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Paradiso perduto
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E-book659 pagine9 ore

Paradiso perduto

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Info su questo ebook

Saggio introduttivo, traduzione e note di Flavio Giacomantonio
Edizione integrale

Sin dal momento in cui fu dato alle stampe nel 1667, il Paradiso Perduto divenne subito un classico della letteratura inglese. Nei dodici libri che compongono il poema, Milton ha narrato magistralmente l’episodio biblico della cacciata dell’uomo dal giardino dell’Eden dopo aver ceduto alle tentazioni di Satana. Il Paradiso Perduto riprende la tradizione classica del poema epico reinterpretata in un’ottica cristiana, alla luce dell’educazione puritana che il suo autore aveva ricevuto. È un testo scritto per «giustificare agli uomini le vie del sommo Dio» e tentare una spiegazione dell’eterno conflitto tra volontà divina e libero arbitrio. E contemporaneamente Milton mette in mostra in tutta la sua nudità la debolezza dell’uomo, il cui più grande peccato è l’orgoglio unito all’ambizione. Lo stesso orgoglio che anima colui che è da considerare il grande protagonista della storia, Satana, gran capo affabulatore di un esercito demoniaco che, nonostante la sconfitta subita da Dio, non ha perso la tracotanza e la fiducia in se stesso, tanto da preferire «regnare in Inferno che essere servo in Cielo»: un essere sconfitto sì, ma non annientato. Proprio questo aspetto garantirà al personaggio un’immensa fortuna soprattutto nell’Ottocento, che farà di Satana il prototipo dell’eroe romantico.
John Milton
nacque a Londra nel 1608. Poeta, saggista e storico, è considerato uno dei più importanti autori inglesi dopo Shakespeare. Cresciuto in ambiente puritano, dopo la laurea al Christ’s College di Cambridge, si dedicò allo studio dei classici – specie italiani –, della storia ecclesiastica e della politica. Viaggiò molto in Italia e in Francia, e allo scoppio della guerra civile inglese abbracciò la causa parlamentare ricoprendo il ruolo di segretario degli Affari Esteri. Con la Restaurazione, ormai cieco, venne imprigionato per le sue simpatie per Cromwell, ma, grazie all’intercessione dell’amico e poeta Andrew Marvell, venne scarcerato. Morì a Londra nel 1674. Tra le sue opere principali si ricordano Aeropagitica, I nemici di Sansone, e il Paradiso Perduto, considerato il suo capolavoro e il più grande poema epico inglese.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2016
ISBN9788854196520
Paradiso perduto
Autore

John Milton

John Milton (1608-1657) was an English poet and intellectual. Milton worked as a civil servant for the Commonwealth of England and wrote during a time of religious change and political upheaval. Having written works of great importance and having made strong political decisions, Milton was of influence both during his life and after his death. He was an innovator of language, as he would often introduce Latin words to the English canon, and used his linguistic knowledge to produce propaganda and censorship for the English Republic’s foreign correspondence. Milton is now regarded as one of the best writers of the English language, exuding unparalleled intellect and talent.

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    Anteprima del libro

    Paradiso perduto - John Milton

    INTRODUZIONE

    Una nuova edizione del ‘Paradise Lost’

    Perché una nuova edizione del Paradise Lost¹ (dello stesso traduttore), dopo quella del 2009, edita da Fabrizio Serra Editore di Pisa-Roma in occasione del quarto centenario della nascita di John Milton?

    Devo, innanzitutto, precisare che non si tratta dell’edizione precedente, riveduta e corretta: è una stesura assolutamente nuova in prosa ritmica, che non significa, affatto, ripudio del precedente lavoro. La circostanza, bisogna ammetterlo, è del tutto inconsueta. A giustificare tale scelta, c’è, naturalmente, uno straordinario amore e interesse per il grande poema miltoniano, ma anche, e val la pena ricordarlo, la complessità e sublimità del P.L., la cui rilettura implica, inevitabilmente, un approccio sempre nuovo e la scoperta di punti di vista, di epifanie, di modulazioni poetiche non rilevati in precedenza. Un’opera di poesia fra le più alte che il genio umano abbia creato e che non cessa mai di stupire, un’opera scritta in inglese pensando in greco, con la mente e il cuore immersi nel mondo classico e usando strutture morfologiche e sintattiche prese in prestito dal latino.

    Questa nuova traduzione, nata da un apprezzabile interesse editoriale e culturale della Newton Compton, vuole essere, anche (per i messaggi che l’opera trasmette), una sfida a certo mondo contemporaneo, caratterizzato da incoerenza, delusione, ipocrisia, decadimento materiale e morale.

    Certo, è stata un’impresa improba, e non poteva essere diversamente.

    Questo lavoro si colloca in una tradizione di ricerca e di studi che in Italia, in verità, non ha conosciuto molti adepti, nonostante la vicenda artistica di Milton possa considerarsi fra le più significative in Europa, e l’Italia e la cultura italiana siano state un crocevia fondamentale nella formazione di Milton.

    In questi ultimi decenni, si constata una ripresa d’interesse per l’opera del poeta-scrittore inglese da parte dei paesi di cultura anglosassone, e non solo. Diverse sono state e sono le iniziative significative che hanno risvegliato una intensa attività di ricerca, di promozione e diffusione: convegni, pubblicazioni critiche, nuove edizioni, traduzioni, riviste specializzate. Eppure, l’Italia continua a restare ai margini. Fra le iniziative più rilevanti in Italia sono da ricordare: Third Milton Symposium dal titolo Milton and Italy, svoltosi a Vallombrosa e Firenze dal 12 al 18 giugno del 1988, in occasione del 350° anniversario della visita di Milton in Italia; Milton Conference, promosso dalla Fondazione Carical, con sede a Cosenza, svoltosi a Matera il 10 e l’11 novembre 2006, dal titolo Paradise Lost by John Milton and the theme of the fall in the Italian literary tradition: from Giambattista Andreini to Serafino della Salandra. Fra le pubblicazioni più recenti e cospicue sono da ricordare gli Atti del Third Milton Symposium, gli Atti della Milton Conference, l’edizione critica, con testo a fronte del Paradise Lost, a cura di Flavio Giacomantonio, la traduzione della stessa opera di Roberto Piumini. Le due ultime opere uscite nel 2006, in occasione del iv centenario della nascita di Milton. È auspicabile che l’Italia, per le ragioni sopra ricordate e sulla scia di queste coraggiose, solitarie esperienze, assuma un ruolo meno marginale, più attivo nel campo degli studi miltoniani.

    Sotto la lente d’ingrandimento di Milton sono cadute non solo alcune opere fondamentali dell’epica occidentale, e italiana in particolare, ma anche opere assolutamente minori e di cui, a volte, si è perduta traccia. Fra queste ultime, mi preme ricordare l’Adamo caduto (1647) di Serafino della Salandra, che è stato oggetto di diversi studi condotti da chi scrive.²

    La decisione di adottare, nella presente edizione, la prosa ritmica è stata suggerita dal fatto che essa è una forma di espressione abbastanza naturale, una forma che non costringe a restare invischiati in schemi e formule, non di rado, limitanti la libertà d’ispirazione. Per altro verso, essa sembra meglio evocare, pur fuori da ogni vincolo metrico, il blank verse miltoniano, diversamente dalla prosa pura e semplice che, anche se nobile ed elevata, sacrifica il ritmo e la melodia del verseggiare di Milton.

    Genesi

    La genesi del Paradise Lost è una storia intrigante. P.L. è un poema epico molto pensato e sofferto dall’autore, che ha richiesto una lunga gestazione. Sappiamo solo che, agli inizi, Milton non nascose l’ambizione di diventare un poeta nazionale, scrivendo un’opera importante in grado di reggere il confronto con la grande letteratura europea e di conferire una nuova dignità alla poesia inglese, che, fino a quel momento, aveva conosciuto poche occasioni di vera gloria e, non di rado, si era dimostrata ancillare nei confronti di altre letterature.

    A Shakespeare è, universalmente, riconosciuto il merito di avere pienamente riscattato la letteratura inglese da uno stato di marginalità. E, perciò, appare ingiusto il giudizio della critica neoclassica che considerava l’opera shakespeariana un’esperienza lontana e perdente rispetto alla perfezione e alla sensibilità del mondo classico e tesa, soprattutto, a soddisfare gusti e sensibilità popolari. Un giudizio che, pur esprimendo qualche verità, sottende una critica pregiudiziale che ignora il genio, l’unicità e universalità dell’opera del grande drammaturgo. Milton e Shakespeare sono, in verità, due facce della stessa medaglia, entrambi, percorrendo vie diverse, hanno affrancato la letteratura nazionale dallo stato di soggezione in cui versava prima d’allora. Ciò, naturalmente, non esclude o attenua la differenza sostanziale che corre tra i due poeti che, per ragioni diverse, ma concomitanti, sono due geni indiscussi: l’uno dialoga con gli strati più degradati della Londra elisabettiana e lo fa senza avvertire alcun imbarazzo; l’altro, di contro, avverte l’urgenza di rivestire di classicità, formale e sostanziale, la propria poesia, approfondendo, fra l’altro, il solco tra l’idioma quotidiano e il linguaggio poetico. È questo stato di cose che induce la critica del xviii secolo a considerare Shakespeare genio irregolare, istintivo, poco scrupoloso nella costruzione del linguaggio e delle strutture formali, Milton attentissimo nell’espressione, nella selezione lessicale, nella elaborazione di uno stile assolutamente personale echeggiante immagini, profili, toni e persino la costruzione sintattica propri della letteratura classica.

    Milton, agli inizi, era ancora incerto e dimostrava di avere solo vaghe idee sul tema e sulla forma da adottare. L’incertezza, forse, nasceva dal fatto che la perdita del Paradiso costituisce il più grande dramma, nella visione cristiana, che abbia segnato la storia dell’umanità, e, anche, perché il racconto contiene, evidentemente, tutti gli ingredienti necessari per la costruzione di una tragedia.

    C’è da dire che il genere tragico, dai tempi del teatro classico, aveva subito trasformazioni notevoli. L’ultima tappa, quella più prossima a Milton, fu il teatro elisabettiano e, in particolare, quello shakespeariano, connotato, come si è detto, da una forte componente popolare, costruito per un pubblico eterogeneo, in gran parte di estrazione plebea. E ciò anche perché il teatro medievale non fu, in Gran Bretagna, un’appendice del teatro classico, ma ebbe un suo sviluppo autonomo trovando, sovente, materia e stimoli nella ritualità religiosa. Agli inizi del Cinquecento, erano di moda, in Inghilterra, le rappresentazioni sacre e i drammi allegorici religiosi (miracle plays e morality plays) e, per altro verso, gli interludes, sorta di intermezzi drammatici, rappresentati durante gli intervalli dei banchetti.

    Le commedie di Plauto e di Terenzio, e le tragedie di Seneca (per le scene di violenza, crudeltà, vendetta, orrore) esercitarono una influenza notevole sul teatro inglese; lo stesso Shakespeare non si sottrasse alla consuetudine di attingere a Seneca per la tragedia (Titus Andronicus) o a Plauto dei Menaechmi (The Comedy of Errors, The Tempest).

    Le opere di Seneca, veicolate dalla Corte e dall’università, ispireranno la tragedia elisabettiana e tutto il teatro inglese fino alla Restaurazione. È chiaro che si trattò, spesso, di profonde manipolazioni, dovendo il teatro rispondere al gusto e alla sensibilità del tempo, alle attese di un pubblico molto eterogeneo, fatto di artigiani, contadini, uomini, donne, bambini, malfattori, prostitute, aristocratici. Il teatro non godeva, infatti, di buona reputazione, almeno nel Parlamento a maggioranza puritano, e, perciò, nel 1642 ne fu imposta la chiusura per circa venti anni, fino alla Restaurazione della Monarchia (1660). E gli stessi autori teatrali erano, in gran parte, esponenti appartenenti a quel mondo: Ben Jonson, figliastro di un muratore e muratore egli stesso. Marlowe, figlio di un calzolaio, Webster di un sarto, Shakespeare di un mercante di lane, Massinger di un servitore. Alcuni di essi non disdegnavano frequentare taverne, ambienti malfamati, praticare la rissa e ogni sorta di violenza.

    Ciò non significava disconoscere la presenza nel teatro del genio shakespeariano al quale Milton, nel 1630, dedicò la poesia On Shakespeare, qualche anno dopo inclusa nel secondo in folio (1632) dei drammi del sommo drammaturgo.

    Le circostanze sopra descritte, tuttavia, non costituivano una premessa propizia ad un’opzione del modello tragico da parte di Milton. Certo, c’era il teatro classico cui guardare, ma esso era stato piegato, senza ritegno, alle esigenze della scena e al gusto del tempo e, comunque, non era possibile ignorare la tradizione indigena che aveva profondamente segnato la letteratura e la società elisabettiane.

    John Milton aveva ricevuto una formazione che lo predisponeva a prediligere la classicità, e la sua aspirazione era quella di scrivere un’opera che restasse nella storia della letteratura e della cultura anglosassone ed europea.

    Ebbene, Milton non nascondeva questa sua ambizione, se ne trova cenno già in una sorta di esercitazione scritta all’età di venti anni, dal titolo At a Vacation Exercise (1628), in cui il poeta-scrittore esprime il desiderio di usare la propria lingua per trattare «some graver subject…», di scrivere poesia nobile nella forma e ispirata a temi elevati come la creazione del mondo, gli dèi, i «re, le regine e gli eroi di un tempo». In una poesia in esametri latini, composta a Horton, intitolata Ad Patrem (1632), il poeta annuncia la sua volontà, fortemente assecondata dal padre, di diventare, come già detto, un poeta nazionale. In Pro Populo Anglicano Defensio Secunda³ (1654) Milton scrive: «Mio padre mi destinò, sin da bambino, agli studi letterari, e la mia sete di conoscenza divenne così forte che dall’età di dodici anni in poi, non ho quasi mai abbandonato questi studi né mai sono andato a letto prima di mezzanotte». I riferimenti in tal senso sono reiterati: in Mansus (1639-1640), poesia latina in cui Milton celebra G.B. Manso, l’autore scrive di volersi ispirare all’Eneide per comporre poesia epica su re nazionali e sulle imprese di re Artù e i cavalieri della tavola rotonda; in Epitaphium Damonis (1640), elegia dedicata al suo sfortunato amico Charles Diodati, Milton fa ancora riferimento a temi e personaggi dell’antica storia britannica, a re Artù, a Merlino (vv. 160-171); in The Reason of Church Government (1641), difesa del governo presbiteriano della Chiesa in contrapposizione a quello episcopale, propone ancora l’idea di scrivere una grande opera in versi che celebri un «modello di eroe cristiano», che dovrebbe essere incarnato da «un re o un cavaliere» dell’epoca pre-normanna.

    Sino al 1639, anno in cui Milton fece ritorno in Patria dal suo tour sul Continente, il poeta sembra essere orientato a comporre un grande poema epico nazionale, ma successivamente a questa data emergono segnali a favore di un dramma biblico. È, appunto, agli anni 1640-1642 che risale il Cambridge Manuscript. È un importante documento contenente diversi elementi che indicano la propensione a scrivere una tragedia. Il MS riporta, in sette pagine di note, un elenco di possibili temi tratti dallʼAntico e dal Nuovo Testamento, dalla storia inglese e da quella scozzese; due diversi elenchi di dramatis personae tratti dalla Bibbia e due schemi di drammi, Adam Banished e Adam Unparadiz’d.

    L’ipotesi di scrivere un dramma biblico, cui farebbe pensare il materiale rinvenuto nel Cambridge MS, potrebbe essere maturata nel corso del viaggio in Italia ove, nel xvii secolo, il dramma sacro godeva di notevole popolarità? È un interrogativo al quale non è facile dare una risposta esaustiva, poiché il MS è il risultato di fogli sparsi e non di un progetto organico; per altro verso, non si può ignorare che Milton teneva in alta considerazione Tasso ed Ariosto, anzi il primo era amico di G.B. Manso, che Milton incontrò a Napoli ed ebbe modo di apprezzare; e non si può neppure ignorare che il poeta inglese da anni coltivava l’idea di scrivere un poema epico, come risulta dai vari riferimenti riscontrati in diversi suoi scritti cui si è fatto cenno.

    Le eventuali indecisioni del poeta sulla scelta tra dramma ed epica, la lunga e laboriosa incubazione che il progetto ha richiesto, sottolineano che Milton aveva piena consapevolezza e avvertiva grande responsabilità rispetto al compito che l’attendeva.

    Se una considerazione si vuol fare, e non sulla base di riferimenti certi, è che il modello tragico, rispetto ai grandi temi che il poeta si proponeva di trattare, appariva, a dire il vero, molto angusto, e non solo per i tempi imposti dalla tragedia, ma anche perché temi e forme in questo genere di opere sono condizionati da criteri di opportunità e convenienza. C’è da aggiungere che nell’epoca elisabettiana, la reputazione di cui godevano attori, autori, compagnie, spettatori, il contesto socio-urbano in cui erano edificati i teatri non incoraggiava una scelta in direzione della tragedia. Il poema epico, anche da questo punto di vista, era rimasto una forma di poesia quasi elitaria, non aveva subito processi involutivi, di volgarizzamento come, appunto, la rappresentazione teatrale. E non è, inoltre, un aspetto trascurabile l’opportunità, anzi, l’esigenza di usare un linguaggio alto e prezioso, inusuale, a volte ricostruito nel lessico e nelle strutture morfo-sintattiche, di godere della più ampia libertà espressiva, non avendo la necessità di comunicare, soprattutto, con gli strati più incolti della popolazione, al fine di stuzzicarne interessi, curiosità anche morbose, magari facendo ricorso a un linguaggio e a gestualità criptici, non di rado, scurrili, a scene di efferatezza incongruente.

    L’approdo all’epica eroica è, dunque, l’esito di un lungo tormentoso travaglio. Né convince l’ipotesi di chi sostiene che Milton avrebbe adattato in senso epico materiale propriamente tragico. E l’elemento a sostegno di tale discutibile tesi sarebbe l’affermazione di Edward Phillips, nipote di Milton, nella sua Life (1694) secondo cui i vv. 32-41 del iv Libro di P.L. sarebbero stati a lui presentati come l’incipit di una tragedia; né vale portare a sostegno di tale tesi le tante situazioni drammatiche sparse nel poema. La componente tragica è propria del tema trattato, e pensare ad un immotivato, manipolato, inopinato passaggio dal tragico all’epico sarebbe una semplificazione di comodo e fuor di luogo. Ma non è questa la sede per affrontare la questione in modo esaustivo, pur se alla questione è opportuno dedicare una breve riflessione.

    Tragedia o epica?

    L’ipotesi di comporre una tragedia convenzionale, rimane valida fino al ritorno di Milton in Inghilterra dall’Italia e, in tal senso, prova sarebbero gli appunti contenuti nel Cambridge MS e i tanti elementi tragici sparsi in tutto il P.L., cui si è fatto già cenno. È il caso, tuttavia, di ribadire la propensione di Milton verso l’epica eroica. Un interesse, probabilmente, latente e che non si era mai assopito nel poeta. Tutta la sua esperienza di poeta lo fa pensare. D’altro canto, il tentativo di Milton nel campo del dramma, persino su un tema biblico, non si può dire abbia dato risultati straordinari, come sta a dimostrare Samson Agonistes (1671).

    L’elemento tragico ed epico s’intrecciano in tutto il P.L. E ciò perché la caduta degli angeli e la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden sono argomenti straordinariamente drammatici, ma lo sono in modo del tutto singolare, poiché essi preludono al trionfo di Cristo e alla salvezza dell’uomo e, quindi, alla vittoria dell’uomo redento sulla morte: la ragione centrale, anzi, esclusiva di tutto il dramma del peccato; e, dunque, il riscatto dalla colpa originale e la certezza della felicità eterna – così è nella visione escatologica della Chiesa cristiana – non possono essere l’epilogo di una tragedia convenzionale.

    La presenza contestuale di epico e tragico non è accidentale, è un dato, semmai, essenziale e imprescindibile; e, naturalmente, Milton ne era pienamente consapevole. La disputa tragedia-epica, da questo punto di vista, diventa marginale. Il problema centrale per Milton, a mio avviso, era piuttosto quello di concepire e costruire un’epica eroica in cui i personaggi consueti, gli eroi comuni della tradizione, dovevano cedere il posto a figure bibliche, cioè attori di una vicenda che nasce in un clima incorrotto e idilliaco, che si contaminano a causa del peccato, ma, infine, sono riscattati grazie al sacrificio del Figlio di Dio.

    L’incipit del P.L. delinea questo percorso seguito dalla prima coppia:

    Of man’s first disobedience, and the fruit

    Of that forbidden tree, whose mortal taste

    Brought death into the world, and all our woe,

    With loss of Eden, till one greater man

    Restore us, and regain the blissful seat.

    [P.L. i, 1-5]

    Il lettore, è, quindi, informato che il peccato non conclude la storia dell’uomo, ma prelude, in virtù di una profonda e vera conversione del cuore, al suo ritorno ad uno stato di grazia. È il paradosso della felix culpa⁴; la colpa che diventa ragione e strumento di salvezza attraverso il sacrificio di Cristo sulla Croce, che riscatta l’uomo dopo la trasgressione.

    Milton stesso ci spiega, chiaramente, cosa intende per epica eroica, e in che cosa essa si differenzia dalla tradizione. Lo fa nei primi 44 versi del ix Libro di P.L., in cui si legge:

    …I now must change

    Those notes to tragic; foul distrust, and breach

    Disloyal in the part of man, revolt,

    And disobedience: on the part of heaven

    …distance and distaste,

    Anger and just rebuke, and judgement given,

    That brought into this world a world of woe,

    Sin and her shadow Death, and Misery

    Death’s harbinger: sad task, yet argument

    Not less but more heroic than the wrath

    Of stern Achilles…

    …or rage

    Of Turnus…

    Or Neptune’s ire or Juno’s…

    Since first this subject for heroic song

    Pleased me…

    Not sedulous by nature to indite

    Wars, hitherto the only argument

    Heroic deemed, chief mastery to dissect

    With long and tedious havoc fabled knights

    In battles feigned; the better fortitude

    Of patience and heroic martyrdom

    Unsung…

    …Me of these

    Nor skilled nor studious, higher argument

    Remains, sufficient of itself to raise

    That name…

    [P.L. ix, 5-44]

    È evidente che Milton, come già premesso, optando per l’epica eroica, intese anche sovvertire le vecchie regole e suggerirne di nuove, sostituire le guerre, i cavalieri, i re, le giostre con «temi più alti».

    Le fonti

    Non è cosa agevole discutere il tema delle fonti in Milton, e per tre ordini di motivi.

    Il primo perché le letture di Milton furono innumerevoli, in diversi campi e in diverse lingue, ed orientarsi su un terreno così intricato diventa un’avventura.

    Il secondo perché il poeta utilizzava le sue vastissime conoscenze con grandissima libertà, privilegiando sempre ed esclusivamente il momento creativo e dell’ispirazione: la poesia, unica ragione, alta poesia, tutto in funzione della poesia. L’opera miltoniana è ricca di messaggi, di giudizi umani e morali, di opinioni politiche, ma tutto rientrava nel disegno primario di consegnare alla storia e ai posteri una grande e irripetibile opera di poesia. Questa opzione miltoniana, che si coglie in ogni verso della sua opera, rende difficile, anzi, impossibile e inutile l’impresa di chi intendesse perseguire, attraverso confronti testuali e accostamenti vari, sovente improbabili, l’obiettivo di dimostrare un uso calcolato e malizioso delle fonti, quando non si intenda, addirittura, emettere giudizi di «plagio» (Vincenzo Zigari e Norman Douglas). Ciò non esclude, evidentemente, l’impiego, a volte ridondante di fonti e materiale vario, ma nelle mani di Milton tutto diventa altra cosa, diventa poesia autentica ascrivibile solo ed esclusivamente a lui. D’altro canto, chi sfuggirebbe alle insidie di indagini poco attente, magari pregiudiziali? Dovremmo, forse, pensare la stessa cosa di Dante rispetto all’Apocalisse di san Giovanni, a Virgilio, Orazio, Ovidio, san Tommaso, sant’Agostino, Gioacchino da Fiore, per citarne solo alcuni?

    Il terzo ordine di motivi è relativo al preponderante uso dei Testi Sacri e alla conoscenza di una miriade di opere ispirate alla Bibbia, per cui sovente si è portati ad attribuire autorità a qualche opera oscura, grazie alla presenza di un comune tema biblico, trascurando che potrebbe non esserci stata alcuna mediazione e che la fonte prima ed esclusiva è da individuare nella Bibbia. Per tali ragioni, in questa Introduzione, saranno segnalate solo alcune opere essenziali che hanno fornito al Milton spunti, orientamenti e materiale, pur sempre nei termini sopra descritti.

    I Testi Sacri hanno accompagnato Milton per tutto il corso della sua vita, sia a supporto delle sue scelte religiose sia come fonte d’ispirazione e occasione di riflessione nella composizione di saggi, opuscoli e opere poetiche. Le sue letture nel campo della religione furono estese: letteratura patristica, sermoni, letteratura esameronica, sant’Agostino, il Commentario sulla ‘Genesi’ di Calvino. La letteratura classica ha fornito modelli che si sono rivelati fondamentali nella composizione del P.L.: l’epica omerica, l’Eneide virgiliana, la Teogonia di Esiodo, le Metamorfosi di Ovidio.

    Si sono interessati a questo genere di indagini, fra i tanti, Douglas Bush, R.W. Condee, Thomas M. Greene.⁵ E la ricerca di nuove presumibili fonti non si arresta, fra le più recenti sono da ricordare: De raptu Proserpinae di Claudio Claudiano; Bellum Civile o Pharsalia di Marco Anneo Lucano, Naturalis historia di Gaio Plinio Secondo (il Vecchio), Civitas Dei di Sant’Agostino. Fra le fonti inglesi più importanti – ma non sempre valutata tale – The Faerie Queene di Edmund Spenser, considerata epica nazionalista protestante. Milton fu affascinato dalla poesia di Spenser, dal quale derivò, forse, anche la veemenza con cui attaccò il clero.⁶ L’argomento ha suscitato l’interesse di diversi studiosi della seconda metà del xx secolo, fra i quali: A. Kent Hieatt, K. Williams, Thomas E. Maresca, Maureen Quilligan, J.D. Guillory, John D. Demaray, Linda Gregerson.⁷

    Milton, inoltre, nella preparazione del P.L. si avvalse, sicuramente, di tanta produzione epica e drammatica di ispirazione biblica, fra cui sono da ricordare: La battaglia celeste tra Michele e Lucifero (1568) di Antonio Alfano;Christiados libri sex (1535)⁹ di Marco Gerolamo Vida, non indegnamente accostato al celebre De Partu Virginis del Sannazzaro; Angeleide (1590) di Erasmo di Valvasone (1523-1593), poemetto in tre canti sulla lotta tra gli angeli buoni e gli angeli ribelli; Daemonomachiae (1623) di Odorico Valmarana (?-1648); Adamus Exul (1601) di Hugo Grotius (Huig van Groot, 1583-1645), in eleganti versi latini; Lucifer (1654) di Joost van den Vondel (1587-1679)¹⁰; il poema epico, sulla guerra in Cielo, Bellum Angelicum (1587) del tedesco Friedrich Taubmann (1565-1613); il poema esameronico in endecasillabi sciolti Mondo creato (1607) di Torquato Tasso (1544-1595); il poema sacro Il mondo desolato (1619) di Giovanni Domenico Peri d’Arcidosso (1642); il poema esameronico La Sepmaine; ou Creation du monde (1578) del poeta francese Guillaume de Salluste (Du Bartas);¹¹ la tragedia sacra Adamo caduto (1647) di Serafino della Salandra (1595-1656); la tragedia in versi Adamo (1613) di Giambattista Andreini (1578 ca.-1654); il romanzo Adamo (1640) di Giovan Battista Loredano (1607-1640).

    Dei grandi poeti italiani, che esercitarono una significativa influenza su Milton, sono da ricordare: Dante, Petrarca, Tasso, della Gerusalemme liberata (1581), Ariosto dell’Orlando furioso (1532), G. B. Marino della Strage degli innocenti (1632).

    Paradise Lost

    La prima edizione, in quarto, del P.L. – poema epico in blank verse, costruito sulla traccia del racconto della Genesi – vide la luce nel 1667 da Samuel Simmons, in circa 1300 copie, col titolo di Paradise Lost. A Poem in Ten Books, da mettere in circolazione tra il 1667 e il 1669. I volumi, stampati successivamente, presentano alcune correzioni riguardanti errori di stampa. L’opera non fu accolta con grande favore, probabilmente a causa della pubblica difesa che Milton fece del regicidio di Charles i, criticata negli ambienti vicini alla causa degli Stuart. Questo motivo indusse lo stampatore ad elimenare il nome dell’autore dal frontespizio nei volumi stampati nel 1668. La seconda edizione, in ottavo, fu pubblicata nel 1674 col titolo di Paradise Lost. A Poem in Twelve Books (come l’Eneide di Virgilio) con alcune lievi modifiche e una nota sulla versificazione. Le prime due edizioni, stampate quando Milton era ancora in vita, furono seguite dalla edizione del 1678. La quarta edizione, un volume in folio con dodici incisioni di J.B. de Medina, è del 1688.

    Del P.L. sopravvive solo un manoscritto del i Libro conservato nella Pierpont Morgan Library di New York.

    Satana e i suoi seguaci si ribellano a Dio e sono scacciati dal Paradiso. Precipitano nell’Abisso infernale. Satana e i demoni discutono se si debba ingaggiare una battaglia contro il Cielo per riconquistare gli antichi seggi. La decisione è, invece, d’indagare sulla profezia relativa alla creazione di un nuovo mondo e di una nuova creatura: questa potrebbe essere la via per attuare la vendetta e riconquistare il Paradiso.

    Segue l’episodio del Serpente tentatore. Eva cede alle lusinghe del Serpente e nella sua trasgressione trascina anche Adamo. La coppia si pente e chiede perdono. Dio concede il perdono (Libri xi e xii), ma Adamo ed Eva dovranno abbandonare il Paradiso terrestre.

    Michele, inviato da Dio, profetizza e mostra quale sarà la sorte dell’uomo sino al Diluvio universale; poi parla dell’incarnazione del Figlio, della Sua morte, resurrezione e ascensione.

    Satana è il personaggio più importante del poema. Il primo ad affermarlo è John Dryden (1631-1700), poeta e drammaturgo della Restaurazione che, in un saggio del 1694, presenta Satana come il vero eroe del P.L.: una tesi molto apprezzata dai romantici. L’eclettico William Blake (1757-1827), poeta, incisore, pittore, visionario, scrive che Milton era «of the Devil’s party without knowing it»¹² (del partito del Diavolo senza saperlo), come si legge in Marriage of Heaven and Hell (1790). Percy Bysshe Shelley (1792-1822), in A Defence of Poetry (1821), scrive che Satana sarebbe superiore a Dio in virtù della sua natura morale e, pertanto, non può essere la raffigurazione del male.¹³

    I romantici identificano lo stesso Milton con Satana, che raffigura anche un ideale di eroe nel quale si riflettono le aspirazioni, le ansie e le tensioni dell’epoca. E Shelley rappresenta, magnificamente, quest’ideale nel dramma lirico Prometheus Unbound (1820).

    Questa lettura romantica appare, tuttavia, parziale e interessata, tale da appagare la sensibilità, l’impeto, le aspirazioni di quei poeti, ma non rende giustizia al Satana miltoniano che è figura assai più complessa.

    Un’opinione del tutto opposta esprime di C.S. Lewis¹⁴, che esalta i lati più abietti di Satana.

    È difficile da condividere sia la logica dei satanisti sia quella degli antisatanisti poiché e gli uni e gli altri si limitano a proporre stereotipi e argomentazioni funzionali alle proprie ragioni poetiche e concettuali, decontestualizzando il personaggio.

    Scrive Elio Chinol, nel suo saggio Il dramma divino e il dramma umano nel Paradise Lost, che il conflitto tra satanisti e antisatanisti è un «conflitto che si pone sul piano dell’interpretazione morale e teologica della figura di Satana, ma non su quello della sua valutazione estetica».¹⁵

    I romantici colgono di Satana gli aspetti più seducenti, quelli che esaltano il fascino, la fierezza, l’orgoglio. Così è il Prometeo shelleiano che, depositario del sapere, personifica l’aspirazione dell’uomo a conoscere la verità, e, vinto e incatenato, si ribella a Giove. È, questo, il prototipo di eroe che ci richiama alla mente Carlo, personaggio del dramma I masnadieri (1781) di Schiller, e che ritroviamo nei banditi positivi della letteratura europea a partire dal secolo xviii. Per Chateaubriand, questo tipo di eroe è figura straordinariamente sublime e patetica. Tra gli ammiratori di Satana sono, naturalmente, da considerare George Gordon Byron e, attraverso la sua mediazione, anche Victor Hugo, Charles Baudelaire e i decadenti. In Italia, persino le letterature regionali ne furono influenzate, dalla lombarda alla calabrese. Scrittori e poeti della scuola calabrese (Romanticismo naturale, secondo le definizioni del De Sanctis) come Biagio Miraglia (il cosentino, non l’omonimo di Strongoli), Giuseppe Campagna, Domenico Mauro, Vincenzo Padula, Nicola Misasi. E in questo contesto mi piace collocare, senza avere, evidentemente, la pretesa di riconoscervi discendenze dirette, i topoi del brigantaggio, di chi soggioga il più debole, del padrone dei servi della gleba.

    L’antisatanista, da parte sua, coglie del personaggio tutti gli aspetti negativi.

    Il Satana miltoniano sfugge a queste interpretazioni parziali e, a giusta ragione, già Elio Chinol, nel saggio citato, pone a raffronto il Satana magnifico, pieno di fascino dei primi due Libri, con la spia, il cospiratore che si trasforma in rospo e in serpente¹⁶ per trarre in inganno le sue vittime. Sono i contrari, connotati peculiari di Satana, che, secondo la morale comune, caratterizzano la natura dell’essere.

    Il Satana miltoniano, nelle sue ombre e nelle sue luci, è figura esclusivamente poetica e, perciò, non si può giudicare ricorrendo, esclusivamente, alle categorie della teologia e della morale cristiana. Egli costituisce la quintessenza del male e, perciò, alcune peculiarità – fuor di questa logica – presenti in lui, possono aver senso solo in un contesto poetico e molto più articolato, non dimenticando, evidentemente, che nel Principe dei demoni si riflette pure lo stesso Milton con i suoi pregi, i suoi difetti, le sue passioni.

    Gli angeli ribelli, nel loro stato soprannaturale, godevano di una condizione di grazia e di somma felicità; essi vi hanno rinunciato scegliendo, con un atto d’incommensurabile superbia, di ribellarsi a Dio. Per loro non poteva esserci alcuna possibilità di perdono e di riscatto, solo la condanna alla perdizione eterna. L’uomo, al contrario, fragile per natura, è esposto, ma non predisposto al male: dotato di libera volontà, di discernimento e senso morale, egli può optare per la virtù o per l’errore, può perseverare nel fallo o pentirsi e, in caso di autentico ravvedimento, sperare nel perdono e nella redenzione. All’uomo, infatti, è concesso di effettuare il viaggio dalla Città della Distruzione alla salvezza e al Paradiso,¹⁷ un viaggio di purificazione e di edificazione.

    Satana è un personaggio multiforme e, perciò, molta prudenza si richiede nello studio della sua complessa personalità. Satana vuole mostrarsi campione nella lotta contro la tirannide e in difesa della libertà, un ruolo, questo, che, come già detto, ha infiammato molti spiriti romantici.¹⁸ Satana è capo delle forze del male e, in quanto tale, deve assumersi le responsabilità pubbliche del capo, per cui «…la ragion di stato, / l’onore ed il potere…»¹⁹ gli impongono determinazione, spregiudicatezza, ambiguità, empietà. Molte di queste caratteristiche le ritroviamo nel Principe machiavellico, che deve essere un vero duce, sicuro nel praticare l’arte della guerra, e convinto che la forza e, anche, la violenza sono strumenti atti a garantire la stabilità e a conservare il potere. Un capo che deve essere prudente, saggio, intrigante, ma anche leone, volpe e centauro, cioè dotato di forza, astuzia, capacità di usare, nel contempo, possanza brutale e razionalità. Il Principe dei demoni ha anche una sua sfera intima, per cui «his remorse, pity, tears all pay homage to good»;²⁰ e, però, rimorso, pietà, dolore non sono, nel Maligno, valori che sublimano, che tendono a Dio, essi appartengono alla categoria del male, sono strumenti di perdizione, di perversione, di mistificazione tesi a rompere il patto tra l’uomo e Dio, a insidiare le opere di bene.

    Questa versatilità fa di Satana, dunque, il personaggio miltoniano più riuscito, il più accattivante. A tal proposito, B. Rajan scrive ²¹ che la natura di Satana è da rapportare alle circostanze in cui egli si trova e che il modo in cui svolge i suoi uffici è ragione del suo comportamento. E aggiunge che Satana è, tuttavia, più di una serie di qualità astratte che si combinano tra di loro; è più di una pura e semplice manifestazione teologica, più di un mezzo per spiegare una teoria preconcetta del male: si può, semmai, definire una rappresentazione poetica. E Rajan conclude che Milton ha inteso mettere in un contesto poetico le caratteristiche associate a Satana dall’immaginario comune, caratteristiche che, non essendo interdipendenti, possono apparire anche contraddittorie, se messe a confronto tra di loro.

    Satana, nella letteratura e nell’arte in genere, ha spesso rappresentato, dunque, una proiezione delle contraddizioni profonde dell’essere – portate all’esasperazione –, circostanza che ha dato, appunto, vita al partito dei satanisti e degli antisatanisti.

    Satana è, perciò, creazione poetica e, a tal fine, può essere interessante segnalare – a scopo puramente esemplificativo, non certo d’indagine esegetica – alcune analogie tra il Satana miltoniano e altri archetipi. Nelle prime strofe del Canto quarto de La Gerusalemme liberata (1593), il Tasso descrive il concilio dei demoni. Il Lucifero che ci viene presentato è orrido e feroce, con gli occhi rossi e iniettati di veleno, la bocca una voragine d’atro sangue immonda che emana fetore e faville, come il Mongibello. Un’immagine che ricalca i canoni medievali. Il Satana de La strage degli innocenti di G.B. Marino è, quasi, sovrapponibile a quello descritto dal Tasso. Anche in questo caso, gli occhi sono fiammeggianti, di «luce… torbida e vermiglia» e in essi alberga «mestizia e morte»; «E da le nari e da le labra smorte / caligine e fetor vomita e figlia» e «tuoni i gemiti son, folgori e fiati». Versi nei quali si riscontra una chiara affinità lessicale (molti i sinonimi usati dal Marino) che i due poeti, probabilmente, derivarono da comuni fonti.

    In entrambi i poeti italiani, si ha l’immagine di un Satana, protervo e fiero, che evoca il modello prometeico. Sia in Tasso sia in Marino, Satana ha memoria del suo primitivo stato angelico, ecco perché nel Satana di Marino gli occhi son velati di mestizia, come gli occhi del Satana miltoniano che rivelano «afflizione immensa e turbamento» (i, 57). Il Marino, indugiando sull’antica bellezza di Satana, lo descrive come «creatura bella», «principe già de’ fulguranti Amori», «del matutino Ciel la prima stella», «la prima luce degli alati Cori». La conclusione è che Satana ha perduto «l’antico candor», ma non «l’alta natura», un’immagine che si coglie anche nel Paradise Lost, in cui si legge «…sebbene io sia mutato nella dignità / esteriore; l’animo risoluto e l’alto sdegno, originati / dall’offesa ai meriti, mi hanno indotto a lottar / contro l’Onnipotente;…».²² Il Satana di Milton, certo, acquista una dignità e una statura superiori che trovano un antecedente nel Prometeo di Eschilo e nel Capaneo dantesco²³ il quale, quest’ultimo, dopo l’assedio di Tebe, fulminato da Giove, si rifiuta di riconoscere la propria sconfitta e osa sfidare la suprema divinità persino nell’Inferno. Nel Satana del Paradise Lost sono fortemente attenuate la ferocia, la tracotanza, la ripugnanza, che sono proprie della tradizione medievale, ma anche dei modelli proposti dal Tasso e dal Marino, e la sua personalità si arricchisce e si nobilita assumendo una bellezza maledetta, come la definisce il Praz in La carne, la morte e il diavolo,²⁴ un contegno superbo, un coraggio indomito, una solennità prometeica, tanto da indurre W. Blake e qualche psicologo moderno, come E.H. Visiak – citato da M. Praz²⁵ –, a ritenere che Milton abbia riflesso alcune proprie qualità nel suo Satana; anzi, il Paradise Lost, sotto questo profilo, non sarebbe altro che il prodotto di una energia invertita, un campionario di qualità negative sublimate e tali da esprimere sentimenti, rabbia, attese dello stesso poeta.

    Al di là di qualsiasi interpretazione, più o meno motivata, si può convenire con quanto scritto da E.W. Tillyard, secondo il quale Satana esprime, più di ogn’altra figura o atto o carattere del poema, l’energia eroica, in cui Milton credeva fortemente.²⁶

    M. Praz rintraccia un’altra ascendenza di Satana in Cassio del Julius Caesar di W. Shakespeare: Cassio è senza scrupoli, cinico, infido, caratteristiche che sono anche del Satana di Milton. Il riferimento a Cassio è pertinente, ma io ritengo che alcune affinità ci siano anche con Bruto, della stessa tragedia shakespeariana, mi riferisco alla solitudine interiore, a certi atteggiamenti umbratili, malinconici, alla sua determinazione, al coraggio nei momenti decisivi, profili che connotano i suoi comportamenti e li motivano. Le peculiarità di Bruto – che lo spingono a compiere azioni estreme – sembrano, però, rientrare in una gerarchia edificante, poiché egli crede, fermamente, nei valori della libertà e della democrazia, e la sua azione è volta a difendere tali valori, e, perciò, decide di fiancheggiare Cassio – con grande tormento interiore – in una strategia di violenza e di morte. Lo stesso non può dirsi di Cassio, che, al contrario, è guidato da una logica spregiudicata, perversa, di mera conquista del potere.

    Uno dei nodi centrali del poema è il passaggio dallo stato di totale innocenza a quello di colpa.

    Paradise Lost si sviluppa, essenzialmente, su due livelli: da una parte la cacciata dal Cielo degli angeli ribelli guidati da Lucifero-Satana, dall’altra la trasgressione di Adamo ed Eva, la perdita dell’Eden e la promessa della redenzione.

    Il dramma divino si sviluppa nei Libri i e ii, occupati dalla scena infernale, e nel Libro vi, in cui Raffaele narra il conflitto in Cielo. Il dramma umano occupa, invece, il Libro ix, che racconta l’episodio della tentazione, intessuto su un ordito di questioni teologiche già discusse in De Doctrina Christiana.

    Eva, che ha trasmesso alla posterità gli effetti della propria trasgressione, non può essere ritratta, unicamente o prevalentemente, nel suo profilo mitico o nella sua valenza poetica; eppure, a volte, si ha l’impressione che alcuni studiosi siano portati a privilegiare aspetti significativi, ma non centrali, nel complesso svolgimento del poema miltoniano. L’Addison, ad esempio, indugia sulla disobbedienza, Denis Saurat sul conflitto ragione-passione, lo stesso Tillyard, che in un primo momento attribuiva alla vacuità di Eva la causa della caduta, in un successivo approfondimento,²⁷ ridefinisce le sue valutazioni dichiarando che, se pur discutibili alcune affermazioni, si deve ammettere che «più interpretazioni sono giuste simultaneamente», riconoscendo, così, che l’episodio della caduta è più problematico di quanto possa apparire a prima vista. Milton su tale vicenda ha ricostruito la storia dell’umanità, utilizzando l’essenzialità e linearità del racconto biblico come linguaggio poetico immediato, arricchendolo, però, di implicazioni di ordine umano, psicologico, morale, religioso, storico, politico, ideologico.

    Chinol, da parte sua, scrive che la caduta è «il più formidabile e il più insolubile dei problemi», poiché tale è il «passaggio da uno stato di assoluta innocenza a uno stato di colpa». Ed ecco una questione nodale: Adamo ed Eva, concepiti in uno stato di totale innocenza, non potevano avere conoscenza morale ed oggettiva del peccato.²⁸ Il ragionamento di Chinol, sembra non tenere in debita considerazione il contesto teologico – fra gli altri – da cui la questione non può prescindere.

    Adamo ed Eva furono creati innocenti, quindi, senza aver cognizione della dialettica bene-male; ma se il bene è da ritenere lo stato angelico, il male, condizione antecedente alla creazione dell’uomo, ha radici nella ribellione di Lucifero contro Dio. L’uomo, creato innocente, ma non divino, rispetto allo stato angelico è da considerarsi imperfetto o, almeno, non perfetto. L’innocenza, da questo punto di vista, è difficile d’accettare come uno stato immutabile, poiché ciò presupporrebbe una dimensione assoluta della perfezione. Il male, dunque, va visto come energia negativa potenziale nell’uomo, in quanto l’uomo non ha natura divina, e perché il male stesso, come detto, è preesistente alla sua creazione, se persino Satana e le sue schiere – senza volere indagare le ragioni della loro ribellione, godendo già in Cielo, essi, dello stato angelico – hanno trasgredito non essendo la loro natura immune dall’errore. L’uomo, inoltre, dotato d’intelligenza e di libero arbitrio, può scegliere il bene o il male, che è un potere incredibile, al punto da consentirgli di ribellarsi a Dio, senza che Dio intervenga, con un atto d’imperio, a modificarne la volontà. Se tale ragionamento è congruente, bisogna convenire che innocenza non significa perfezione assoluta: è, piuttosto, una condizione di felicità, in grado elevato, ma pur sempre nell’ordine naturale e finito. D’altro canto, l’esistenza dell’albero proibito non implica anche l’eventualità, per l’uomo, di trasgredire un comando divino?

    Il male non è l’opzione primaria o, peggio, esclusiva dell’uomo, se la scelta è sempre conseguenza di una dialettica che ha sede nella coscienza; anzi, nella concezione cristiana il bene deve prevalere sul male perché nell’essere, immagine di Dio, c’è, necessariamente, la propensione al bene, e la caduta è una circostanza accidentale, determinata da uno stato di offuscamento della propria volontà e della propria coscienza.

    La riflessione sulla condizione primigenia dell’essere e sulla sua storia sino alla caduta, richiama alla mente alcune intuizioni dei romantici inglesi di prima generazione – soprattutto di William Wordsworth – che, sull’onda del Platonismo e del Neoplatonismo rinascimentale, considerano il mondo come riflesso di un’ideale realtà metafisica. Da tale visione discende la loro concezione panteistica, per cui una possente Energia, una sorta di divinità immanente, è presente in tutte le cose. L’uomo ritrova, così il suo rapporto originario con la Natura e con una dimensione, anzi, una proiezione cosmica e metafisica della realtà. E questo rapporto uomo-natura dà vita a un’intima comunione, giustificata dall’esistenza di un’unica forza vitale condivisa (secondo la concezione della natura elaborata dal filosofo tedesco Schelling). E, forse – attingendo ancora alla filosofia dell’arte di Schelling –, grazie a questo stato ritrovato, l’artista, nel momento della creazione e per effetto di un’inconscia intuizione, riesce a vedere oltre la finitudine e l’imperfezione del reale. Il fanciullo, sostiene Wordsworth, ha conoscenza intuitiva della sua esperienza prenatale, perché la sua mente è ancora incontaminata e non impedita dai limiti e dalle degenerazioni, conseguenza dello stato di maturità, e dall’esercizio improprio del libero arbitrio. È lo stato di innocenza conosciuto da Adamo ed Eva prima della caduta, uno stato che non esclude, come già detto, la presenza potenziale dell’errore. Sembra, dunque, un richiamo all’originaria condizione dell’uomo – che nella Natura, evocata da Wordsworth, trova il suo habitat incontaminato (l’Eden) – ed alla sua filiazione divina. Ma l’essere è creatura finita e imperfetta che con la maturità, l’esperienza, il contatto col mondo creato è portato a sopravvalutare il suo potere e la sua capacità di dominio, e a darsi regole che, sovente, ignorando il Patto originario con Dio e il primato della Sua Legge, diventano strumento di sopraffazione, d’intolleranza e inimicizia.

    Anche nel caso della caduta di Adamo ed Eva, sembra, dunque, esserci una perdita graduale di memoria: sembra che essi abbiano dimenticato la propria origine divina, le ragioni prime del loro stato di felicità e d’innocenza. Se ciò è plausibile, ne consegue che la conoscenza del male e la possibilità di cedere ad esso progrediscono con l’esperienza, anche se l’uomo, come già detto, ha, nella propria volontà e nel proprio discernimento, la forza potenziale di opporvisi. Wordsworth, nella sua famosa ode Intimations of Immortality, afferma che l’uomo adulto non ha la conoscenza, la saggezza istintiva che è memoria viva del suo stato prenatale, ma è dotato di una philosophic mind che gli consente di rievocare razionalmente il suo stato originario. Questo passaggio, dallo stato d’innocenza a quello della maturità, è progressivo e, di conseguenza, crescente è il grado di conoscenza e di consapevolezza del male che l’uomo consegue, e solo l’esercizio saggio del libero arbitrio – nell’accezione biblica –, che ci richiama alla mente la funzione positiva della philosophic mind del Wordsworth, può consentire di riconoscere ciò che è bene e ciò che è male.

    Nel Libro iv, Adamo informa Eva che, fra tutti gli alberi deliziosi, Dio ha fatto loro divieto di assaggiare il frutto dell’Albero della Conoscenza, che è l’«…unico / segno d’obbedienza a Dio,…, fra i tanti / d’impero e di potere che furon conferiti»²⁹ all’uomo. Trasgredire quest’ordine significherebbe morire. C’e da chiedersi: perché Dio avrebbe posto il divieto, se non per limitare il potere dell’uomo? E se il potere è limitato, infrangere la regola non è forse compiere un atto di disobbedienza? E tutto ciò non significa che il grado di perfezione dell’uomo è limitato perché ristretto nell’ordine naturale? Se si resta in questa logica, ritengo si debba ribadire e concludere che l’uomo è nato innocente, ma non perfetto secondo un ordine soprannaturale, quindi, esposto all’errore. Il concetto di perfezione assoluta, che corrisponde all’idea di Dio, e il concetto d’imperfezione, che evoca la fragilità dell’essere, nascono con l’uomo; e la morte, di cui non si ha esperienza, non può che essere l’opposto della vita che è compimento, armonia, bellezza. La morte, è, cioè, la rottura dell’equilibrio e dell’integrità presenti nell’ordine naturale: è la dissoluzione del bello, di ciò che è perfetto nella condizione umana, è affermazione della limitatezza dell’essere.

    Ha, quindi, una sua coerenza il dialogo, che ha luogo nel Libro viii, tra Adamo e l’Arcangelo Raffaele, nel corso del quale si fa cenno alla passione come fonte del male e all’esigenza di governare le passioni; e la passione è ingenita nell’uomo ed è sintomo della sua fragilità; perciò, suscita qualche perplessità l’affermazione di Elio Chinol, secondo cui la conoscenza del bene e del male sarebbe uno stato inconciliabile con quello di perfetta innocenza.³⁰ Chinol sembra che dia all’innocenza perfetta un valore trascendente, mentre, a mio avviso, come ho cercato di chiarire, è solo un grado di perfezione nell’ordine naturale; dunque, perfetta innocenza sino a quando il male, che è potenziale e in agguato nell’essere, non si manifesta e non ha il sopravvento.

    Una riflessione sul valore e sul significato di conoscenza ci aiuterebbe, forse, a meglio comprendere la condizione dell’uomo di fronte all’obbligo di una scelta, ma non è argomento di questo saggio.

    Resta ancora un’ultima annotazione su un aspetto strettamente legato all’idea di fragilità dell’essere, che induce a sottolineare un altro tratto della questione.

    Il ragionamento fin qui fatto consiglia di collocare la posizione dottrinale di Milton oltre la comune interpretazione offerta dall’Authorized Version of the Bible, come fa notare Frank Kermode in Adam Unparadised,³¹ e a guardare semmai alla versione dei testi latini che evocano il concetto di in paradisum voluptatis. È la tesi sostenuta anche da Sister Mary I. Corcoran, la quale afferma di non credere a quanto scrive Milton secondo cui «…in those hearts / love unlibidinous reigned,…».³² La Corcoran sostiene, a tal proposito, che il poeta ritorna spesso sul piacere dei sensi, dando cosi la misura del concetto di sensualità prima della Caduta.³³ Un esempio è dato dal v. 206 del Libro iv che recita: «Beneath him with new wonder now he views / to all delight of human sense exposed / in narrow room nature’s whole wealth, yea more, / a heav’n on earth…».³⁴

    La verità è che Milton non riesce a vedere la sessualità, che è oggetto dei sensi, quindi, categoria corporea, come valore indipendente, staccato dalla realtà dello Spirito. Milton scrive che «lo Spirito, sostanza per eccellenza, virtualmente e concretamente, contiene in sé la materia inferiore;…».³⁵ Dio è principio di tutto e, quindi, potenzialmente contiene anche la forma. Da ciò discende che l’anima e il corpo appartengono alla stessa realtà. Quest’argomento, sviluppato, appunto, in De Doctrina Christiana, dà sostanza al discorso che l’Arcangelo Raffaele rivolge ad Adamo.³⁶

    La complessità del Paradise Lost è nel tentativo, in molti casi felice, a volte faticoso, di voler ritrarre, come scrive Bonaventura Zumbini, «tutte le età, antecosmiche e cosmiche, poetiche e storiche, passate e future…»³⁷

    Con l’aver messo assieme la Genesi, che rappresenta l’atto creativo, l’Apocalisse, che racconta le conseguenze della distruzione più che la lotta, e l’evento della Colpa che, pur nella sua drammaticità, conferisce una connotazione umana ad Adamo ed Eva, e li colloca nella storia dell’umanità, Milton sembra aver voluto scrivere un’opera unica: e, forse, vi è riuscito, se essa ancora solleva tanti interrogativi nello studioso e nel comune lettore.

    Milton in Italia

    Non si conoscono le ragioni vere del viaggio di Milton in Italia, si possono solo supporre. Diverse sono le congetture,³⁸ mancano, però, riscontri oggettivi.

    Al tempo di Milton non era ancora in voga il Grand Tour,³⁹ pochi erano i giovani aristocratici che si consentivano un tale viaggio per ragioni di studio e per accrescere le proprie conoscenze. Milton, può, dunque, considerarsi un antesignano. Non era facile, allora, mettersi in viaggio, e il poeta dovette organizzare ogni cosa con largo anticipo, e lo fece, dettagliatamente, nella primavera del 1638.

    Milton non poteva lasciare l’Inghilterra senza la prescritta autorizzazione, che doveva essere rilasciata dall’autorità competente, cioè il Lord Warden of the Cinque Ports;⁴⁰ e per ottenere questo documento, una specie di passaporto,⁴¹ il poeta si rivolse a Henry Lawes, personaggio molto influente e musicista di Corte,⁴² al quale Milton espresse la propria gratitudine dedicandogli un sonetto. Si è perduta ogni traccia del passaporto, ma nella British Library si conserva la lettera di Lawes a Milton con cui l’estensore trasmetteva il documento.

    Grazie all’intercessione di un tale Mr H.,⁴³ Milton poté incontrare a Eton Sir Henry Wotton, poeta, vecchio diplomatico, non più in servizio, e, a quel tempo, Provost (una sorta di rettore) della famosa public school. Dopo tale incontro, Milton ringraziò Wotton inviandogli, in data 6 aprile 1638, una copia di A Maske, accompagnata da una lettera di cui s’è perduta traccia. Wotton, a sua volta, gli rispose ringraziandolo⁴⁴ ed esprimendogli la sua ammirazione per l’opera. In tale lettera, oltre a Mr H., è menzionato un tale Mr R., probabilmente il drammaturgo Thomas Randolph, che aveva studiato a Cambridge nel periodo in cui la frequentava Milton. Wotton fece, inoltre, pervenire a Milton una lettera di presentazione per Mr M.B. (Michael Branthwait) His Majestie’s Agent in Venice.⁴⁵

    Il soggiorno per un anno, fuori dal proprio Paese, sarebbe costato al padre del poeta la cospicua somma di 300 sterline.

    Nel maggio del 1638, Milton salpò per la Francia. La prima tappa fu Parigi, ove il poeta incontrò l’ambasciatore Visconte Scudamore, che lo introdusse al giurista olandese Hugo Grotius (Huig van Groot),⁴⁶ un arminiano costretto a lasciare il proprio Paese per evitare la prigione a vita.

    Milton, fornito di altre lettere, scritte da Lord Scudamore, si fermò a Nizza, poi, si diresse a Genova, Livorno,

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