I figli di Asshur
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Anteprima del libro
I figli di Asshur - Robert E. Howard
80
Robert E. Howard
I figli di Asshur
Edizione integrale
Titoli originali: The Footfalls Within, The Hills of the Dead, The Children of Asshur, The Castle of the Devil
Traduzione di Gianni Pilo
Prima edizione ebook: luglio 2012
© 1994 Finedim s.r.l., Compagnia del Fantastico
© 2012 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 9788854145962
www.newtoncompton.com
Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli
Immagine di copertina: © Dušan Kostić/iStockphoto
I passi all’interno
Solomon Kane osservava corrucciato l’indigena che giaceva morta ai suoi piedi. Era poco più di una ragazza, ma le membra smagrite e gli occhi stralunati dimostravano che aveva molto sofferto prima che la morte giungesse a recarle il suo pietoso sollievo. Kane notò i segni delle catene sulle braccia, i profondi solchi che le segnavano il dorso, e il segno lasciato dal giogo sul collo. I suoi occhi gelidi assunsero un colore più profondo, e balenarono di sinistri lampi di luce simili a nuvole al di sopra di un paesaggio artico.
«Si spingono fino a questa landa desolata», mormorò. «Non avrei mai pensato…».
Sollevò il viso e guardò verso Oriente. Alcuni punti neri si stagliavano contro il cielo azzurro, compiendovi lente giravolte.
«Gli avvoltoi ne segnano il cammino», mormorò l’uomo, un inglese di alta statura. «La distruzione li precede e la morte li segue. Siate maledetti, figli dell’iniquità, poiché l’ira di Dio incombe su di voi! Le funi che legano il collo d’acciaio dei mastini dell’odio e la corda dell’arco sono ormai tese. Siete forti, avete coraggio, e la gente si lamenta schiacciata sotto il vostro tallone, ma la vostra punizione giungerà tra l’oscurità della mezzanotte e il rosseggiare dell’alba.»
Si aggiustò il cinturone nel quale erano infilate le pesanti pistole e il pugnale acuminato, istintivamente sfiorò la lunga spada che portava al fianco, quindi si diresse, veloce e furtivo, verso Est. Una rabbia crudele guizzava nei suoi occhi profondi che parevano due azzurri fuochi vulcanici che ardessero sotto profondi strati di ghiaccio. In una mano stringeva un lungo bastone duro come il ferro che aveva l’impugnatura a forma di testa di gatto.
Dopo qualche ora di cammino, udì il rumore di una colonna di schiavi che si apriva faticosamente la strada attraverso la giungla. Le grida pietose di quegli infelici, le urla e le bestemmie degli aguzzini, e lo schiocco delle fruste, gli giungevano chiaramente. Un’altra ora di cammino gli permise di raggiungerli e, scivolando attraverso la giungla a fianco del sentiero che percorrevano i mercanti di schiavi, riusciva a spiarli rimanendo al sicuro. Kane aveva combattuto contro gli Indiani nel Darien, e ne aveva appreso l’arte di muoversi tra gli alberi senza far rumore.
Più di cento indigeni, giovani uomini e donne, avanzavano barcollando lungo il sentiero, completamente nudi, legati assieme da orribili attrezzi simili a gioghi di legno. Questi gioghi pesanti e rozzi circondavano il collo di quei miserabili, e li legavano due alla volta. Anche i gioghi erano legati assieme, e formavano una lunga catena.
I loro aguzzini erano quindici arabi e circa settanta guerrieri negri; le armi e le decorazioni fantastiche di questi ultimi ne rivelavano l’appartenenza a una tribù dell’Est, una delle tribù soggiogate e convertite all’Islam, alleate degli Arabi conquistatori.
Cinque Arabi precedevano la carovana assieme a una trentina di guerrieri, mentre altri cinque chiudevano la retroguardia assieme ai guerrieri restanti. Gli altri marciavano accanto agli schiavi barcollanti, spingendoli avanti a forza di grida e bestemmie, e grazie alle lunghe fruste crudeli che facevano sgorgare getti di sangue ogni volta che colpivano. Quei mercanti erano degli sciocchi oltre che dei criminali, rifletté Kane: non più della metà degli schiavi sarebbe sopravvissuta alla durezza di quella marcia fino alla costa.
Si era meravigliato della presenza di quei razziatori, poiché quella regione si trovava molto a Sud rispetto alle zone che essi frequentavano di solito. Ma l’avidità può condurre lontano gli uomini: l’Inglese lo sapeva bene. Infatti lui aveva avuto a che fare con quella gente un tempo. Mentre li osservava, certe vecchie cicatrici sul dorso cominciarono a bruciargli: erano le cicatrici causate dai colpi delle fruste musulmane di una galera turca. Ma ancora più profondo era l’odio insaziabile che bruciava nell’animo di Kane.
Il Puritano li seguì, pedinando i suoi nemici come un fantasma e, mentre scivolava attraverso la giungla, cercava di pensare a un piano. Come avrebbe potuto prevalere su quell’orda? Tutti gli Arabi e molti dei loro alleati avevano delle armi da fuoco, degli arnesi lunghi e goffi, è vero, ma pur sempre delle pistole, che bastavano a intimorire qualsiasi tribù indigena che avesse osato opporsi a loro. Alcuni portavano nelle loro larghe giubbe delle lunghe pistole argentate dall’aspetto più efficiente, pistole a pietra focaia di fattura moresca o turca.
Kane li seguiva come un cupo fantasma, e l’ira e l’odio gli divoravano l’anima come un cancro. Ogni schiocco di frusta gli pareva che cadesse sulle sue stesse spalle. Il calore e la crudeltà dei tropici gli giocavano degli strani scherzi. Certi sentimenti normali diventavano cose mostruose, l’irritazione cresceva fino a diventare una rabbia incontrollabile. Le fiamme dell’ira potevano tramutarsi in una pazzia inconsulta, che spingeva gli uomini a uccidere in preda a una rosseggiante nebbia omicida, per poi meravigliarsi, orripilati dai loro stessi gesti.
La furia di Solomon Kane sarebbe bastata in qualsiasi luogo e in un qualsiasi momento a scuotere un uomo fino alle radici del suo essere. Ora assumeva proporzioni enormi, da provocargli brividi come quelli generati dal freddo. Unghie ferrigne gli graffiavano il cervello, e vedeva gli schiavi e i loro aguzzini attraverso una nebbia color cremisi. Eppure non avrebbe certo scatenato la sua pazzia nata dall’odio, se non fosse stato per un incidente fortuito.
Uno degli schiavi, una ragazza magra e giovane, improvvisamente aveva messo un piede in fallo ed era scivolata a terra, trascinando con sé la compagna di giogo. Un arabo alto dal naso adunco aveva inveito selvaggiamente contro di lei, frustandola violentemente. La sua compagna si era rialzata, ma la ragazza era rimasta riversa, dibattendosi debolmente sotto i colpi, apparentemente incapace di rialzarsi. Dalle labbra screpolate le sfuggivano lamenti pietosi, e gli altri aguzzini si radunarono attorno a lei, percuotendo le sue carni tremanti con le fruste che ne esacerbavano la rosseggiante agonia.
Una mezz’ora di riposo e un po’ d’acqua l’avrebbero certo rianimata, ma gli Arabi non avevano tempo da perdere. Solomon, mordendosi un braccio fino a farlo sanguinare, tentava di controllarsi. Ringraziò Dio che le frustate fossero cessate, e si preparò ad assistere al veloce baluginio del pugnale che avrebbe posto fine ai tormenti della ragazza. Ma gli Arabi avevano voglia di divertirsi. Giacché la ragazza non avrebbe procurato loro alcun guadagno sulla piazza del mercato, l’avrebbero utilizzata per il loro piacere, e il loro umore era tale da tramutare in acqua il sangue dell’uomo più coraggioso.
Un grido emesso dal primo carnefice fece avvicinare gli altri: le loro facce barbute ghignavano illuminandosi al pensiero di ciò che li attendeva, mentre i selvaggi loro alleati si accostavano, gli occhi ardenti come tizzoni. I disgraziati schiavi compresero le intenzioni dei loro padroni, e un coro di lamenti da far pietà si levò dal gruppo.
Kane, nauseato da quell’orrore, comprese anche lui che la morte non sarebbe stata facile per la ragazza. Sapeva bene quello che il musulmano aveva intenzione di fare: questi si ergeva su di lei con un pugnale acuminato solitamente usato per scuoiare la selvaggina. L’Inglese fu sopraffatto dalla pazzia! Poco gl’importava della sua vita: l’aveva già rischiata più volte senza pensarci su, per salvare qualche bambino pagano, o qualche piccolo animale.
Eppure non avrebbe mai sprecato premeditatamente la sua unica occasione di poter soccorrere le miserabili vittime di quella carovana. Agì senza pensare: la pistola gli fumava nella mano, e l’alto carnefice giaceva a terra nella polvere del sentiero mentre le cervella gli fuoriuscivano dal cranio, prima che Kane si rendesse conto di quello che aveva fatto.
Fu sorpreso quasi quanto gli stessi Arabi, che rimasero annichiliti per un momento per poi scoppiare in un coro di grida scomposte. Molti di loro tolsero la sicura alle loro rozze pistole e mandarono i pesanti pallettoni a schiantarsi contro gli alberi circostanti, mentre gli altri, credendosi caduti in una trappola, si gettavano verso la giungla impetuosamente.
Fu quella mossa improvvisa che segnò il destino di Kane. Infatti, se avessero esitato un altro minuto, lui avrebbe potuto sgusciare via senza essere visto, ma in quel momento non vide altra possibilità, e si preparò ad attenderli a piè fermo, e a vendere cara la pelle.
Affascinato, attese l’attacco dei suoi nemici urlanti, che si arrestarono in preda a un’improvvisa meraviglia nel vedere quell’alto e cupo inglese che usciva da dietro un albero; un istante dopo, uno di loro morì mentre una pallottola dell’unica pistola che Kane aveva ancora carica gli trapassava il cuore. Poi si avventarono con urla di rabbia selvaggia contro il loro solitario sfidante.
Solomon Kane si mise con le spalle contro l’enorme tronco d’albero, mentre la sua mazza gli disegnava attorno un cerchio lucente. Un arabo e tre dei suoi feroci alleati brandivano contro di lui le loro pesanti lame ricurve, mentre il resto dell’orda gli girava attorno, ringhiando come un branco di lupi, tentando di affondare la lama o una pallottola nel suo corpo senza ferire uno dei loro.
La mazza, guizzando, parò i colpi delle sibilanti scimitarre, e uno degli Arabi cadde trafitto; poi l’arma parve esitare solo per un istante, prima di abbattersi sul cranio di un altro guerriero armato di spada. Un altro attaccante lasciò cadere la spada