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Il tempo senza strade
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E-book306 pagine3 ore

Il tempo senza strade

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Info su questo ebook

“I ricordi sono brutte bestie da affrontare. Non possono mai essere cancellati completamente. Tutt’al più, si può cercare di rimuoverli, di nasconderli, far finta di nulla ma solo per qualche tempo. Poi, tornano fuori, tracotanti e incontenibili.

Non possono neppure essere addomesticati, i ricordi, perché non riconoscono padrone né superiore. Anzi, si comportano come fossero loro i nostri padroni, e lo sono per davvero.

Ed è vano, persino, il combatterli a viso aperto perché è impossibile averne la meglio. Sarebbe come vincere contro sé stessi: che senso può avere lo sconfiggersi?”

LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2016
ISBN9788892584495
Il tempo senza strade

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    Anteprima del libro

    Il tempo senza strade - Jonny Begood

    immaginari

    *** Normal Jonny BeGood 2 1 2014-12-06T20:47:00Z 2016-02-15T16:25:00Z 2016-02-15T16:25:00Z 211 57690 328838 2740 771 385757 12.00

    Salva me de ore leonis

    1.

    — A proposito, il ventinove organizzo la solita cena di fine anno. Ci sarai, vero? — chiese Alfredo alla fine della lunga conversazione al telefono.

    — Certo! – rispose J. all’altro capo, — puoi stare sicuro che non mancherò.

    L’invito di Alfredo era tutt’altro che inatteso. Il ventinove dicembre, infatti, l’amico di una vita compiva gli anni, e il suo compleanno era una data speciale anche per i suoi amici, perché da sempre, sin da quando erano ragazzini, ogni fine anno si riunivano tutti assieme nella grande e vecchia casa di famiglia per festeggiarlo.

    Il trascorrere del tempo non era riuscito a scompaginare la compagnia né a sminuire la voglia di partecipare all’agape rituale. Ai capelli grigi (‘Almeno tu ce li hai ancora, i capelli!’, inveiva qualcuno), si erano man mano aggiunti mogli e figlioli, nuovi partner e facce nuove. Ma nessuno dei vecchi compagni, gli ‘originari’, i ‘vecchi inossidabili’, rimasti in fondo all’animo sempre i soliti ragazzini di un tempo, sarebbe mancato per nulla al mondo alla ‘cena’. 

    Una irrinunciabile pausa di quieta riflessione da dedicare a sé stessi e ai ricordi della gioventù, dopo l’abbuffata di Natale con i parenti e prima del veglione di San Silvestro, quando avrebbero salutato un’altro, ennesimo anno da aggiungere ai tanti già stipati nello zaino che appesantiva le spalle.

    — Chi verrà stavolta? — La domanda dell’invitato, perfettamente inutile, era tuttavia d’obbligo.

    — Ma i soliti, naturalmente, — rise Alfredo, che si corresse subito: 

    — Ah no, aspetta, quest’anno ho invitato anche Ruben e Sofia, ma tanto li conosci già, vero? E sicuramente sai anche della malattia di Ruben. Poveretto, gli farà bene distrarsi. Cercheremo di tirarlo un po’ su di morale, eh?

    J. rimase di sasso. La buona novella di Alfredo lo annichilì, lo schiantò di botto lasciandolo senza fiato, appeso al telefono come un calzino bagnato penzolante dallo stendibiancheria. Il buon Alfredo non poteva saperlo ma, in un attimo, gli aveva strappato di dosso una buona decina degli anni rimastigli da vivere, e che J. risparmiava giudiziosamente. Quei due invitati dell’ultima ora erano ben più di due semplici commensali imprevisti: rappresentavano una autentica catastrofe.

    – Pronto? … Oh, ci sei ancora? Pronto? – insistette Alfredo.

    Il povero J. cercò allora di tirarsi disperatamente indietro, e di tornare sui propri passi, bofonchiando quello che, sul momento, gli venne in mente, la scusa peggiore, più abusata e controproducente che potesse escogitare.

    — No, Alfredo, aspetta… mi sono ricordato adesso di un impegno precedente… e non so se…, non so se potrò venire.

    Alfredo s’inalberò.

    — Come? Non ti sento, perdio. Cos’hai detto? Non sai se vieni? Ma se mi hai appena detto di sì! — esclamò.

    — Sì, sì, naturalmente, farò di tutto per partecipare, — annaspò J. — Ma, sai… No, forse è meglio che ti spieghi a voce… Anzi no…, — deglutì, — facciamo così, ti richiamo questa sera e… sì, sì, — proseguì apparentemente rinfrancato, — ti richiamo io più tardi, e ti spiego.

    — Come? Sento solo un brusio: ti funziona male il telefono o ti parli addosso?

    Alfredo aveva il tono di voce piuttosto contrariato. Saper mentire bene è una questione di prontezza di spirito ma anche di esperienza e, purtroppo, J. difettava di entrambi.

    — Cos’è che spieghi? Bah, fa come ti pare, rinuncio a capirti. Mi farai sapere quando ti sarai deciso una volta per tutte.

    Ci fu una pausa. Per un momento J. sperò che la telefonata si fosse, bene o male, conclusa, e di aver guadagnato un po’ di tempo per imbastire un pretesto credibile da esibire in una successiva conversazione.

    Alfredo, tuttavia, non era tipo da desistere alla prima difficoltà. Riprese subito in mano le redini della discussione:

    — Di’, sarà mica a causa di Ruben, eh? Non metterti strane idee per la testa, è un buon ragazzo…

    — Ma no, cosa vai a pensare, — lo interruppe J. — Anzi, Ruben l’ho visto poco tempo fa e abbiamo fatto una bella chiacchierata assieme.

    — Ah, ecco, volevo ben dire. Vuoi fare il difficile, allora, e farti pregare come al solito, — l’apostrofò l’altro.

    J. cercò di gettare acqua sul fuoco e di rabbonirlo, ma invano, e l’amico riattaccò palesemente irritato.

    Aveva ragione, povero Alfredo. L’invitato aveva voltato gabbana di punto in bianco, non appena sentito il nome di quei due, e con il più insulso dei pretesti, per giunta. Chiusa la linea, si mise a scuotere la testa e agitare le mani con fare perplesso, com’era sua abitudine, cercando la moglie di stanza in stanza per raccontarle della conversazione.

    — Albina! Ascolta, non ci crederai… Ma è mai possibile, dico io? Chissà cosa tirerà fuori, stavolta, per farsi pregare. Io mica riesco a capirlo, Jonny; prima dice che verrà, poi non vuol più venire, e alla fine non manca mai! Mah, tu cosa ne dici Albina, eh? Albina! Ma dove ti sei cacciata?

    Nemmeno J. sorrideva in cuor suo. Riposto mestamente il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni, si mise a guardare sconsolato davanti a sé. Era tardo pomeriggio. Alfredo lo aveva chiamato mentre approfittava dell’ultima ora di luce per spazzare via le foglie secche dal vialetto d’ingresso di casa, e cercava di stanare, col manico della scopa, un pallone incastratosi fra la siepe e il muro di recinzione.

    Anche se in quel momento per strada non c’era anima viva, dopo pranzo nella via si era svolta una furibonda partita a pallone. L’inverno non riesce certo a fermare la voglia di giocare all’aperto dei ragazzini. Basta un po’ di sole nel primo pomeriggio, un coraggioso che si fa vedere in strada a palleggiare contro i muretti di recinzione e, come d’incanto, spuntano fuori anche gli altri: tutti gli altri, senza bisogno di chiamarli o di suonare ai campanelli. Il suo cancello carraio, per le misure e la collocazione strategica a chiusura della strada, rappresentava una porta di calcio ideale. Perciò, J. doveva spesso recuperare i palloni volati ‘alti sulla traversa’ e piombati nel giardino. La palla raccolta veniva poi poggiata in bella vista sopra la siepe, pronta a bordo campo per altre partite

    A quell’ora, il sole era definitivamente tramontato dietro i monti di ponente, ma la sua luce lottava per tornare indietro, accendendo il cielo di braci vermiglie. Le fiamme scarlatte che balenavano dietro alle rade nuvole sfilacciate non riuscivano, tuttavia, a rischiarare il buio livido calato all’improvviso dentro nell’animo, né a contrastare il freddo pungente che lo assaliva d’ogni parte.

    A che pro menare fendenti con un bastone di legno? Il vialetto era sgombro, pulito e, in fondo, il pallone avrebbe potuto ripescarlo anche l’indomani. Tanto valeva lasciar perdere la ramazza e rientrare in casa a meditare una volta di più, cosa di cui non sentiva affatto il bisogno, sopra un passato sgradevole e mai abbastanza lontano. Un passato che tornava, malaccetto, a farsi sentire come i morsi di una vecchia cicatrice al sopraggiungere del brutto tempo.

    Appena si fossero incontrati a quattrocchi, Alfredo non avrebbe perso tempo per metterlo alle strette e indagare il motivo del suo voltafaccia; per scoprire quali recondite idiosincrasie gli avessero fatto saltare la mosca al naso, al solo sentir nominare Ruben.

    Cosa raccontargli? Di certo non la verità, quella no, non avrebbe mai potuto rivelarla a nessuno. Eppure, per ironia della sorte J. non aveva mentito all’amico. Infatti, non era a causa di Ruben che lo stomaco gli si attorcigliava dolorosamente, ma di Sofia.

    Salva me de ore leonis, canta il salmista, salvami dalle fauci del leone. La malattia di Ruben, l’angoscia per la presenza di Sofia. Altro che la solita cena spensierata: quella che si profilava all’orizzonte era la tempesta perfetta.

    *** Normal Jonny BeGood 2 1 2014-12-06T20:47:00Z 2016-02-15T16:25:00Z 2016-02-15T16:25:00Z 211 57690 328838 2740 771 385757 12.00

    2.

    Aveva conosciuto Sofia tanti anni prima, un pomeriggio di settembre, quando lei era apparsa come per incanto nella piazzetta frequentata dalla compagnia di Alfredo, J. e gli altri ragazzi, intenti, chi a cavalcioni del motorino, chi sbracato a gambe lunghe sulle panchine, a discutere di calcio e di automobili. All’improvviso si zittirono. Una ragazza molto carina, che non avevano mai visto in paese, prese a camminare verso il gruppetto, le mani in tasca, l’andatura sciolta e tranquilla. Sopra i jeans indossava una camicia di cotone a quadroni rossi, bianchi e neri; la morbida e lunga treccia bionda a spina di pesce che brillava adagiata su una spalla. Come avrebbe potuto non accorgersi che tutti la stavano guardando a bocca aperta, dimentichi di ogni altra cosa?

    Uno di loro, soprannominato Óvo (cioè uovo) per la forma della testa, che frequentava la sua stessa classe del liceo, la riconobbe e le andò incontro arrossendo sino alla radice dei capelli, e poi la presentò agli altri che intanto si erano accalcati attorno.

    Sofia si era trasferita da poco in paese, da quando il padre aveva rilevato l’unica farmacia di Villanova. Da quel pomeriggio, prese a frequentare la compagnia di coetanei. A dicembre venne invitata per la prima volta al compleanno di Alfredo, e le domeniche d’inverno andavano tutti insieme a sciare e giocare sulla neve. Era una ragazza benestante, bella e introversa, con il fascino contorto di chi si aspetta troppo dagli altri e, purtroppo, anche da sé stessa. Spigolosa e sfuggente non dava molta confidenza, e questa sua ritrosia sfidava e raffreddava al tempo stesso l’intraprendenza dei maschi. Uno dopo l’altro, quasi tutti i ragazzi del gruppo ci provarono ma lasciavano perdere non appena lei sfoderava le sue unghie affilate.

    Per molti di loro era l'anno della maturità, per altri l'anno del servizio miliare o il primo dell'università; per J., invece, era l'anno dell'incidente d'auto che gli aveva appena portato via la madre, precipitandolo in un baratro dal quale non riusciva a risollevarsi. Durante quei lunghi mesi invernali, J. e Sofia si ignorarono reciprocamente. Poi, successe qualcosa. 

    Una tiepida sera di aprile, lei usciva dall’autoscuola dove frequentava i corsi per la patente. Saranno state le nove: a quell’ora era già buio pesto. Scesi gli scalini che portavano al marciapiede, si fermò un momento ad agganciare e tirare su la cerniera del giubbetto. Quando rialzò gli occhi si trovò davanti J., che si stava recando in un bar del centro per incontrarsi con gli amici. Non c'era nessun altro nei paraggi, solo loro due. Lui si offrì di riaccompagnarla e lei, forse presa alla sprovvista, accettò.

    La cosa avrebbe potuto limitarsi a quell’unica, innocua discontinuità. Una breve deviazione dalla solita, monotona rotta percorsa quasi tutte le sere. Poche centinaia di metri fuori del centro, giusto il tempo di accompagnarla sino al cancello di casa e poi ritornare subito indietro, verso le abitudini di sempre. Un gesto di banale cortesia, non richiesto né cercato, privo di reale utilità in un paese dove non succedeva mai nulla; in una serata tiepida di aprile, un mese famoso per raccontare bugie a chi ha bisogno di credere in storie diverse, migliori.

    Ma il gesto si ripeté la sera successiva, e poi quella dopo ancora, sino a che J. scordò la strada per la piazza, e Sofia la prudenza.

    Cosa poteva attrarre due persone tanto diverse per carattere e ambiente familiare, simili solamente nel sentirsi a disagio in mezzo agli altri? Fu la tristezza di J. a muovere a compassione Sofia? La pietà offuscò i suoi occhi d’oro, le iridi d’ambra increspate di muschio, nascondendole l’impurità dell’infelice?

    La loro storia durò solo un mese, un maggio bello e terribile perché alla fine annegarono entrambi. J. contaminò Sofia trascinandola con sé nel fondo, e non se lo perdonò mai.

    Dopo l’infelice conclusione di quella storia, Sofia cominciò a uscire con Ruben, il ragazzo più eccentrico della compagnia, e non solo per il nome inconsueto da quelle parti. Non era un soprannome, infatti, un diminutivo o uno dei nomignoli canzonatori che i ragazzi si affibbiavano l’un l’altro, ma il vero nome di battesimo che gli aveva imposto la madre argentina, e del quale andava fiero. Ruben era bello, di famiglia agiata. Oltre a lavorare nella ditta del padre, era anche un artista che dipingeva e vestiva spesso da anticonformista, coi pantaloni alla turca e i camicioni indiani, come nessuno in paese si sarebbe mai sognato. Ruben e Sofia si sposarono molto giovani.

    Ripiombato nella depressione, J. vide la ragazza spinosa sbocciare e diventare una giovane donna, affascinante e più sicura, ancora capace di mostrarsi dolce quanto bastava per farsi inseguire con lo sguardo, senza lasciarsi raggiungere mai. Era una gatta, Sofia, e né la buona né la cattiva sorte potevano mutarne l’indole.

    Da quella stagione tribolata, J. e Ruben si rividero spesso e mantennero tra loro rapporti epidermici ma cordiali, come accade tra buoni conoscenti di lunga data, che non hanno motivo di discordia né ragioni per approfondire troppo l’amicizia.

    Tra J. e Sofia, invece, irruppe il vuoto cosmico. Non le bastò non rivolgergli più la parola. Questa negazione non dovette sembrarle sufficientemente assoluta, perché si mise d’impegno per estirpare dal proprio cuore persino il ricordo di quanto era successo. Il problema fu definitivamente risolto alla maniera di Sofia, cioè con l’annullare il problema stesso. Era del tutto inutile che J. cercasse di spiegarsi e chiederle perdono. Lei non lo conosceva affatto, tra loro due non era successo nulla, né mai sarebbe potuto accadere.

    J. fu retrocesso allo stadio di ovocita indifferenziato e privato del diritto alla memoria; e persino della titolarità a quell’imprescindibile prerogativa umana che, da Adamo in poi, connota la nostra specie: la possibilità, l'inevitabilità, la necessità di sbagliare.

    Nonostante le buone intenzioni di Sofia, le spoglie mortali di J. continuavano, però, a percorrere stolidamente le strade di Villanova. E così, capitò comunque che nei vent'anni a seguire i due si sfiorassero appena tra la gente, per strada, nei negozi, in grazia di quei rari accadimenti fenomenici che pure devono statisticamente avvenire in un universo regolato dal caos probabilistico. 

    Incontri frettolosi e imbarazzati, dei quali J. non conservava un chiaro ricordo ma un doloroso, amaro residuo. Rammentava solo brevi cenni con la testa, saluti appena abbozzati, quasi che parlare forte, o solo rallentare il passo camminando verso di lei, fosse proibito da un tabù invalicabile. Sino a poco tempo addietro, J. non riusciva nemmeno a richiamare alla memoria con nitidezza il volto di Sofia, tanto era forte il malessere che gli scatenava nell'animo. 

    Il ricordo è debole se non si può guardare nel fondo degli occhi dell’altra persona, o nella propria anima. Una figura indefinita e priva di vita è ciò che si riesce a trattenere fra le dita, una ipostasi senza peso, delle macchie di colore prive di forma.

    Fino a che, l'inverno precedente Ruben si era ammalato di cancro allo stomaco. La notizia della malattia sconvolse chi lo conosceva, per la sua giovane età, per la gravità del male. J. l’aveva incontrato a una mostra collettiva, alla quale Ruben partecipava con altri artisti, e lui stesso gli aveva parlato, senza tanti giri di parole, della malattia che lo aveva colpito, con tranquillità impressionante, lasciandolo stupefatto per la sua forza d’animo.

    I rari incontri con Sofia cominciarono, allora, a prolungarsi di poco, continuando a rimanere, tuttavia, inconsistenti e dolorosamente irreali. Solo il tempo di una domanda e della risposta di circostanza, dettate l’una dalla sollecitudine nei riguardi di Ruben, e l’altra dalla buona educazione di chi non può non rispondere a uno sconosciuto amico del proprio marito.

    Ma la malattia è una catena che ruota vorticosa, e afferra anche chi sembra trovarsene sufficientemente lontano, perché nessuno è al sicuro dal male. J. conosceva il senso di soffocamento che si prova a vivere con una persona cara che soffre e, se il male può essere senza speranza, il terrore della solitudine e del buio che seguirà alla sua morte.

    Più si è vicini a chi soffre e più si precipita avvinghiati assieme verso il basso, senza scampo, giù nell’acqua fredda che diventa scura e si richiude sopra la testa; e si prega di avere dentro fiato sufficiente a riemergere, ma sembra impossibile tornare a respirare.

    La malattia cambia le persone: Ruben non sarebbe tornato lo stesso di prima, né Sofia che gli viveva accanto. Anche J. rischiava di finire risucchiato in quel gorgo, se non si fosse tenuto lontano a sufficienza da loro due. Da lei…

    Non si può, tuttavia, trascurare gli amici, specie quando c’è di mezzo la sofferenza. E, poi, invecchiando si diventa fatalisti. Se le cose avevano deciso di andare in quella direzione, un motivo ci sarà stato. E diventando fatalisti, non si cerca nemmeno più di sfuggire al proprio destino ma, addirittura, lo si anticipa infilandosi a piè pari nella bocca del leone.

    Dopo cena, J. richiamò Alfredo.

    — Tutto risolto. Vengo, — gli comunicò senza eccessivo entusiasmo.

    — Non ne ho mai dubitato. Poi mi racconterai meglio, — ridacchiò lui.

    Si trattava di rassegnazione, dunque, o autolesionismo, oppure…?

    Quando il cuore si agita, il suo contenuto si rimescola. Sedimenti e fondiglio risalgono, intorbidano nuovamente il sangue e la ragione non vede più chiaramente nelle cose.

    *** Normal Jonny BeGood 2 1 2014-12-06T20:47:00Z 2016-02-15T16:25:00Z 2016-02-15T16:25:00Z 211 57690 328838 2740 771 385757 12.00

    3.

    La sera della fatidica cena, J. arrivò in leggero ritardo e gli altri convitati lo aspettavano già seduti a tavola. Ci volle un po’ per salutarli tutti, sistemare sulla credenza le bottiglie di vino e il dolce che aveva portato con sé, tornare fuori nell’atrio per togliersi il giaccone e appenderlo sull’appendiabiti, prima di rientrare in sala da pranzo e accorgersi, con disappunto, che l’unico posto libero rimasto era proprio quello accanto a Sofia.

    Il giorno prima, J. aveva rimuginato a lungo sull’atteggiamento da tenere nei suoi confronti, finendo per concludere che la miglior tattica fosse di mostrarsi distaccato, indifferente; ancor meglio se fosse riuscito a evitarla. Anche lei - come dubitarne? - sarebbe rimasta sulle sue; e i loro due universi, condannati a non incontrarsi mai più, avrebbero potuto proseguire indisturbati la propria deriva solitaria.

    Un piccolo aiuto da parte del destino, tuttavia, non sarebbe riuscito sgradito; magari una provvidenziale indisposizione di Sofia, o un posto a sedere da tutt’altra parte nella grande stanza, circondato da altri amici e distante da lei. E invece, no, che gli toccava di prendere posto proprio a fianco del suo incubo! Pazienza. Si guardarono appena e si salutarono compìti, rigidi e inamidati come due perfetti estranei.

    Gli sguardi ansiosi di tutti i commensali si appuntarono allora su Ruben, che appariva di buon umore, fisicamente dimagrito ma senza segni evidenti di sofferenza in viso. Ruben raccontò brevemente le sue vicissitudini e concluse annunciando che un primo ciclo di terapie, seguite all’intervento chirurgico, aveva dato buon esito. Un mormorio di sollievo accolse la notizia, poiché appariva evidente a tutti come stesse affrontando la malattia con la miglior disposizione d’animo possibile.

    Albina, la padrona di casa, una donna molto premurosa, si era informata sulla dieta migliore per i malati di stomaco e aveva preparato l’intera cena secondo le rigorose prescrizione salutiste di un famoso medico, il quale proibiva ogni tipo di grassi, specie se fritti, la carne rossa, il latte, latticini e formaggi, zuccheri, pane bianco, sale, e chi sa cos’altro. Una sostanziosa bordata di anatemi alimentari, in grado di incenerire ogni comune mortale seduto al desco quotidiano.

    Sebbene molti

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