIA NELLA CIVILTÀ EBRAICA
Diversa da tutte le altre civiltà antiche si presenta la società ebraica, monoteista e teocratica in un mondo politeista.
Il monoteismo si contrappone alla visione politeista, la quale, più che nella pluralità degli dèi, risiede nel fatto che l’oggetto di venerazione è il mondo stesso nelle sue varie forme, per lo più materializzate in idoli e in personalità, sovrumane sì, ma soggette esse stesse all’ordine increato dell’universo. Quanto alla teocrazia, vengono comunemente definite teocratiche le civiltà antiche nelle quali i sacerdoti avevano il primato dell’autorità ed erano anche re o governanti; sennonché la figura del sacerdote con funzioni di governo è comune a tutte le civiltà antiche, e discende dall’identità di politica e religione, di cui si è detto, mentre la società ebraica fu teocratica in senso diversissimo e unico.
Il monoteismo, quale lo s’intende rifacendosi appunto al modello ebraico, consiste nel credere in una divinità immateriale, creatrice del mondo e arbitra del corso dell’universo e degli avvenimenti terreni, che può, benché invisibile e non ubicata in nessun luogo, comunicare con l’uomo imponendogli i propri comandi o ascoltandone le preghiere. Poiché questi sono i termini in cui siamo abituati a pensare alla Divinità, noi contemporanei proviamo stupore per il politeismo, che consideriamo un’inconcepibile ingenuità, e non immaginiamo lo sforzo che dev’essere costato alla mente umana giungere al pensiero monoteista; tant’è che la religione ebraica adottò le maggiori precauzioni per impedire ai propri fedeli la tentazione e il contagio idolatri.
Uguale balzo di civiltà, d’altra parte, aveva rappresentato il politeismo, che raffigurava gli dèi con sembianti e sentimenti umani, rispetto alla religiosità primordiale, intrisa di panico e terrore per divinità informi e tenebrose. Insegnato agli ebrei verso il 1250 a.C. da un riformatore che vien fatto coincidere con Mosè, forse già intuìto da qualche isolato spirito religioso in Egitto, il monoteismo si consolidò tra il IX e il VII secolo a.C. con la definitiva soppressione dei culti idolatri in Palestina e con la netta distinzione tra la religione di Jahvè e quella di altri dèi nazionali.
I profeti composero o ispirarono i vari libri della Bibbia facendo confluire la tradizione religiosa nella storia del popolo ebraico continuamente guidato e istruito da Dio, il quale lungo quella storia aveva impartito i propri precetti, sia quelli fondamentali relativi al comportamento degli uomini, racchiusi nei dieci comandamenti, sia quelli relativi all’organizzazione sociale e ai riti.
Il popolo ebraico, in comunicazione con Dio per mezzo dei profeti e dei sacerdoti, si sente assegnato un destino particolare, avendo concluso con la Divinità un patto, in base al quale esso avrà il sostegno divino se osserverà le norme dettate da Dio, mentre incorrerà nella sua ira se gli mancherà di fedeltà.
Le conseguenze del monoteismo sulla spiritualità e sulla concezione politica sono immense.
Dio stesso, e in questo consiste la teocrazia ebraica, è il supremo legislatore e guida il proprio popolo per mezzo dei sacerdoti e dei re che in suo nome esercitano il quotidiano governo. Se in tutto il mondo antico la religione e il culto sono un affare pubblico, in Israele non solo la religione è una funzione pubblica, ma tutto è religione, perché non c’è distinzione tra norme religiose, norme morali e norme giuridiche, dal momento che tutte sono state dettate da Dio, quelle sulla proprietà fondiaria e sul risarcimento dei danni non meno di quelle sui rapporti tra uomo e donna, sui riti religiosi e sulla costituzione politica; né c’è distinzione fra cittadino e fedele.
Ogni legge è divina, e la stessa parola ebraica Tôrà, che designa la Scrittura e vien tradotta con legge, esprime un intraducibile concetto di legge-fedeltà, cioè di regola che dev’essere osservata per mantenere il patto di fedeltà a Dio. Ciò implica un rapporto del tutto nuovo tra l’uomo e la norma di comportamento, perché, provenendo da un Dio al quale l’uomo non può nascondersi, le prescrizioni vincolano l’individuo indipendentemente dal controllo sociale; non che gli altri popoli non conoscessero valori morali per giudicare le azioni, come l’onore e la vergogna, ma qui è la regola stessa, ogni legge e ogni regola di comportamento, che trova la propria forza cogente all’interno dell’individuo, giudice di se stesso davanti all’invisibile Giudice divino. Nasce, insomma, la coscienza morale.
Viene poi acquisita una prima nozione di umanità e di comune valore degli esseri umani. Indubbiamente, per quel che riguarda l’uguaglianza tra gli uomini, l’ebraismo ha un atteggiamento ambivalente, perché la consapevolezza dell’appartenenza al popolo eletto fa parte della religione e le barriere poste dalla legge a tutela dell’identità religiosa impongono un atteggiamento di chiusura verso gli stranieri; ma per quel che riguarda la concezione fondamentale, alla base stessa dell’idea monoteista d’un Dio creatore dell’uomo c’è anche quella degli uomini come creature di Dio, da cui seguono un’idea d’uguaglianza e il divieto generale d’uccidere, il quale non è contenuto soltanto nel quinto comandamento, ma è ribadito più volte nella Bibbia come precetto fondamentale: si legge nella Genesi che Jahvè domanderà conto «della vita dell’uomo alla mano dell’uomo, alla mano d’ogni suo fratello».
I comandamenti, se pur diretti da Dio agli ebrei, sono recepiti come regole valevoli per tutti gli esseri umani e pongono in relazione il culto della Divinità creatrice con l’esigenza di giustizia nei rapporti con il prossimo. Altre regole bibliche istaurano obblighi di solidarietà come fondamento della vita sociale: il divieto d’offendere il forestiero e di maltrattare la vedova e l’orfano, l’obbligo di lasciare i resti del raccolto per lo straniero, il povero, la vedova e l’orfano, la remissione periodica dei debiti, l’obbligo di prestare senza interessi al bisognoso, il divieto di pignoramento del mantello del debitore, l’obbligo d’arrestare l’odio di fronte all’estrema difficoltà della persona odiata. Tutto questo rappresenta una filosofia umanitaria sconosciuta nel resto del mondo antico, e fa del mondo ebraico qualcosa d’incomparabilmente diverso dalle civiltà politeiste.
Basta considerare le conseguenze del monoteismo in materia di sacrificio umano, d’infanticidio e di schiavitù, istituti e comportamenti comuni a tutta l’antichità: quanto al primo, Jahvè addita all’abominio i popoli che lo praticano, e il racconto biblico del mancato sacrificio d’Isacco testimonia una proibizione antichissima e coeva all’avvento del monoteismo. Dell’infanticidio s’è già detto che è estraneo alla civiltà ebraica, che ha come fondatore un Mosè salvato dalle acque del