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L'alba dell'ultimo rito
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L'alba dell'ultimo rito
E-book980 pagine11 ore

L'alba dell'ultimo rito

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Info su questo ebook

Strani omicidi e una corsa sfrenata alla ricerca di un dipinto perduto da secoli: il misterioso Indice di Raffaello che racchiude il più incredibile smascheramento della Storia. Chi sono i grandi uomini del passato? Cosa si cela nelle pieghe oscure del futuro? Agghiaccianti verità! A “L’alba dell’ultimo rito” segue il thriller “L’ultimo rito” in cui si svela il compimento della profezia.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2016
ISBN9788892602977
L'alba dell'ultimo rito

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    Anteprima del libro

    L'alba dell'ultimo rito - Ralph Colemann

    1

    Roma, Vaticano,

    sabato 12 maggio 1492, ore 23.30

    Spandeva intorno un respiro affannoso, saturo, inquieto. Gli occhi sbarrati frugavano nella semioscurità della grande stanza. Giaceva in un letto morbido e ampio, fra lenzuola di lino e guanciali di piuma. La fronte gli scottava e così, immerso in un sudore acre e vischioso, stava peggio che in un giaciglio. Credeva di urlare, quasi alla fine di un incubo ossessivo, ma solo un debole rantolo usciva a stento dalla sua gola riarsa. Quell’imponente baldacchino, carico di storia e gli altri sontuosi arredi sistemati intorno l’opprimevano come la cella angusta di una prigione eterna. Quello sembrava l’inferno. Forse era già l’inferno. Nel torpore di una coscienza piombata ai confini fra realtà e delirio prendevano forma frammenti di ricordi, momenti temuti come fantasmi orribili, minacciosi.

    Voleva rigirarsi nel letto per dare sollievo alle sue membra intorpidite, ma la mole del suo corpo glielo impediva. Condannato a quell’insopportabile posizione supina fissava in alto il drappo del baldacchino che alla flebile luce del finestrone aperto si faceva a tratti vivo e opalescente come uno schermo.

    Vedo la morte, la vedo col suo marchio, col suo numero. La vedo arrivare, balbettò, convinto di parlare ad un evanescente compagno di viaggio. Fiotti di memorie affioravano da un mare grigio e di colpo tornavano a celarsi fra le pieghe di ombre impenetrabili. Passato, presente, futuro si fondevano in un vortice infinito. Smaniava, oppresso da una lacerante angoscia. No, non erano rimorsi, se mai rimpianti. Per lui era uno strazio separarsi da quella vita e ripiombare giù, alle fatiche dopo la vacanza. L’ora era venuta. Mancavano otto anni alla fine del secolo, ma lo sapeva che non sarebbe vissuto abbastanza. È il destino…, pensò.

    Quel vortice gli pareva un ciclone dalla falce affilata e nel suo occhio un teschio rinsecchito stava lì pronto ad inghiottirlo. Frastuoni insopportabili, come ululati di spettri e larve sotterranee, rimbombavano nella sua mente confusa e a nulla valeva tapparsi le orecchie o cacciare via con le mani tremanti e grassocce le viscide ali che gli sfioravano il viso.

    Streghe, orribili o seducenti, avvolte dalle fiamme coi loro gatti neri, lo chiamavano dall’abisso. Un coro ripeteva la lugubre cantilena della vecchia bolla papale: Summis desiderantes affectibus… Malleus maleficarumDesiderando con tutto il cuore… Il maglio delle streghe.

    Si abbandonò alla culla di quel canto. Chi sono io?, si chiese. Chi sono nel comune sentire della gente? Un santo….

    Come in un teatro guardava il palcoscenico e si vedeva già in groppa ad un cavallo nero.

    La visione della morte gli raggelò la fronte madida. Vampate di calore e brividi di freddo si alternavano.

    Sì, ecco!, balbettò, in caldo e in gelo. È così che l’ora viene, me lo dice il sommo poeta!".

    Con un filo di voce, gorgogliante e roca recitò più volte i famosi versi. Non poteva trattenersi dal farlo perché gli martellavano le tempie.

    "Non isperate mai veder lo cielo:

    io vegno per menarvi a l’altra riva

    ne le tenebre etterne, in caldo e in gelo".²

    Il rintocco in sordina della campana notturna lo riscosse e lo riportò alla realtà. La sua mente vacillante si fece a tratti lucida.

    Sabato… È sabato. Solo poche ore e poi l’alba della domenica, un’altra domenica, sì, domenica, il giorno del Signore… Sì, del Signore, cantilenò con sarcasmo. Ma di quale Signore? Sembrò abbandonarsi ad una risata, ma il catarro gliela bloccò in gola. Congestionato in viso, tossì con insistenza.

    Che tu sia maledetto! Domani non potrò celebrare, si disse in un ghigno. Il popolo… Che dirà il popolo? Non vedrà me che ormai sono il passato, ma il volto del futuro. Lo farà lui per me, il dolce prediletto… Domani, sì, giusto domani la sua prima investitura ufficiale.

    Di nuovo un rantolo improvviso gli agitò il collo grasso, ricoperto da un doppio mento spugnoso e flaccido. Abbandonò ogni sforzo delle labbra ormai impotenti e si lasciò andare molle in un mare di pensieri. Iohannes, il suo prediletto, il più bello dei suoi amori. Glielo avevano affidato da bambino per una carriera sicura. Dall’alta nobiltà fiorentina alla massima autorità di Roma. Ma che ne sapevano a Palazzo della verità? Un segreto da sempre.

    Fu scosso da un forte fremito che fece scricchiolare il baldacchino. Quel letto dei giochi d’amore era adesso l’anticamera di una tomba. E Iohannes, il giovane amante, gli stava ogni giorno al capezzale senza una lacrima negli occhi.

    Sciagure, sì! Vedeva valanghe di sciagure all’orizzonte. Lui lo sapeva.

    Lorenzo… O magnifico Lorenzo. Sei morto da un mese appena, mio caro consuocero e già scorgo nubi oscure addensate sul cielo di Firenze. E tu, Roma mia, arriva la tempesta. Vedo su di te le grinfie della sanguinaria stirpe di Jativa.

    Rabbrividì, ma poi sembrò per un attimo rasserenarsi. Sapeva che alla fine tutto era riposto nelle mani di Iohannes il prediletto e che il futuro era suo. Così le cose dovevano andare. Era scritto. Ancora ventun anni esatti e poi di nuovo il decollo dell’antica dinastia.

    La sua mente rotolò fra le rughe del tempo, nel mare dei ricordi confusi e sovrapposti. Pensò con orgoglio alla grande impresa del suo primogenito, obbediente ad un presagio della notte dei tempi. Erano trascorsi sette anni da quando il grande oceano era stato attraversato in segreto e l’antico tesoro riportato a Roma. Si consolò all’idea che ora il primogenito era in Spagna per inscenare la grande parodia.

    Stolti Castigliani! Superbi Aragonesi! Che gusto prendersi gioco di voi! Dannato re! A che t’è servito uccidere il Gran Maestro dei Cavalieri?. Gli sembrava di urlare un’invettiva, ma solo un leggero soffio usciva dalle sue labbra.

    Così pensava, come pensa un alleato dominatore e vincente. Aveva messo la Spagna alla mercé dei domenicani e di Torquemada e dopo la cacciata dei musulmani da Granada aveva potuto dettare legge. Ciò lo inorgogliva.

    Sentì rimbombare nel cranio il fragore dei grandi festeggiamenti per la gloriosa vittoria. Il trionfo di Sua Maestà Cattolica!, bisbigliò e il bisbiglio gli risuonò nella mente come un’esclamazione tonante, una risata di scherno.

    Volti di vivi e di morti gli sfilavano davanti senza che potesse fissarne alcuno.

    Presto ti raggiungerò, mio caro Paolo…, riuscì a dire nell’affanno. Tu hai avuto il dono della conoscenza dei mari. Sì, hai ritrovato il grande mito grazie a mio figlio. Sì, ecco il nuovo seme, mio figlio e la tua dolce figlia Esperia, la nuova eletta per la discendenza. E poi un bel guadagno, no? E che guadagno! Quarantamila ducati… Ma che dico, il denaro non conta nulla. Gli occhi sbarrati sembravano rivivere un momento terribile della sua vita, il momento in cui, per la prima volta, non aveva avuto scelta.

    Che m’importa dei ducati?, pensò storcendo la bocca con disprezzo. La punta della lancia miracolosa sottratta a Bajazet… Quella sì, maledetto sultano infedele! Ecco la mia dannazione… Per avere quelle antiche carte dei mari… La punta della lancia… Chi la ruba ha gli anni contati… Non più di sette! Lo dice la profezia.

    Respirò a fatica, esaurito. Un velo sottile intorbidì i suoi occhi lucidi e arrossati. Si rivide diciottenne nel panorama scintillante del mare genovese.

    Rampollo di Aronne, si sentiva chiamare ed era la voce del Maestro. Vieni, questo è il tuo compito più grande. Vieni, è il fremito d’amore nel ventre della fanciulla eletta, fiore di purezza, sangue del tuo sangue, giù nella grotta con le candele accese e i sacri arredi.

    Poi si rivide a Napoli, tra i fasti e i bagordi di corte.

    Nel silenzio della stanza che gli pareva una caverna, sentiva di nuovo rimbombare la voce del Maestro, e nell’atto di un respiro strozzato già erano passati diciotto anni nella sua mente. Sapeva che quello era l’ultimo atto per il compimento della grande opera. Sto per andare, diceva il Maestro, ma ti seguirò da lontano, in silenzio, finché non sarai giunto al vertice, poi andrò. Ecco, questa è la mia eredità, il progetto per il futuro del mondo. Porgila a chi sai, a Niccolaus, il cadetto che uscirà nuovo dai tuoi visceri e prenderà vita nel ventre della figlia del valoroso Talmay, sotto i cieli toscani.

    Sospirò come se tutto prendesse corpo dinanzi a lui. Ecco nelle tue mani il prezioso libro dov’è la mia mente, diceva il Maestro. Solo quello ti mancava discepolo mio, perché il mio cuore già ce l’hai nelle vene. È questa la testimonianza di un segno millenario.

    La visione svanì e di nuovo comparvero i contorni sfumati della stanza. Si sforzò di pensare con ordine. Domani arriverà… Lo vedo il pupillo, lo vedo ora riposare, stanco del viaggio, nel monastero di Santa Maria dell’Arco.

    Ansimava, abbandonato al ritmo di un respiro e un battito di cuore. Appoggiò le mani sul petto come chi già è composto nella camera ardente. In quelle mani deformate dal gonfiore spiccava più evidente il segno della vecchia cicatrice di lato al dito mignolo.

    Frugava ogni pensiero e cercava refrigerio, invano. La sua mente tornava indietro nel tempo fino ai lontani giorni dell’infanzia, quando si sentiva diverso senza capirne il perché. E non poteva ricordare ciò che era successo alla sua nascita, ma ne portava il dolore acuto nell’inconscio e il segno perpetuo nelle mani come i discendenti della stirpe eletta. Poi finalmente assaporò momenti di conforto immaginando il cielo profondo da cui in principio la stella del mattino era caduta come folgore.

    Il piccolo guaritore di Dio sarà qui domani. Qui tutti pensano che io voglia da lui un miracolo. Sì, così devono pensare, ma il vero miracolo sarà un altro….

    ² Dante, Inferno, III, 85-87.

    Capitolo 2

    Roma,

    venerdì 13 maggio 2011, ore 18.00

    «Un tizio è caduto dalla finestra, commissario…».

    «No! No! Non adesso! Caputello, sono già le sei passate!».

    Riattaccò il telefono e sbuffò. Poggiò una mano sul bordo della scrivania mentre passava l’altra dalla fronte alla nuca sui radi capelli brizzolati. Lanciò uno sguardo all’orologio digitale appeso al muro. Ignorò l’infallibile precisione di quello strumento e guardò anche il suo vecchio Longines da polso. Infine si convinse che malgrado le sei fossero appena passate la sua giornata non era finita lì.

    «La macchina è pronta commissario». Con queste secche parole il sovrintendente Caputello irruppe nella stanza ormai illuminata dalla luce fiacca di un pomeriggio consumato.

    Il commissario cercò di far mente locale, si frugò nelle tasche cercando chissà che cosa, poi si decise a rispondere.

    «Va bene, va bene, andiamo, ma guida piano, se no mi monta il mal di testa…».

    L’auto venne ingoiata dal traffico infernale di Roma all’ora di punta e rimasero subito imbottigliati nei pressi della biblioteca della Marina Mercantile.

    «Ma dove andiamo?», chiese il commissario mentre si frugava nelle tasche. Cercava le sue caramelle alla liquirizia, lo innervosiva pensare di averle finite. Continuando a raspare nervosamente trovò l’ultima, si rasserenò e la scartò. Con un gesto quasi automatico appallottolò ben bene la cartina e la pigiò nel portacenere ormai pieno.

    Caputello smaniava. «Sirena, capo?», chiese a mezza voce.

    «Dai, metti il fungo e infilati nelle corsie privilegiate, ma guida calmo!», si decise il commissario e si accomodò meglio sul sedile.

    Caputello riprese colorito sulle guance e schiacciò il pedale dell’acceleratore, mentre la sirena dilacerava un’aria già gonfia di rumori assordanti e scagliava dappertutto le sue lame di luce aggressiva.

    «Mi sa che quello si è buttato, vero, commissario?», chiese Caputello con gli occhi attenti alla strada. Ad ogni curva sgommava come un disperato e per lui era come tornare bambino.

    Sballottato come un pupazzo il commissario pigiò goffamente un tasto del cellulare e con l’altra mano si tappò l’orecchio destro, perché dal sinistro ci sentiva meglio. Nessuna risposta. No! Sarà mica sotto la doccia?!, pensò.

    Dopo una serie di curve e strattoni, ci riprovò. Questa volta ci fu risposta e lui si sbrigò a parlare, temendo che in quel trambusto cadesse la linea.

    «C’è un’urgenza. Farò un po’ tardi. Forse per cena mi libero… Poi ti richiamo... Sì, ciao! Sì, ciao-ciao!».

    Il pensiero correva all’immagine della casa, della tavola apparecchiata. Fece una smorfia perché come al solito le bravate di Caputello gli rovesciavano lo stomaco. Sì, sì, magari stasera mi fa anche gli spaghetti al ragù!, pensava mentre si reggeva come poteva alla maniglia della portiera. Che disdetta, una sera che poteva tornare a casa un po’ prima… Magari la trovava ancora sotto la doccia…

    A dispetto della sirena urlante, l’auto finì intrappolata nell’inevitabile ingorgo fra viale dell’Arte e viale Colombo. Roba di pochi minuti che però sembravano interminabili. Tuttavia, al contrario di Caputello, il commissario non si spazientì. Piuttosto ne approfittò per tirar fuori dalla borsa il suo taccuino e fare spazio agli appunti che avrebbe raccolto a caldo sul luogo dell’accaduto. Secondo lui erano quelle le informazioni più interessanti e più utili alle indagini.

    «Quanti ne abbiamo oggi?», chiese, mentre finalmente poteva tracciare in tutta quiete qualche parola con la sua stilografica.

    «È il 13 maggio, commissario…», rispose lui, mentre le sue mani fremevano impotenti sul volante.

    Scrisse ben chiara a capo del foglio quella data e circolettò a doppia mandata il numero 13.

    «Magari ce l’hanno pure buttato giù dalla finestra…», azzardò appena Caputello senza distrarsi dalla guida. C’era ancora un po’ di strada da fare, e non poteva perdersi in chiacchiere.

    Il commissario chiuse per un attimo i suoi occhi tondi e scuri. Vedeva cadere dalla finestra uomini a forma di spaghetto e cadere nella pentola spaghetti a forma di uomo. L’autoradio sfrigolò e qualcuno gracchiò qualcosa. Si riscosse.

    «Caputello, cosa cavolo dice?».

    «La mobile di Monte Mario è sul posto…».

    «E allora noi cosa c’entriamo?».

    «Appunto! Ma se cercano lei vuol dire che la cosa è un po’ ingarbugliata…».

    In quel momento incrociarono un’ambulanza e le sirene si fusero in un lamento insopportabile. Il commissario guardò fuori dal finestrino ed era come se lo facesse per la prima volta. Solo ora si rendeva conto di dove fossero diretti. Staccò lo sguardo dal vetro. Detestava la confusione, gli impediva di pensare. Si accorse che il suo aiutante stava blaterando qualcosa all’autoradio.

    «Cavolo, commissario! Ha sentito? Hanno trovato un morto nel letto dell’ospedale!».

    Il commissario guardò fisso il sovrintendente. Non sapeva se ridere o sbottare nella peggiore delle arrabbiature.

    «Ah! Questa poi! Un morto nel letto dell’ospedale… Veramente strano, incredibile! E quando mai!».

    Il sovrintendente aveva imboccato via Trionfale e sgattaiolava fra le macchine sfiorandole a meno di un centimetro. Tanto erano quasi arrivati. Un’ambulanza urlava in senso opposto e si sommavano le bastonate ai timpani già anche troppo strapazzati.

    «L’hanno trovato ora, dopo quello caduto dalla finestra…». Il commissario si abbandonò ad un sospiro e suo malgrado si rilassò, mentre un enorme cancello elettrico si apriva davanti a loro.

    «Caputello, taglia corto e spiegati!».

    «Quello è caduto dalla stessa stanza del morto. Così dicono i colleghi alla radio… Qui c’è sotto qualcosa, commissario!».

    «Forse semplici incidenti… Coincidenze… Ma dì che non tocchino niente», replicò l’altro con calma. Il sovrintendente lo guardò e il suo volto mutò dalla meraviglia alla delusione, poi passò subito il consueto ordine via radio.

    «Voialtri giovani siete tutti uguali. Quando vi si scatena la fantasia non vi si tiene».

    L’auto, spenta la sirena, si fermò vicino alla zona circondata dal nastro rosso e bianco, non lontano dalle altre due auto della polizia. Davanti a loro l’immenso edificio ad otto piani del policlinico sorgeva ai confini di un ampio piazzale piastronato, pulito, disseminato di vasi da fiori ben curati e rigogliosi. I due scesero e si avviarono con un groppo allo stomaco verso il punto dove quel poveraccio si era sfracellato. Il commissario si guardava in giro come se gli mancasse qualcosa. Un agente in borghese della scientifica gli si avvicinò affiancato da un altro individuo pure in borghese dall’aria piuttosto severa.

    «Scommetto che cerca i carabinieri, vero commissario?».

    «Indovinato! In questi casi non mancano mai».

    «Sono arrivati dopo di noi e se ne sono già andati. Dicono che ormai questa è roba nostra… Comunque ci daranno una mano nelle indagini, ogni informazione utile, come al solito, lei lo sa».

    Il commissario fece un sorrisetto. Ah, carta bianca! Niente intromissioni. Finalmente a modo mio…, pensò. Poi guardò dritto in faccia l’austero personaggio che accompagnava l’agente. «È un po’ che non ci vediamo per certe cose», osservò. L’altro gli porse la mano e lui, dopo un attimo di esitazione, gliela strinse.

    «Questa volta dobbiamo collaborare per benino e bando ai litigi», propose il commissario.

    L’altro annuì e poi scandì: «Promesso!».

    «Riconosco di esser stato un po’ impertinente, ma le garantisco che non mi azzarderò mai più ad invadere il suo campo», concluse e intanto tirò fuori il taccuino dove aveva già scritto la data e dove si apprestava ad annotare l’ora del decesso.

    «Diciamo che in fondo qualche ragione ce l’aveva anche lei, commissario, e io ho il difetto di essere un po’ intollerante… Sa, è il brutto vizio dei patologi!».

    I due si voltarono verso il corpo semi accartocciato e riverso in una pozza di sangue.

    «Lei cosa ne dice, dottore?».

    Il medico legale scosse la testa. «Ben poco, prima dell’autopsia. Un bel volo dal quarto piano. Se non era già morto mi pare sufficiente. Però dobbiamo vedere cosa trova la scientifica». Così dicendo guardò verso l’uomo che lo accompagnava come per scaricargli la patata bollente.

    «Quando è successo?», chiese il commissario.

    «Sembra verso le 17», si affrettò a dire l’agente della scientifica.

    «Confermo. Già a prima vista l’ora del decesso è pressappoco quella…», aggiunse il medico legale.

    «Oggi è venerdì», borbottò a bassa voce il commissario mentre circolettava a doppia mandata il numero 17 appena trascritto sul foglio.

    «Ordini, commissario?», chiese l’agente.

    Il commissario strizzò gli occhi abbagliati dai flash. «Avanti così. Seguite la prassi. Ora vado su con Caputello a vedere l’altro… Ah, mi raccomando: nella relazione fatemi capire chiaramente come è caduto. Di piedi, di testa, a rotoloni… Insomma sapete bene cosa intendo… E prima di rimuovere il cadavere, comunque avvertitemi». Detto ciò, il commissario prese per un braccio il sovrintendente e si avviò verso l’edificio, ma qualcosa lo trattenne. Tornò sui suoi passi e si avvicinò al cadavere. Rimase a fissare la scena per qualche secondo, poi con tutta calma aprì il suo taccuino. Il sangue che inzuppava il camice bianco gli dava sensazioni di gelo e gli accapponava la pelle. Malgrado facesse quel mestiere da trent’anni ogni volta era un colpo allo stomaco. Si passò una mano sulle labbra quasi a bloccare un conato di vomito, ma finse di grattarsi i baffi, poi prese la stilografica e fissò in brevi appunti le sue considerazioni.

    «Caputello… Caputello!».

    Il sovrintendente che stava parlottando con quelli della scientifica non capì subito, poi si riscosse e si precipitò dal capo.

    «Sveglia, ragazzo! Fammi fare una serie di foto lì», disse e puntò bene il dito per non essere frainteso.

    «Agli ordini, commissario!», scattò l’altro e, passate le disposizioni a chi di dovere, seguì subito il suo capo che si allontanava.

    L’ingresso all’edifico non era molto distante, ma Caputello tendeva ad affrettare il passo. Era molto curioso e fremeva di sapere cosa avrebbero trovato nella stanza dell’ospedale.

    Il cellulare del commissario squillò.

    «Sì… Che c’è?», rispose senza fermarsi. «Le passo una telefonata», scandì una voce di donna.

    L’uomo si bloccò sui due piedi e la bocca gli si contorse in una smorfia. «Ah, questa poi… Va bene, va bene, dottore, non si preoccupi, me la vedo io…».

    «Novità dal medico legale?», chiese il sovrintendente.

    «No, dal vice-questore», rispose secco e ripartì sbuffando perché al terzo piano già gli prendeva un po’ di fiatone. Ma le arrabbiature gli facevano peggio delle scale.

    «C’era l’ascensore, commissario…», azzardò l’altro.

    «Lo sai che devo fare movimento. La cintola dei pantaloni comincia a stringere troppo».

    Al quarto piano una porta di vetro e alluminio dava accesso ad una lunga corsia che a quell’ora appariva deserta. Il corridoio era ben illuminato, ma suscitava oscure sensazioni, una specie di malinconia. Il commissario non vedeva l’ora di sbrigare quella faccenda e di andarsene. Rimanere troppo tempo in ambienti del genere lo faceva sentire depresso. E poi, ora che la falsa luce del crepuscolo si mescolava con quella artificiale delle lampade, provava un’inquietudine particolare.

    Li accolse un giovane inserviente che, con poche formali parole, si offrì di accompagnarli. I passi cadenzati dei tre rimbombavano in un cupo silenzio mentre si avviavano nel settore delle camere a pagamento.

    Capitolo 3

    Roma,

    domenica 13 maggio 1492, ore 18.00

    L’austero convoglio ostentava le insegne con le quattro aquile nere dalla testa serpentina. Incuteva timore e reverenza fra la gente. La folla faceva ampia ala mentre la carrozza, col suo seguito armato a cavallo si avvicinava alla Porta Flaminia. Era quello l’ingresso nord della città, un passaggio obbligato per qualunque visitatore proveniente da quella parte. Di presso si levava la chiesa di Santa Maria del Popolo posta sull’antico tracciato romano che risaliva all’epoca della costruzione del Mausoleo di Augusto.

    Padre Bartolomeo dal finestrino della carrozza osservava le vecchie massicce torri a base quadrata che fiancheggiavano la porta. Ogni volta ne rimaneva affascinato al solo pensiero che erano lì dal tempo di Onorio. Ma sapeva che un vero giro d’affari si era sviluppato più di recente, quasi due secoli addietro con Bonifacio VIII, appena bandito il primo ecclesiasticum iubilaeum. Dunque, un vero affarista quel papa che tanto sembrava amare i santi Pietro e Paolo. Intorno a tutte le Basiliche erano sorte locande, botteghe, scuderie, cambiavalute ed ogni sorta di commercio, non escluso quello dei corpi, femminili e maschili senza differenze. Del resto quello era l’anno santo, fatto per la remissione dei peccati…

    La carrozza non dovette aspettare code, esibire documenti, subire controlli o contrattare dazi. Era appena suonato mezzogiorno e ora, dopo tre ore di viaggio, l’unico pensiero di tutti e nove i viaggiatori era sostare e riposare. Poi c’era ancora da attraversare la città per giungere alla definitiva destinazione, lungo la via che da porta Flaminia conduceva al Campo Marzio. Questo nel pomeriggio.

    Il viaggio era stato lungo, ma non faticoso: quattro giorni ben diluiti nel percorso per non affaticare il bambino. Bel tempo, nessun intoppo. Quello poteva davvero sembrare un viaggio di piacere, un percorso istruttivo per il piccolo Raphael, il prodigio che a soli nove anni già salutava i luoghi che sarebbero stati il perno del suo luminoso futuro. Avevano raggiunto Gubbio, la seconda capitale del ducato di Urbino, giovedì nel tardo pomeriggio, dopo sole sei ore di corsa moderata. Il giorno seguente breve tappa a Perugia per il pranzo ed in prima serata già ingresso tranquillo in quel di Spoleto. Sabato notte, ospiti nel monastero di Santa Maria dell’Arco, avevano vissuto un’esperienza magica: nel cielo limpido e nero sfrecciavano stelle cadenti, quasi a significare un antico e augurale presagio.

    Le quattro guardie armate della milizia di Guidobaldo che facevano da scorta attesero il cenno del reverendo Padre Bartolomeo prima di lasciare la comitiva per le scuderie. Li attendeva una giornata di meritato svago, come una specie di licenza premio. Avrebbero sistemato le loro cose e poi in giro per la grande città. Lontano da Urbino, altri amici, altre sbronze, altre prostitute.

    «Siamo davvero arrivati, zio?», chiese il bambino osservando lo sfarzo del palazzo oltre il piazzale.

    Padre Bartolomeo annuì e scese di carrozza. Verso di lui venivano a passo svelto due prelati e un diacono. Mentre i due prelati accoglievano onorevolmente l’illustre collega, il diacono si rivolse al cocchiere e ai due domestici, marito e moglie, e li invitò a seguirlo.

    «Vi mostrerò i vostri alloggi», disse gentilmente e con la mano indicò la strada. «Uno stalliere si occuperà di carrozza e cavalli», concluse. I due coniugi, che avevano il compito di accudire al bambino, esitarono.

    «Penserò io a Raphael. Andate pure e riposatevi. Oggi è giorno di festa», confermò Padre Bartolomeo.

    «Siete attesi…», si limitò a dire il prelato più anziano e fece strada.

    Padre Bartolomeo prese per mano il piccolo Raphael e si incamminò. «Come vanno le cose?», chiese col tono di chi conosce già la risposta.

    «Ha passato una brutta nottata, ma oggi sta un po’ meglio. Tisana di spirea ulmaria e decotto di corteccia di salice gli hanno abbassato la febbre. Ma siamo nelle mani di Dio…», rispose il prelato più anziano e baciò il crocifisso d’argento che gli pendeva dal collo.

    Stava per suonare il vespro quando entrarono nel vestibolo di una grande camera al primo piano del palazzo.

    Li ricevette un religioso che indossava la porpora cardinalizia, di fronte al quale tutti quanti, compreso il piccolo Raphael, si piegarono in un reverente inchino.

    «Illustrissimo, sa perché siamo qui…», disse Padre Bartolomeo in attesa di essere guidato al capezzale. Intanto guardava stupìto quel cardinale di appena diciassette anni, già carico di soverchianti responsabilità.

    «Certamente, seguitemi», rispose il giovane e sorrise carezzando la testa del bambino.

    Il vecchio che li aspettava si era fatto sistemare a sedere sul letto, con la schiena appoggiata alla sponda fra morbidi e candidi cuscini. Malgrado ogni cura da parte delle sorelle infermiere si vedeva benissimo che quella posizione, apparentemente comoda, gli procurava un disagio che mascherava a stento. Il cardinale fece uscire le sorelle e restarono soli.

    Padre Bartolomeo, assieme al piccolo Raphael, si inginocchiò al lato destro del letto. «Sua Santità, siamo ai suoi piedi», disse accorato mentre baciava l’anello.

    «Reverendo Bartolomeo, Bartolomeo caro, mio fedele amico e compagno di fede, siedi sulla poltroncina rossa, qui vicino a me e ascolta… Oh… Tieni sulle ginocchia il piccolo guaritore di Dio… Che io lo veda bene davanti a me», disse sforzandosi di controllare il gorgoglio del suo respiro.

    «Sai, piccolo? Quello è il tuo nome», aggiunse cercando di raggiungere con la mano un braccio del bambino, ma non ne ebbe la forza. «Il tuo nome, Raphael, significa guaritore di Dio».

    Il piccolo guardò lo zio con occhi smarriti.

    «Oh, stai tranquillo! Non sei qui per guarirmi. Lo devono credere gli altri, ma noi no. È il nostro segreto». Riuscì a stento a finire la frase prima di essere colto da un attacco di tosse convulsa. Il cardinale gli deterse la bocca con un fazzoletto bianco imbevuto di acqua fresca.

    «So che presto me ne andrò, forse fra un mese o due al massimo. So che sarà di mercoledì… Dunque devo affidarti un compito, un compito importante, molto importante», continuò dopo essersi ripreso. Fece un cenno al cardinale Iohannes, il quale prontamente andò a prendere lo scrigno posato sul tavolo vicino al finestrone.

    «Oggi è domenica… Oggi è il 13 maggio… Ricordatelo. Un giorno saprai cosa significa. E ora ascolta bene. In questo scrigno c’è una cosa per te e una per lo zio Bartolomeo».

    A quelle parole Iohannes aprì lo scrigno con la chiave d’oro che portava al collo assieme al crocifisso.

    «Vedi quel volume? È molto antico. Bartolomeo, tu ne avrai cura. Custodiscilo ben nascosto. Sai a chi dovrai consegnarlo, fra ventun’anni esatti, accompagnato da Iohannes… Sarà di venerdì», disse tendendo il capo fino all’esaurimento del respiro e poi si rilassò fra i cuscini di piume.

    «Santità, sarò vecchio, forse non sarò più vivo».

    «Sarai vivo… Lo sarai, perché è scritto!», replicò in un rantolo.

    «E tu, Raphael, custodisci gelosamente quell’ampollina. Giorno verrà che il suo liquido ti servirà per una grande opera. Ti spiego cosa dovrai fare tra diciotto anni esatti», così dicendo gettò uno sguardo d’intesa a Iohannes. Il cardinale toccò un braccio a Padre Bartolomeo e gli fece cenno di seguirlo. Il sacerdote fece scendere dalle ginocchia il nipotino e obbedì.

    «Devo restare solo con lui… Solo lui deve sapere», spiegò e con una mano scossa dal tremito si pulì alla meglio le labbra con un fazzoletto leggero dalla bianca trina.

    Quando i due furono usciti ed ebbero chiuso la porta alle spalle, il Sommo Pontefice fece avvicinare a sé il bambino.

    «Vieni qua, piccolo mio, porgi l’orecchio», disse in un bisbiglio.

    Il piccolo Raphael obbedì e conobbe il grande segreto.

    Capitolo 4

    Firenze,

    venerdì 13 maggio 2011, ore 18.00

    Sistemò alla meglio la moto fra due auto messe un po’ sbilenche nel parcheggio sovraffollato di Piazzale Donatello. Stava dentro le strisce a pelo a pelo, dunque niente multa, ma forse qualche accidente dei due automobilisti. Esitò e la fissò per un attimo, nera, scricchiolante e ancora rovente per quella galoppata fuori programma. Spostarla? No. Fece spallucce e appese il casco al gancio di sicurezza. Che si arrangino, così imparano a parcheggiare come si deve!, pensò.

    Suonavano le sei del pomeriggio nell’aria agitata dal traffico dell’ora di punta. L’ora giusta per girare con la sua Virago 250, piccola ma snella, pratica, elegante e soprattutto maneggevole. Non ci aveva messo molto a scendere dal paese. La villa di famiglia era un po’ più giù del centro, dove iniziavano gli spazi aperti verso la via provinciale. Da lassù si poteva ammirare il panorama di Firenze.

    Lungo il serpente d’asfalto della tortuosa strada collinare non c’erano problemi, ma il tappo spuntava fatale all’incrocio di via dei Mille. Per fortuna non doveva attraversare la città perché il suo viaggio finiva non lontano da quel parcheggio. Era il suo tragitto di sempre, ma quel giorno la chiamata era giunta inattesa. Aveva tutt’altre prospettive per quella serata e poi il venerdì era il suo giorno libero. Ma quando c’è di mezzo la carriera bisogna ingoiare questo e altro. Il suo cellulare aveva suonato a tutta birra la sesta di Beethoven. Quello strazio era giunto come un fulmine a ciel sereno, proprio nel mezzo di un duro allenamento. Sapeva bene quale numero corrispondeva a quella suoneria e non poteva negarsi. Era necessario sospendere tutto e correre subito nello spogliatoio. Da tempo nonno Albert aveva fatto costruire una piccola palestra in legno, stile giapponese, proprio dove finiva il prato di casa e iniziava il boschetto di proprietà. Asciugamano al collo, giacca a vento, un paio di energiche pedalate sulla mountain bike lungo il sentiero del prato, il tempo di salire grondante di sudore in camera sua al secondo piano, una doccia veloce e via.

    Ora camminava sul largo marciapiede con passi decisi e cadenzati e teneva le labbra serrate. Avvertiva un leggero tremito alle gambe per la corsa in moto.

    Passando fra la gente si dava un contegno, ma restava preda di un nervosismo che stentava a controllare.

    Si provò a respirare profondamente ed in modo cadenzato. Faceva partire tutto da sotto l’ombelico. Raramente si lasciava prendere dall’agitazione, ma adesso stentava a liberarsene. Costeggiato il palazzo della Gherardesca, Helena giunse serena davanti all’ingresso dell’Istituto Universitario, suonò il campanello del portone antico… Lei non vi badò, ma una berlina nera, una Mercedes dai vetri affumicati, ferma di

    fronte in divieto di sosta, partì di scatto al suo arrivo.

    Lo studio del professore si trovava al secondo piano del palazzo. Due rampe di scale dalle pedate consunte, ma con ringhiere nuove e pulite con cura, conducevano ad un pianerottolo poco illuminato. Una targa in ottone lucido, malgrado la penombra, spiccava bene sul legno scuro e screpolato della porta e indicava a chiare lettere chi stava dall’altra parte. L’illustre cattedratico Werner Valerio Venante era una personalità di risonanza internazionale in fatto di storia dell’arte rinascimentale ed Helena, la sua prima assistente, ne era parecchio orgogliosa. Occupare quel posto appena trentaduenne non era da tutti. Le malelingue insinuavano che il vecchio tirasse a sedurla, lei così giovane e carina, frizzante e assetata di successo. Non pensavano certo che era lì perché intelligente, capace, competente, entusiasta della sua carriera e soprattutto assetata di conoscenze.

    La porta era accostata, ma Helena afferrò ugualmente il batacchio antico di ferro battuto e, come al solito, picchiò tre colpi dal ritmo speciale: due piccole battute rapide, breve pausa e poi un’ultima battuta sorda e decisa. Quello era il segnale convenzionale di Helena. Le solite manie dei cervelloni, pensò lei, mentre sorrideva per il buffo accostamento fra codici segreti e vecchie porte di legno. Era la prima volta che le veniva in mente di criticare una scelta del professore, l’uomo che lei stimava sopra ogni altro, a parte nonno Albert che le aveva insegnato praticamente tutto. Era quella la sorte di chi ha genitori di Paesi diversi e quindi troppo spesso in giro per il mondo. Adesso erano negli Stati Uniti, a Richmond in Virginia, Paese natale di mamma. Papà, italiano, uomo d’affari, aveva eletto la moglie a segretaria e se la portava dietro dappertutto. Lei, figlia unica, a casa col nonno paterno, se l’era sempre sbrigata bene da sola. S’era fatta le ossa e viveva da vera indipendente. E poi lo stipendio da ricercatrice universitaria per lei non era male.

    A quell’ora nessuno saliva o scendeva più da quelle scale. Venante era l’unico ad intrattenersi in istituto oltre gli orari. A volte ci passava anche la notte a sbirciare fra le sue scartoffie. Niente computer, niente tecnologia moderna: per lui erano tutte cose da fantascienza che rifiutava e che secondo lui rovinavano il cervello. Però esigeva che i suoi collaboratori, Helena per prima, ne facessero uso perfetto.

    Una bella porta elettrica scorrevole acciaio e vetro antiproiettile, un pass magnetico, oppure ottico per riconoscere le impronte digitali oppure l’iride… Una mini videocamera come spioncino, un campanello elettronico a modulazione di suono… Un bello scherzo da fare al Venante! Domattina arriva e si trova davanti una specie di astronave!

    Mentre certi pensieri le frullavano in testa le venne da ridere, ma si trattenne e si ricompose per presentarsi degnamente al suo capo. Ogni ansietà era svanita e si preparò a sentire, con la solita calma, cosa aveva da dirle l’illustre personaggio proprio quel giorno e a quell’ora, quando lei sarebbe dovuta essere a prepararsi per una pizza con gli amici.

    Venante l’aspettava lì. La grandezza della fama non concordava affatto con l’aspetto fisico. Di corporatura esile e vestito di grigio sembrava sparire mimetizzato sullo sfondo ombroso del suo studio. Le persiane erano già serrate e l’unica luce proveniva da una lampada stile anni Venti poggiata alla sua destra, fra le scartoffie, sull’unico spazio libero del ripiano. Di lato due vecchie sedie imbottite e rivestite di damascato stavano in piedi per miracolo. Davanti, invece, due robuste poltroncine moderne girevoli di similpelle nera erano destinate ad ospitare i visitatori. Sul pavimento dominava un grande tappeto persiano autentico, la disgrazia quotidiana delle donne di pulizia, ossessionate dall’idea di sciuparlo e frastornate dalle continue raccomandazioni del professore.

    «Buona sera professore…», salutò lei.

    «Ciao, dottoressa!», l’apostrofò lui come al solito. Poi si ammutolì, sfilò gli occhiali e aguzzò lo sguardo per osservarla meglio. Anche in quella luce modesta poté ammirare Helena in una versione cui non era affatto abituato. Una ragazza sempre castigata nel vestire, molto professionale, che tutto fa per non farsi notare, ora era lì davanti a lui in jeans che esaltavano forme da capogiro, con una maglietta attillata che faceva apparire due seni piccoli ma turgidi e dritti sotto un giubbotto di pelle sgualcito. Sebbene calzasse scarpe da jogging, sembrava più alta e slanciata del solito.

    Venante provò una strana sensazione, come se si trovasse di fronte un’altra persona. Eppure quella era proprio Helena, la sua prima assistente, la studentessa promettente che aveva tirato su come una figlia fino al dottorato di ricerca. E si accorse che stavano riemergendo vecchi desideri inconfessabili e costantemente repressi. Malgrado il pallore cronico della sua pelle, arrossì e tutta la sua sicurezza di cattedratico andò a farsi benedire assieme al suo perenne atteggiamento studiatamente austero.

    Helena percepì la stranezza della situazione, ma non poteva pensare che fosse solo una questione di abbigliamento insolito. Così non batté ciglio e attese.

    Venante tossì per schiarirsi la voce, si tirò su con la schiena, si fregò le mani, volse un paio di volte la testa a destra e a sinistra, poi riuscì a fissare lo sguardo sul volto della ragazza.

    «Bene, carissima! Domani fai le valigie…».

    A quelle parole Helena sbiancò e fu colpita da un morso allo stomaco. Ma che succede, ora mi cacciano dall’Istituto, pensò. Cosa diavolo ho combinato… Cos’hanno in testa? Prima che quell’attimo di smarrimento si trasformasse in vera e propria angoscia, Helena reagì. Che un superraccomandato l’avesse scalzata di lì? Non volle pensarci e si controllò, come in procinto di un combattimento all’ultimo sangue.

    «Le valigie, professore? Non capisco…», chiese, senza tradirsi con l’espressione del volto e dominando il tono della voce.

    «So che per te sarà dura, cara mia, ma non puoi rifiutare. Ho un progetto. Un progetto importante», aggiunse prima che lei potesse controbattere.

    Venante si guardò intorno come se ci fossero spie dappertutto, piazzate dietro le scartoffie e poi si decise a parlare: «È un segreto, un segreto fra noi due, adesso. Nessun altro deve sapere. Di te mi fido. Sei l’unica persona di cui mi fido. Conosco le tue capacità. Ecco perché ti ho chiamata d’urgenza. Dopo quello che ho saputo… Quello che ho scoperto… C’è una cosa importante da fare. Non sai quanto importante… Per me, per te, per l’istituto, per questa città, per l’Italia stessa!».

    Venante ebbe un attimo di esitazione. Sapeva cosa stava per dire e che reazione avrebbero potuto suscitare le sue parole. Poi fece un lungo sospiro e si decise.

    «L’Indice di Raffaello…», sussurrò lui, assai impacciato.

    «Intende dire la leggenda del dipinto scomparso… Il particolare della Scuola di Atene?».

    «Non è una leggenda…», la interruppe lui con veemenza, ma poi si ricompose.

    «Come l’ha scoperto?», chiese lei per dargli corda. Ma continuava a pensare che l’uomo stesse vaneggiando.

    «Non posso parlare!», esclamò. «Voglio dire che non intendo ancora sbilanciarmi», si corresse controllando meglio il tono della voce.

    «Ah…», si limitò a dire Helena. Ripensò a quella storia del quadro perduto di Raffaello, un particolare del grande affresco della Stanza della Segnatura, nei Palazzi Vaticani, che ritraeva Platone e Aristotele nell’atto di discutere sull’origine e il significato del mondo. Il fatto curioso era che, nell’affresco, Platone assomigliava vagamente a Leonardo da Vinci e si pensava che Raffaello lo avesse fatto apposta per un omaggio al maestro. Ma ciò che maggiormente incuriosiva i ricercatori era il dito indice di Platone rivolto verso l’alto, un gesto che compare in quasi tutti i dipinti di Leonardo.

    Da secoli correvano voci che Raffaello, prima di dedicarsi anima e corpo all’affresco, avesse dipinto un olio su tela o su legno raffigurante il particolare di Platone che col dito indicava il cielo. Si diceva che il volto di Platone in quel primo lavoro fosse davvero identico a quello di Leonardo. Tutta la faccenda, che però non aveva mai trovato risposte certe, aveva preso il nome di Indice di Raffaello. Helena era specializzata nel recupero, nel riconoscimento e nel restauro delle opere d’arte rinascimentali e soleva lavorare seriamente. Era sempre stata scettica su quell’argomento, dal quale aveva preso le debite distanze. Le sembrava una sorta di ricerca dell’arca perduta... Tutte storie che lei riteneva fantasiose, prive di vero fondamento scientifico e si meravigliava che ora l’illustre cattedratico le parlasse in quel modo. Ma poi in realtà cosa voleva da lei?

    «Ci occorrono le prove. Se saremo i primi ad averle, pensa che successo!». Venante parlava con inconsueto fervore.

    «Questo è un compito per te Helena».

    La ragazza scosse la testa per raccogliere meglio le idee che le guizzavano inafferrabili nella mente come cicale impazzite.

    «Secondo me, sei l’unica in grado di farlo».

    «Professore, ma che sta dicendo?».

    Lui noncurante proseguì per la sua strada.

    «Dunque, oggi ne abbiamo tredici. Venerdì tredici… Porta bene! Partirai domattina. Il volo Roma-Vienna è già prenotato e anche l’albergo in Austria. Ecco qua biglietti, documenti e tutto il contante che ti potrà servire. Niente carte di credito… All’aeroporto d’arrivo riceverai istruzioni… Direttamente da me. Non parlare con nessuno. Se mai spacciati per turista. Ti dirò dove dovrai andare e cosa dovrai fare».

    Helena prese in mano il malloppo meccanicamente, col pensiero altrove.

    «Austria? E che ci vado a fare in Austria?».

    «A recuperare l’Indice di Raffaello… Sveglia, dottoressa!».

    Capitolo 5

    Roma,

    venerdì 13 maggio 2011, ore 18.30

    Un uomo, alto e tarchiato, dal collo taurino e dal camice bianco sbottonato davanti, fu il primo a voltarsi verso i due che stavano entrando. Il suo portamento era quello di chi è avvezzo ad un reverente rispetto e soprattutto di chi è abituato a pretenderlo. Sotto il camice spiccava un elegante completo fumo di Londra gessato, con panciotto e orologio da tasca agganciato a catenella stile primo Novecento.

    «Il dottor Sartelli?», azzardò il commissario come per chiedere permesso. Esitò un attimo sul ciglio della porta, poi si decise ad entrare seguito a ruota da Caputello.

    Il primario, senza scomporsi, si avvicinò con un passo deciso; così impettito, imponente e austero, coi folti capelli corti e a spazzola, aveva più l’aria d’un colonnello tedesco che di un cardiologo.

    «È lei il commissario Vàrcaro?», chiese allacciandosi le mani dietro la schiena.

    «Varcàro, dottore… Varcàro! Con l’accento sulla seconda a…».

    Il dottor Sartelli guardò fisso l’interlocutore con tutta la freddezza che i suoi occhi d’un grigio metallico sapevano esprimere.

    Varcàro si guardò intorno, con Caputello appiccicato alle costole. Il sovrintendente era impacciato e stentava persino a respirare, finché non si rilassò notando l’infermiera. La donna si era avvicinata per presentarsi: «Sono Virginia Camonti, infermiera di questo reparto». Camminava col passo da topmodel e non poteva avere più di trent’anni, a parte il trucco pesante che la ringiovaniva o l’invecchiava, a seconda dei punti di vista. Porse la mano prima al commissario, poi a Caputello.

    «E lui?», chiese Varcàro alludendo ad un tizio, pure in camice bianco, che se ne stava impalato nell’angolo e non apriva bocca.

    «È il medico di turno», disse seccamente il primario. Era comprensibile che il suo umore non fosse al meglio. Quando succedono certe cose nel proprio reparto si ha un diavolo per capello.

    Un’altra pausa, buia e pesante.

    «Di turno da quando?», chiese poi gentilmente Varcàro.

    «Dalle diciotto».

    «Allora lui non c’entra con la faccenda…».

    «Direi proprio di no».

    «Bene, lo lasci andare al suo lavoro. Qui è di troppo».

    Sartelli fece un cenno al medico di turno come si può fare ad un cane ben addestrato e lui se la filò in silenzio.

    «Sì, meglio parlare un po’ tra noi», confermò Varcàro mentre continuava a guardarsi intorno. A volte gli era capitato che un particolare sfuggito a tutti fosse poi diventato la chiave di soluzione del problema.

    Se non le spiace, vorrei chiamare qui il medico legale. Nulla in contrario, vero?».

    Il primario sembrò preso in contropiede, ma la cosa era perfettamente normale.

    «Virginia, per favore, vada lei a prendere la cartella clinica nel mio studio…».

    Il commissario lo bloccò. «Mi perdoni, ma mi servirebbe anche la cartella personale del dottor… dottor… giù nel cortile…». Varcàro assunse un’espressione contrita. Quasi si vergognava di non sapere neppure chi fosse il povero precipitato, ma con tutta quella fretta, quel trambusto, non aveva pensato ad informarsi subito sui particolari. Che si trattava di un medico era evidente. Ma poi quando uno è morto può chiamarsi come gli pare, per le indagini resta sempre e solo un caso.

    «Era un medico di questo reparto, vero?», tirò a indovinare il commissario. Ma se era caduto da quella finestra la cosa pareva ovvia.

    «Un giovane tirocinante, assegnato qui da poco tempo. Ottimi voti, un soggetto in gamba, con carriera sicura».

    Varcàro credette di intuire il perché di tutte quelle precisazioni.

    «Si occupava lui del paziente deceduto?».

    «Qui sono io il responsabile, commissario. Io mi occupo dei miei malati», esclamò sottolineando ben bene quell’io.

    «Certo, ho degli assistenti ai quali affido dei compiti speciali con una certa autonomia, se vedo che sono capaci. In certi casi lo faccio, quando non prevedo complicazioni», concluse poi con voce più tranquilla.

    «E questo era uno di quei casi?».

    Sartelli, primario, specialista in medicina interna e cardiologia, cinquantacinquenne con più di trent’anni di affermata carriera sulle spalle poteva permettersi questo e altro nel suo reparto e poteva farlo in modo più che legittimo. Tuttavia tradì un attimo di tensione e strinse le mascelle. In quel modo il suo viso già massiccio sembrava ancora più squadrato.

    «Sì, certo, uno di quei casi… Semplici accertamenti di routine per una sincope».

    «Il dottor… Il dottor…», balbettò Varcàro fingendo di non ricordare un nome che non aveva mai sentito.

    «Franco Saleri… Dottor Franco Saleri, specializzando in medicina interna», lo rimbeccò l’altro.

    «Il dottor… Il defunto dottor Franco Saleri avrà pure avuto uno stato di servizio, immagino…».

    «Si trova negli uffici del personale, in un settore un po’ distante da qui. Non basta mandare un’inserviente o l’infermiera, ci vuole un’autorizzazione…».

    «Autorizzazione, mi ha detto? Lei è un’autorità, qui. Vada lei di persona, non c’è fretta… Ecco qua, la faccio accompagnare da un agente. Se poi le fanno storie mi chiami al cellulare». Così dicendo il commissario stava per estrarre dal taschino il suo biglietto da visita, ma il medico accennò di no con la mano e a passo militaresco si avviò fuori della stanza quasi noncurante del suo accompagnatore.

    Liquidato il primario col trucco dell’autorità, ora toccava all’infermiera.

    «Caputello, sii gentile, accompagna la signorina nello studio del primario per quella cartella clinica…», il che voleva dire: Portala via, confondila, intrattienila il più possibile, che io ho da lavorare qui da solo e in fretta prima che arrivino altri guastafeste….

    Il sovrintendente non si fece pregare. A parte il gusto dell’azione fuori manuale, non gli pareva vero di scortare, fosse anche all’inferno, quel gran pezzo di figliola che gli stava davanti.

    Appena Varcàro fu solo accostò la porta della stanza e passò all’azione. Con il classico fazzoletto in mano cominciò a frugare dappertutto da far invidia a un borseggiatore. Ciò che più lo interessava erano gli effetti personali della vittima. Dai documenti, scorsi a incredibile velocità, seppe che si trattava di un americano, certo James Harper, ingegnere elettronico di Los Angeles, quarantun’anni, celibe. Basta guardarlo, ci avrei giurato, pensò, lanciando un’ultima occhiata al cadavere. A parte il pallore della morte, il suo aspetto fisico era quello del tipico nordico dalla pelle chiara, alto, biondo, occhi… chiusi, ma certamente azzurri. Tutto ciò spiegava anche la telefonata del vice-questore… Ma non erano quelle anagrafiche le informazioni che lui andava cercando. Quando si fruga fra gli effetti personali, si cerca qualcosa che il proprietario porta con sé, ma vuole nascondere… Oppure il segno di un’abitudine tradita o quello che dovrebbe esserci e non c’è.

    Ispezionò tutto meticolosamente, vestiti, effetti personali, senza che emergesse nulla di particolare. Notò però che il malcapitato non aveva con sé un bagaglio: né una borsa, una valigetta, nulla. Si rassegnò. Per saperne di più bisognava avviare le indagini d’ufficio, fare i dovuti accertamenti, iniziare ufficialmente gli interrogatori delle persone coinvolte. Ma lui voleva trovare qualcosa a caldo, qualcosa di speciale, ciò che distingue le situazioni anomale da quelle normali, quelle che accompagnano delitti e intrighi. Quelle cose o si acciuffano all’istante o si perdono per sempre.

    Scoprì il morto ed osservò il corpo da cima a fondo. Il tempo scorreva e cominciava a stringere. Entro pochi minuti sarebbero stati tutti di nuovo lì. Il primario, l’infermiera, il medico legale e poi… il guastafeste! La telefonata del vicequestore così secca, improvvisa e nebulosa gli era piombata addosso come un colpo allo stomaco, ma come poteva controbattere le disposizioni di un vice-questore, ordini che venivano di certo da più in alto. Una cosa era chiara: non era la prima volta che doveva lavorare con una spina alle costole e bisognava sopportare. Quando ci sono di mezzo gli Americani le cose si complicano. Quelli là non li ferma nessuno, pensò mentre piegava la testa come un cavallo che infine accetta le briglie.

    L’attenzione si fissò sul piede destro: un piccolo ematoma alla caviglia, un gonfiore appena visibile. Poteva essere qualcosa di insignificante, poteva… La sua logica restringeva il campo: piedi, calzini, scarpe. Via i calzini, restano le scarpe che sono spesso uno scrigno pieno di sorprese. Le scarpe erano lì sotto ben disposte, tacchi in vista. Piede destro, scarpa destra. Varcàro la prese in mano per osservarla con attenzione, mentre sentiva ormai vicino nel grande e vuoto corridoio il calpestio di gente in arrivo. Ecco l’arcano!, pensò, poi fece finta di nulla e con una mano afferrò il cellulare, mentre con l’altra riapriva la porta della stanza. Chiamò in fretta il patologo.

    Si rilassò mostrando noncuranza mentre il primario entrava nella stanza con la cartella personale del morto numero uno… o numero due. Bisognava accertarlo. Pochi passi indietro giungeva anche l’infermiera scortata dal sovrintendente.

    Un vocìo sommesso, ma sempre più chiaro, annunciava l’arrivo di qualcun altro. Il medico legale si presentò accompagnato da un paio di agenti della scientifica e da altri due giovani poliziotti venuti a dare il cambio a quelli che già stavano di piantone fuori della porta. Ora dovevano fare la guardia al cadavere fino al momento della rimozione. I due medici si salutarono formalmente, poi il patologo si avvicinò al cadavere e cominciò il suo lavoro.

    «Pare arresto cardiaco», sentenziò il medico legale.

    «Appunto», confermò il primario a testa alta. «La cartella clinica è lì sopra».

    Nel frattempo i due della scientifica rovistavano, spennellavano, raccoglievano. Varcàro li teneva d’occhio augurandosi che non si accorgessero subito delle scarpe. Voleva esser lui a metterci le mani per primo.

    «Grazie, la cartella clinica la esaminerò poi con calma», disse il patologo guardando il primario con un sorriso. «Ma mi dica, dal momento che l’aveva in cura, secondo lei quali potrebbero essere le cause dell’arresto cardiaco?».

    «Ignote. Mi è arrivato ieri dal pronto soccorso dove era stato portato d’urgenza per una sincope. Una volta arrivato qui, s’era già ripreso. Succede spesso. Tuttavia l’abbiamo tenuto in osservazione, abbiamo fatto i vari accertamenti… Tutti quelli che lei ben conosce. Nessun problema cardiovascolare e neurologico. Nessuna malattia infettiva o altro di evidente. L’avrei dimesso domani mattina».

    «La signorina potrebbe darmi una mano? Vorrei un prelievo di sangue…», chiese il patologo.

    «Al defunto?», chiese Sartelli.

    «Sì, è urgente. Vorrei farlo prima della rimozione della salma. Se aspettiamo che finisca il traffico della scientifica, che sia portato in sala di autopsia e tutto il resto, perdiamo il treno».

    Il volto del primario era cupo e l’espressione incredula, come se non si fidasse del suo collega.

    «Abbiamo tutti i permessi del magistrato», aggiunse per tranquillizzarlo. Gli mostrò il documento firmato di fresco. Poi guardò il commissario che a sua volta annuì.

    «Signorina Camonti, provveda al prelievo», disse seccamente Sartelli. La ragazza sembrava scossa nel dover procedere ad una operazione del genere. Non le era mai capitato di cavar sangue direttamente dal cuore di un morto. Alla fine, visto che l’ordine del primario era preciso e categorico, si mosse e corse a procurarsi l’occorrente.

    «Dove gli è presa la sincope?», chiese il commissario.

    Il primario scosse la testa prima di rispondere. «Non so di preciso, ma credo nell’albergo dove alloggiava non lontano da qui».

    Varcàro ebbe un’illuminazione. Ecco perché non ha bagagli qui. Sono in albergo…, pensò.

    «Cosa succede quando viene una sincope?», chiese ancora il commissario mentre osservava le mani dell’infermiera che tremavano nel cercare il punto giusto dove ficcare l’ago.

    «Il classico svenimento… Spesso è preceduto dai sintomi prodromici, ovvero sudorazione, nausea… Poi improvvisa perdita della coscienza…», rispose il primario, quasi seccato di dover parlare di certe cose con un incompetente. Era faticoso trovar parole semplici per essere chiari.

    «E perché succede?», insistette il commissario.

    Sartelli strinse i denti e gli pulsarono le gote, ma non diede a vedere quant’era veramente seccato.

    «Le cause possono essere svariate… Lo stato di bradicardia, di ipotensione, l’inibizione dei recettori sensoriali a loro volta provocati da patologie cardiache, vascolari o neurologiche o di altra natura. A quanto il paziente ci ha detto, girava il mondo per lavoro, dunque abbiamo ipotizzato anche possibili malattie infettive: tutto negativo. Ma come faccio a dirle in quattro parole ciò ch’è scritto in centinaia di trattati? Abbiamo a che fare con un’alterazione transitoria del sistema nervoso vegetativo che può anche essere neuromediata…». Sartelli notò l’espressione del commissario che strizzava gli occhi di fronte al parolone. «Ossia provocata da forti emozioni», proseguì. «Oppure causata da ingestione di farmaci... C’è chi si riprende in pochi minuti e chi ci lascia la pelle. Il campo è vasto», concluse e l’aria era quella di chi non ha altro da dire.

    Il patologo, che intanto aveva finito d’istruire Virginia Camonti sul da farsi per il prelievo, si voltò verso il commissario. Il suo sguardo lasciava trasparire una sorta di approvazione per il collega. Varcàro capì, fu meno insistente e venne al dunque.

    «Perdoni un’ultima domanda, dottore. Se il paziente sviene, cade a terra di botto?».

    Sartelli parve disgustato da quella espressione grezza, ma proseguì in tono asettico: «Il soggetto stenta a mantenere il tono posturale, cerca di afferrarsi a qualcosa, ma il più delle volte… Sì, cade pesantemente a terra». Sottolineò con gusto il termine pesantemente.

    «E quando ciò succede, il corpo ruota? E cadendo, il soggetto può farsi del male?».

    «Certamente. Non ha il controllo, quindi cadendo può ferirsi… Dipende anche dalla pericolosità del luogo in cui si trova, ovviamente! Ma non capisco il corpo che ruota…».

    Il commissario si passò una mano sui baffi per cercare le parole giuste in una sorta di concentrazione.

    «Se il soggetto si afferra da qualche parte con una mano, ma poi non ce la fa a reggersi… Allora, il corpo può ruotare, può fare perno su un piede, ruotare su un tacco e poi cadere… Lei cosa ne dice, dottore?».

    «Immagino di sì, per una legge fisica, ma sinceramente non saprei, non è il mio campo…».

    La frase del primario fu interrotta dall’arrivo di due individui. L’ambiente cominciava a essere sovraffollato, anche se i due giovani agenti di guardia stavano fuori della porta.

    Uno dei due si qualificò come funzionario dell’ambasciata americana e presentò l’uomo che lo affiancava: «Il capitano John Daniel Norton dell’F.B.I. di New York».

    Varcàro trasalì. Capitano?, pensò. Non esistono capitani nell’F.B.I., perdio!.

    Tuttavia costui sembrava davvero un militare, che per imponenza e alterigia non sfigurava per niente a fianco del dottor Domenico Sartelli.

    Chiunque sia, ecco il guastafeste, sospirò tra sé il commissario.

    Capitolo 6

    Roma,

    venerdì 13 maggio 2011, ore 19.00

    Fredrik Hildenberg guardava l’orologio abbandonato sul comodino e non riusciva a sincronizzarlo col suo stomaco. A parte il classico stress dei fusi orari, adesso doveva vedersela con la realtà di un Paese straniero, pittoresco quanto vuoi, ma fuori dei suoi schemi abitudinari. Ciondolava per far passare il tempo, in attesa che in albergo servissero la cena. Malgrado le ripetute promesse, Peter non gli aveva ancora telefonato, ma era un tipo fatto così, tutto preso dai suoi impegni ovunque si trovasse. Il programma era di cenare insieme, una chiacchierata fra amici, un saluto e poi subito a letto, perché l’indomani mattina doveva partire di nuovo: un altro volo, ma questa volta assai più breve. Lo scalo a Roma non aveva accorciato di molto il tragitto previsto da Melbourne, ma gli aveva permesso di rilassarsi e d’impiegare in modo più vario il tempo a disposizione. Un paio di giorni da turista non guastavano e poi gli restavano tre settimane: il suo programma era chiaro e preciso, senza corse o intoppi di sorta. Poteva continuare a farla da turista. Nella sua posizione poteva conciliare benissimo un viaggio di studio-lavoro con una piacevole vacanza all’estero.

    Intanto aveva già sistemato i suoi pochi bagagli e faceva mentalmente l’inventario. Aveva con sé l’essenziale per attraversare il mondo. Tante ore di aereo potevano diventare insopportabili, ma in Europa ci veniva sempre volentieri, là, proprio nel centro del continente antico, dove affondavano le sue prime e più vere radici. Radici di una bella insalata mista: padre austriaco, madre polacca… Si erano trasferiti in Australia quando lui aveva appena nove anni. Un trauma bello e buono: lingua per lui incomprensibile, tutte stelle diverse in cielo, un Babbo Natale che sudava dal caldo e un ferragosto frescolino da cappotto, onde oceaniche alte sei metri e squali di grandezza inaudita. In compenso parlava correttamente inglese, tedesco e polacco.

    A Richmond, quella frazione periferica di Melbourne che ormai era casa sua da trent’anni, cenavano alla moda inglese, per dire tardi, alle sette meno un quarto. In Italia bisognava aspettare le otto. Un quattro stelle poteva garantire altri orari per i turisti più esigenti, ma lui non voleva fare il seccatore. Poi sapeva adattarsi. Non era la prima volta che girava il mondo per lavoro e in fondo i cambiamenti erano sempre eccitanti, divertenti. Quando poi c’era da sgobbare sul campo, allora capitava anche di vivere in tenda… Non succedeva spesso perché la maggior parte del suo impegno era in facoltà. La sua università collaborava col rinomato Centre for Advanced Computer Technology e quello era diventato la sua seconda casa. Bisognava essere dei veri cervelli per lavorare lì, in quella vasta organizzazione multidisciplinare, ma lui non si dava delle arie.

    Da molto tempo aveva appeso ad una parete del suo studio l’affermazione del fisico Edward Lorenz secondo cui i fenomeni modesti che si generano su piccola scala, come il battito d’ali di una farfalla, possono indurre trasformazioni di immensa portata e notevole intensità su larga scala, come lo sviluppo di un tornado.

    Questa teoria del cosiddetto effetto farfalla, mostrando gli eventi della storia sotto una luce diversa, veniva proposta come novità sconvolgente. Ma lui ricordava benissimo anche la frase di Pascal sul naso di Cleopatra, che se fosse stato più corto avrebbe cambiato la storia del mondo. Ray Ventura l’aveva messa persino in musica, però, secondo gli storici classici, le cose stavano ben diversamente: Giulio Cesare, più che ammirare il naso di Cleopatra, aveva precise mire economiche, visto che a quel tempo l’Egitto era il granaio di Roma.

    Fredrik sentiva di doversi applicare con passione sempre maggiore alle sue ricerche. Mettere a disposizione degli archeologi le tecnologie sofisticate di cui era massimo esperto, serviva a fargli verificare dal vivo se le sue convinzioni avevano un fondamento nella realtà.

    «Un messaggio telefonico per lei, professor Hildenberg», annunciò il fattorino. Reggeva un vassoio d’argento con sopra un foglietto ripiegato in due. Il suo inglese era scolastico, ma impeccabile.

    «Chi lo manda?», chiese. Tanta ricchezza per un pezzo di carta, pensò.

    Il fattorino, con i suoi modi garbati da robot, avutane licenza, dispiegò il foglietto.

    «Peter Morris…», rispose il ragazzo. «Ingegner Peter Morris», si corresse in fretta.

    «Già che c’è, per favore, me lo legga». Non capiva perché un messaggio del genere. Si frugò in tasca, tirò fuori il cellulare e si accorse che era spento. Accidenti!, pensò. Ecco perché non mi ha chiamato direttamente. Poi guardò il telefono fisso sul comodino. E quello? Spento il cellulare, pensava che stessi riposando e non voleva disturbarmi.

    «Certo signore. Dice: Ho un problema. Sarò in ritardo a cena. Tu comincia pure».

    Alle otto in punto Hildenberg scese le scale per raggiungere la sala da pranzo. All’ingresso un cameriere lo accompagnò al suo tavolo. Molta gente stava già seduta per la cena e nell’aria si diffondeva un leggero, ma costante cicaleccio, appena percettibile, cadenzato dal rumore di stoviglie.

    A dispetto dello stomaco in rivolta per la prolungata attesa, cercò ancora di ingannare il tempo e traccheggiò col cameriere per tirarla in lungo. Si augurava che da un momento all’altro Peter spuntasse sulla porta, ma alla fine decise di ordinare.

    Aveva già finito il secondo e cominciava a preoccuparsi. Non osava guardare l’orologio. Non cenerà mica all’osservatorio!, pensò. "D’accordo che a Monte Mario si fidano solo di lui e lo fanno venir

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