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Papao
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E-book264 pagine3 ore

Papao

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Papao è il romanzo dell’incontro tra un bambino, Matteo, e i suoi genitori adottivi.

Sullo sfondo di un Madagascar magnifico e feroce, il racconto di questa prodigiosa alchimia gioca a eludere i confini di genere…

… combinando epica e commedia, e lasciando che dall’aneddotica quotidiana di lemuri, cavallette e taxi di latta scaturisca una fitta trama di risonanze letterarie (la Bibbia e Dante, Gaber e Dylan, Montale e Luzi…) e di aperti interrogativi universali (sul tempo, il male, la paternità, le migrazioni, la poesia, la scuola…).

Così Papao rinnova la sfida di ogni tentativo di letteratura: cogliere l’eco segreta di cui vibra qualunque vissuto quotidiano.

A questo mistero di umanità e bellezza, alla profondità di una rivelazione che la tenerezza e l’ironia della scrittura riescono appena a suggerire, approdano i protagonisti del romanzo, fragili e arresi, finalmente ritrovati nel dono di «essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo».

Il romanzo ha ottenuto i seguenti riconoscimenti: Premio Letterario Andrea Torresano (1° classificato), Premio Cinque Terre – Golfo dei Poeti (1° classificato), Premio Il Golfo (3° classificato).
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2021
ISBN9788868672683
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    Anteprima del libro

    Papao - Luca Pipitone

    Luca Pipitone

    Papao

    © 2021 – Gilgamesh Edizioni

    Via Giosuè Carducci, 37 - 46041 Asola (MN)

    gilgameshedizioni@gmail.com - www.gilgameshedizioni.com

    Tel. 0376/1586414

    ISBN 978-88-6867-268-3

    È vietata la riproduzione non autorizzata.

    In copertina: Progetto grafico di Barbara Fragogna

    © Tutti i diritti riservati.

    ISBN: 978-88-6867-268-3

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice

    1. Conto alla rovescia

    Dieci

    Nove

    Otto

    Sette

    Sei

    Cinque

    Quattro

    Tre

    Due

    Uno

    Zero

    2. Incontro

    Allunaggio

    Tanà

    Matteo

    Vigilia

    Sala parto

    3. Alfabeto

    Addormentarsi

    Bambino amato ha molti nomi

    Canzoni

    Dimissioni

    Errori

    Fuori

    Giochi

    Hi-ho

    In macchina

    Lessico familiare

    Mora-mora

    Nostalgie

    Olga

    Padre Pedro

    Quarantena

    Rosolia

    Skype

    Torta al testo

    Ultimi

    Vaniglia e cioccolato

    Zero

    4. Esodo

    Mare mosso

    Cavallette

    Papao

    Fonti delle citazioni

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    3 REGALI per te dalla nostra Casa Editrice

    ANUNNAKI

    Narrativa

    76

    Qual è colüi che sognando vede,

    che dopo ‘l sogno la passione impressa

    rimane, e l’altro a la mente non riede,

    cotal son io, ché quasi tutta cessa

    mia visïone, e ancor mi distilla

    nel core il dolce che nacque da essa.

    (Pd XXXIII, 58-63)

    1. Conto alla rovescia

    Notte di fine luglio, immobile e indolente.

    Cecilia e io recitiamo la preghiera della sera, semi-sdraiati sul letto:

    «Nella veglia salvaci Signore, nel sonno non ci abbandonare…».

    In realtà, albe e notti qui variano per pochi segni.

    È l’odioso incantesimo delle nostre ultime estati: finito il centro estivo, l’oratorio in cui lavora Cecilia va in letargo; io, da insegnante precario, in disoccupazione.

    Per me l’intero mondo della scuola – alunni, aule, lezioni, colleghi – si trasforma improvvisamente nei primi giorni di giugno: volti e nomi che nei mesi precedenti hanno orientato tanto delle mie energie e del mio tempo fino a entrarmi nel sangue con dolcezza e violenza scompaiono come a tradimento; vago nei corridoi della scuola per consegnare gli ultimi documenti, mentre tutto intorno a me trascolora e svanisce in trasparenze spettrali; un attimo prima tutto era vita, passione, incontro e scontro quotidiano, studio febbrile notturno, crisi, ricerca, sudore, invenzioni, abbattimenti, trionfi, sguardi, viaggio e avventura ricolmi di umanità traboccante: ora è già soltanto memoria e nostalgia.

    Preghiamo, distratti e approssimativi. Il mondo e il tempo si sono dileguati. Persino gli insetti sembrano darci tregua, essi pure anestetizzati dall’interminabile sospensione a cui assomiglia questo nostro vuoto quotidiano di mezza estate. Scivoliamo ormai inesorabilmente nel sonno greve e oppresso delle insopportabili notti afose.

    Cecilia mi rivolge poche parole, senza preamboli, appena prima che sopraggiunga il dormiveglia:

    «Domani andiamo in tribunale a compilare i documenti per l’adozione?».

    «Certo, va bene», rispondo immediatamente.

    «Buonanotte».

    Già altre volte, nei mesi precedenti, ne abbiamo parlato; già conosciamo l’iter burocratico, a grandi linee: riempire qualche modulo in tribunale, essere contattati dai servizi sociali, frequentare un corso, sostenere colloqui con assistenti sociali e psicologi, ottenere finalmente l’idoneità; quindi, sperare in un’adozione nazionale (magari di un neonato abbandonato in un ospedale) o imbarcarsi nell’incerta – e costosa – lotteria di un’adozione internazionale.

    Ne abbiamo discusso, senza mai concretizzare una decisione; io, in particolare, ho sempre lasciato cadere il discorso come per una profonda, non detta e forse neanche del tutto consapevole resistenza interiore. Non mi frena tanto la precarietà economica e lavorativa in cui ci troviamo, quanto piuttosto la precarietà emotiva alla quale ci dovremmo esporre: altri ci metterebbero sotto esame, giudicando la nostra capacità di diventare genitori; ma soprattutto, in fondo, temo la prospettiva di essere espropriato del mio destino, di non essere più padrone del mio tempo – destinato a trasformarsi in un’attesa lunga, oscura, indefinita – e della mia vita stessa, che si intreccerà con la vita di un altro. Un estraneo, diverso da noi, quasi un nemico.

    L’instabilità economica diventa così, in realtà, un elegante alibi per rimanere al sicuro nel mio, nel nostro ormai codificato status di «coppia giovane e sfortunata senza figli e con difficoltà economiche»: senza accorgermene, mi sono affezionato a questa dimensione comoda e autoreferenziale, impercettibilmente mediocre.

    Ho conservato così intatto il privilegio di un futuro nebuloso e lontano, e perciò ancora aperto e potenzialmente ricco di benedizioni, primo fra tutte un figlio naturale, l’illusione – in altri termini – di un’eterna giovinezza in cui tutto sia sempre ancora da decidere, da definire, in evoluzione incessante; nel frattempo, tanto presente è scorso via – a grandi passi ci avviciniamo al nostro quarto anniversario di matrimonio –, lasciando dietro di sé un retrogusto vagamente piacevole di vittimismo e confuse aspettative.

    Depone quelle parole sul mio cuscino e sprofonda nel sonno.

    Stavolta non sono semplici umane banali parole, goffi tentativi di travestire e impacchettare le idee; non aprono una riflessione, non definiscono un pensiero, non chiariscono un progetto: sono poesia e profezia, risonanza e fuoco. Mi entrano dentro e restano a bruciare in fondo a una piega dell’anima che neppure sospettavo di avere, e continuano a parlare la lingua così antica e così nuova delle annunciazioni di ogni tempo, feriali e celesti, semplici e misteriose – un dilagare dell’eternità nei rigagnoli della storia.

    Mi ritrovo a fissare il soffitto, occhi sbarrati nell’oscurità incandescente della notte ormai aperta come un golfo scintillante: sacra, ineffabile, arcana notte, nel tuo spesso silenzio – solo a tratti screziato dalle macchine che si ostinano a passare rombando lungo la strada sotto la nostra finestra – ora posso quasi ascoltare il riverbero della voce stessa di Dio; guardo il lampadario, le maniglie dei cassetti, la solita pallida luce lunare che si scompone attraverso i fori della serranda eppure sono tutto altrove, infinitamente libero e prigioniero, dentro una vocazione ancora appena intuita e non ancora scelta, indifferente al caldo, al sudore, al sonno ormai sparito, spudoratamente nudo degli abiti – già vecchi, già irresistibilmente anacronistici – del rimpianto, delle infantili pretese indossate nel giorno appena trascorso e ora così lontano.

    In quegli stessi momenti, dall’altra parte del mondo:

    «Il 31 luglio 2012 verso le ore 7,30 una donna è salita con un neonato dentro un taxi-brousse a Fasan’ny Karana, dicendo che andava a Antsirabe».

    Così recita il rapporto firmato dal Giudice dei Bambini del Tribunale di Antananarivo, Madagascar, nella traduzione autenticata in italiano che leggeremo quasi due anni dopo.

    Il taxi-brousse è un furgone simile a un grosso Transit che funziona da taxi collettivo: si sale in qualunque punto della città indicando la propria destinazione a un ragazzo che apre e chiude il portellone posteriore facendo salire e scendere i passeggeri, i quali viaggiano poi generalmente stipati ai limiti dell’asfissia, seduti o in piedi, e giunti all’arrivo contrattano il prezzo della corsa con lo stesso ragazzo; in alcuni punti del dedalo di strade che attraversa la città come una caotica, inverosimile ragnatela, questi cigolanti prodigi di latta si fermano alcuni minuti, giusto il tempo di un rabbocco di carburante o di riparazioni meccaniche con mezzi di fortuna.

    «La stessa ha lasciato il neonato all’aiutante dell’autista dichiarando che sarebbe scesa solo per qualche minuto, e invece non è mai tornata indietro».

    Il ragazzo lo porterà quindi alla polizia, infine il neonato sarà affidato alla Maison de Famille dove noi, due estati dopo, lo incontreremo: Matteo, nostro figlio.

    Qualcosa guida il cammino delle formiche sotto terra

    e il volo degli uccelli da un continente all’altro.

    Dieci

    Non uno, ma due viaggi iniziano in questi giorni. Giorni di amarezza, noia e sospesa inquietudine.

    Noi abbiamo appena acceso una speranza senza nome e senza volto; lui è almeno salvo, fisicamente incolume, al sicuro: ma certo nessuno osa sognare che solo queste flebili tracce di bene possano bastare a riscattare questo tempo sbagliato.

    Noi lo crediamo esilio e sarà pellegrinaggio.

    Certo il Signore era in questo luogo, e io non lo sapevo!

    Meraviglioso e terribile è il mistero della Provvidenza, della cura di Dio per i suoi figli. E' la bellezza scandalosa del Cristo crocifisso; l’umana fragilità risplende di luce indicibile nella fragilità dell’uomo-Dio. Così per noi, per Matteo.

    Maledetti il suo abbandono, il suo pianto inconsolato di quel giorno, la follia sconosciuta per cui quella donna ha reciso le sue radici e spezzato la propria anima; maledetti gli anni del rimpianto muto, strisciante, avvelenato, la solitudine della nostra casa piccola e sempre troppo grande per noi due soli, il sottile, pungente senso di ingiustizia per una vita fatalmente condannata a rimanere incompiuta. Unica certezza, la precarietà.

    Maledetto tutto questo, fino alla fine del mondo, certo; eppure il nostro incontro è iniziato allora, come se le ferite di ciascuno di noi avessero orientato le nostre strade l’una incontro all’altra, per un occulto irresistibile magnetismo; se cellule e galassie non possono sottrarsi alla legge del Crocifisso, allora nell’ingegneria del cosmo nessuna povertà è soltanto miseria fino in fondo, piuttosto luogo di nascosta, insperata benedizione: i chiodi diventano passi, la fede sorvola il baratro a braccia tese, l’amore brucia le distanze.

    Sopraggiunge quasi imprevista e spavalda la luce del risveglio. Il mondo torna improvvisamente piccolo e frenetico, ottuso e indifferente; con pigro automatismo ci vestiamo e usciamo, in obbedienza alla decisione presa nella notte appena trascorsa e già fastidiosamente lontana.

    Il radicale cambiamento di atmosfera non ci stupisce affatto. Per un’istintiva intuizione sappiamo di doverci immergere in un lungo tempo di prosa e routine. La scommessa è che il sogno resista intatto fino a confondersi con la realtà.

    Entriamo nel palazzo del Tribunale dei Minori di Perugia con la vaga eccitazione e il diffuso malessere di un adolescente che si aggira per i reparti del Conad studiando il momento opportuno per rubacchiare una merendina. Siamo fuori tempo e fuori posto: questa è la prima, nettissima impressione che avverto, con una lucidità dolorosa; clandestini tremebondi e balbettanti a ogni frontiera.

    Così mi rivolgo esitante all’impiegato rilasciato sulla sedia dietro il bancone all’ingresso:

    «Vorremmo fare… un’adozione…, i documenti per un’adozione… Dove dobbiamo…?».

    Lo sforzo che devo compiere per mettere insieme poche e disarticolate parole quasi mi sorprende. È anzitutto una questione di pudore: dare corpo e visibilità alla fragile, embrionale bellezza della nostra intenzione esprimendola a voce mi sembra già una profanazione. E mi disturba il pungente e fastidioso sospetto di essere ridicolo.

    Posso vedere snodarsi, in un angolo sempre troppo rumoroso del mio cervello, il lungo divano gremito di spettatori che assistono alla mia vicenda come a una mediocre sit-com di metà pomeriggio; ridacchiano e commentano loro, ripetitori instancabili del pancia-pensiero occidentale odierno, produttivo, grassoccio, sicuro di sé e del proprio omicida buonsenso: «Non ce la farete»; «Si tratta di aspettare anni e anni»; «Non avete abbastanza garanzie economiche»; «Solo uno scemo va a crearsi problemi da solo»; «La casa è troppo piccola»; «Ve ne pentirete e sarà tardi»; «C’è un destino segnato per voi, accettatelo, forse Dio stesso…».

    Distrattamente, l’impiegato ci indica l’ufficio giusto. Luce gialla, macchie sui muri, vecchi armadi saturi di faldoni, fogli fotocopiati o stampati con grossolane scritte in Word appiccicati vicino alle porte degli uffici con tagli maldestri di scotch: anche il disordine e l’approssimazione dell’ambiente concorrono a confermare il presentimento, persistente e insopportabile come un pessimo retrogusto, che il nostro tentativo non sia altro che patetica velleità.

    Nell’ufficio, convenevoli ridotti all’essenziale; il funzionario ci consegna i moduli da compilare. Curvi sui fogli, silenziosi e calligrafici come due scolari troppo giudiziosi, scriviamo con eccessivo impegno.

    «Sarete contattati per il corso organizzato dai servizi sociali. Arrivederci».

    In pochi minuti siamo già nel parcheggio. Mentre indossiamo il casco, ci guardiamo negli occhi di sfuggita, in obliquo; galleggiano negli sguardi impressioni gemelle: malcelato imbarazzo, lieve eccitazione come per aver compiuto una segreta trasgressione, un’ombra di fatica, il senso inconfondibile di una tenace, rafforzata complicità.

    Ci allontaniamo dal tribunale, nel rapido ronzio del motorino, abbracciati come liceali innamorati, persi però ciascuno nei propri pensieri improvvisamente troppo grandi. Sappiamo che tutti i nostri progetti di futuri genitori si riducono, in questo momento e nessuno può dire fino a quando, a un desiderio e nient’altro.

    Mi sorprendo ad avvertire dolorosamente tutto il peso di questa nebulosa astrazione mentre ripasso mentalmente la lista della spesa. Arriviamo al supermercato: non abbiamo la moneta per prendere il carrello; sull’asfalto rovente del parcheggio siamo già fradici di sudore, pronti a subire l’inevitabile agguato polare dell’aria condizionata. La realtà quotidiana ci ha già ripresi nel flusso banale e ottuso degli eventi ordinari.

    Si apre per noi la scuola della speranza; lentamente dobbiamo imparare l’esercizio quotidiano di una perseveranza silenziosa e nascosta.

    Nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare,

    ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni.

    Nove

    Ottobre 2012. Un paio di mesi dopo, inizia il corso di preparazione per noi aspiranti genitori adottivi: una serie di incontri pomeridiani di 4 ore l’uno.

    Al primo incontro arriviamo in ritardo, nella luce sonnolenta del primo pomeriggio. Cerchiamo posto in mezzo agli altri partecipanti, una trentina di persone circa, tutte sostanzialmente nella nostra stessa condizione.

    Quest’improvvisa promiscuità di esperienze e dolori troppo simili ai nostri mi disturba; mi siedo, riluttante e scontroso. Ho la sensazione di partecipare a un rito di penitenza collettiva, come una riunione di alcolisti anonimi o un corso di recupero a scuola.

    Inizia a parlare un’assistente sociale; immediatamente, come istintiva forma di difesa, mi distraggo. Penso stizzito alla perdita di tempo di questo pomeriggio che aumenterà ulteriormente le consuete ore di studio notturno per la preparazione delle lezioni; vado con la mente alle aule, ai nomi e ai volti degli alunni, agli argomenti da affrontare nei giorni successivi. Come sempre il battito accelera: entusiasmo, passione, ansia da prestazione.

    L’incontro prosegue; io, ormai assente, assisto dall’unico posto in cui mi sembra di sentirmi a casa: ritorno virtualmente alla mattinata appena trascorsa a scuola, per me un ennesimo primo giorno di scuola.

    La chiamata per la supplenza è arrivata ieri, nella consueta confusione organizzativa. Molti precari ricevono varie chiamate contemporaneamente, e si tratta sempre di incarichi «fino all’avente diritto»; a causa della lentezza del sistema, gli uffici scolastici assegnano le supplenze in via provvisoria in attesa di stabilire l’«avente diritto» – il reale destinatario dell’incarico. Dopo poche settimane, insomma, tutte le carte si rimescolano e le supplenze si redistribuiscono.

    Il pachiderma burocratico è riuscito a inventare il mostro paradossale dell’incarico a tempo breve&indeterminato. Inizio e non so quando finirò, ma so che non potrà durare per molto; eppure in me prevale un entusiasmo sconsiderato e del tutto immemore di prospettive future; a ogni nuovo inizio riscopro sempre la possibilità di insegnare come un inatteso privilegio.

    Nel mio primo giorno di scuola mi attende una quinta superiore di liceo scientifico, due ore consecutive. Ogni buon precario si è costruito negli anni un ampio e variegato repertorio per questo tipo di lezioni, per i primi incontri o per le ore di sostituzione in classi comunque sconosciute. Io ho imparato che in genere il modo migliore per iniziare un percorso insieme a un gruppo di alunni è rischiare fin dalla prima lezione la carta ambiziosa – e pericolosa, perché giocata a freddo e senza conoscerli – della grande letteratura.

    Questa volta, scelgo di proporre una lettura complessiva della Divina Commedia, interpretata come grande poema della libertà.

    Guardiamo insieme un quadro di Magritte: un uomo, di spalle, contempla il mare; accanto a lui, la sua stessa sagoma ritagliata in un sipario.

    «Cosa significa quest’immagine, secondo voi?».

    Si improvvisa un dibattito: «Ogni uomo ha in fondo una doppia identità»; «L’uomo raffigurato di spalle è se stesso, la sagoma nel sipario rappresenta ciò che gli altri vogliono che l’uomo sia, come spettatori esigenti»; «L’uomo è vestito come un borghese, con giacca elegante e bombetta, costretto dalle convenzioni sociali: la sagoma rappresenta la sua anima finalmente libera».

    Fantasia, intuizione, intraprendenza e dilettantismo intellettuale: le idee si muovono, i ragazzi entrano nel gioco, l’atmosfera si fa elettrica. Lancio infine la mia interpretazione del quadro, non più plausibile delle loro:

    «L’uomo a sinistra guarda il mare, l’uomo a destra è mare egli stesso, è diventato egli stesso il mare che contempla; così è per la libertà: talmente vitale da coincidere con l’identità stessa della persona».

    «Che cosa significa libertà, dunque», proseguo, «per Dante?». Ascoltiamo Gaber:

    La libertà non è star sopra un albero,

    non è neanche il volo di un moscone;

    la libertà non è uno spazio libero,

    libertà è partecipazione.

    «Libertà, nella Commedia, non è star sempre sulla soglia dell’uscita di sicurezza; non è il falso mito dell’autodeterminazione; non è sfuggire ai legami e all’impegno, per conservare l’illusione tragica e infantile del barone rampante, che si ribella al mondo col suo stare sopra un albero. Libertà è avere occhi limpidi e luminosi per cogliere l’essenziale, e desiderarlo, e spendere la propria vita stessa per conquistarlo. Libertà è compromettersi per qualcuno, salvandosi dalla schiavitù di ogni egolatria. La pienezza di un uomo passa per questa via: così, nella Commedia, Dante non impara a essere più buono ma più libero; il suo non è un cammino di perfezionamento morale, ma di autentica liberazione, della capacità di scegliere il vero bene e di legarsi a esso».

    Si chiude la lunga introduzione: ora finalmente possiamo lasciar parlare Dante, per brevi lampi di poesia, in una panoramica vertiginosa che ci porta dalla selva oscura alla visione di Dio. La prima immagine della libertà, disegnata per effetto di totale contrasto, è quella degli ignavi, condannati a essere disprezzati dall’inferno stesso: ... questa era la setta d’i cattivi, / a Dio spiacenti e a' nemici sui: se libertà è partecipazione, allora la più tremenda delle colpe è non avere colpe, non essersi neppure esposti all’errore evitando di schierarsi, di rischiare la propria libertà.

    Per questo Dante rappresenta come uomini nobili e grandi i dannati che hanno investito coraggiosamente la propria libertà in una sincera ricerca del bene e della verità. L’eretico (ateo) Farinata ... s’ergea col petto e con la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto; il fraudolento e pagano Ulisse annuncia solennemente: fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza.

    Opposte analogie: come gli ignavi, poiché mai davvero liberi, mai non fur vivi, così il custode del Purgatorio, Catone, rifiuta il bene stesso della vita, che senza libertà perde significato: libertà va cercando – gli dice Virgilio presentandogli Dante –, ch’è

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