Extinction IV (Il nuovo giorno)
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Horror - romanzo breve (98 pagine) - Il crollo delle superpotenze ha allentato la pressione sugli equilibri geopolitici del pianeta. Senza i super-controllori, una nuova ondata di attacchi terroristici ha investito il mondo occidentale, con l’Europa divenuta campo di battaglia dei mujaheddin. Africa, Medio e Vicino Oriente sono polveriere pronte a esplodere. E un nuovo tiranno incombe su quel che resta della Russia martoriata dal morbo...
Russia, confine occidentale. Ancora Buran, sempre più intenso, sempre più rigido. Il campo di contenimento non è il porto sicuro che Ksenija e i suoi potessero sperare. Un nuovo tiranno si è imposto nella Russia decapitata, uomini senza scrupoli, oscuri progetti. Distorsione della politica: continuazione dell’infamia con altri mezzi. Ksenija, Oksana e Serhij torneranno a percorrere le strade dell’inferno con un obiettivo incerto, per non far spegnere l’esile fiammella di una nuova speranza che, nel nuovo giorno dell’umanità, chiede di essere protetta e perseguita a costo della vita, senza alcuna certezza. I nemici si sono moltiplicati e non è più solo il morbo a spingere il genere umano verso il baratro. La scienza non può essere l’unica soluzione. Non in un mondo in cui c’è ancora chi è disposto a sacrificare tutto per l’interesse personale. Basterà il coraggio dei singoli a impedire l’oblio? Il quarti capitolo della saga di Extinction, costruita all’interno dello scenario catastrofico di The Tube.
Gianluca D’Aquino, nato ad Alessandria, classe 1978, è autore di romanzi, sceneggiature e racconti, alcuni dei quali apparsi nei Gialli Mondadori (Lettera dall’Eritrea, Il rumore del vento, La casa sul lago, La quintessenza, Il tempo delle risposte, Al di là del tempo) e nelle antologie e collane Delos Books (Quel che non è dato sapere, Torino 1835 e la saga di Extinction: L’alba, Il crepuscolo, La notte e Il nuovo giorno). Vincitore di numerosi premi letterari, è in libreria con Pàrtagas (Eden, 2016), romanzo epico sull’islamizzazione del mondo. Il suo ultimo romanzo, Traiano – il sogno immortale di Roma (Epika, 2018), ripercorre la vita e le imprese, politiche e militari, dell’imperatore che portò l’impero romano alla sua massima estensione, contribuendo alla rinascita economica, sociale e culturale dell’Urbe e delle province, tanto da farne il princeps fra i più amati dal popolo e consentire alla sua immagine, a diciannove secoli dalla sua morte, di continuare a risplendere.
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Torino 1835 Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioni
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Anteprima del libro
Extinction IV (Il nuovo giorno) - Gianluca D'Aquino
9788825403657
a Sergio Alan D.
Altieri,
amico oltre ogni limite umano,
che continuerò a cercare nel silenzio.
65
Vento.
Duro come silice.
Denso. Umidità addensata, gelata dal freddo.
Cristalli di neve ghiacciata.
Polvere di diamante.
Ancora Buran, sempre più intenso, sempre più rigido.
Vento dell’est, vento della steppa sarmatica, vento degli Urali.
La tendopoli ne era avvolta. I mezzi militari ne erano avvinghiati. I Quonset ne erano imprigionati.
Esseri umani come ombre si muovevano furtivi fra gli attendamenti, cercando di coprirsi il più possibile, tentando di sottrarsi alle raffiche taglienti come lame, dure come scariche elettriche sulla pelle nuda.
Polvere di diamante.
Tutto ciò che non era mobile ne veniva rapidamente coperto, perdendo forma e colore. Simulacri della desolazione.
Erano passati giorni dall’arrivo alle porte di Smolensk. Giorni di attesa. Apparentemente vuota, inutile, estenuante attesa.
Ksenija aveva più volte provato a entrare in contatto con il dottor Cheslav Sokolov, ma ogni tentativo era fallito. Porta sbarrata all’ingresso dell’area destinata a laboratorio. Guardie armate. Nessuna autorizzazione a trattare. Ordini tassativi: nessun accesso consentito.
Filo spinato. Spire elicoidali di ferro ritorto su pali di profilato d’acciaio incombenti sull’esterno del laboratorio. All’interno, per chi stava dall’altra parte.
Ksenija fece scorrere lo sguardo lungo tutto il perimetro. Nessuna possibilità. Non senza incorrere in problemi.
I militari pattugliavano il margine interno. Armi automatiche, volti affondati nella balaclava per sopravvivere al freddo.
Corvi sulle spire di filo spinato. Le zampe scure artigliavano i graticci. Lo sguardo vacuo e cupo ne faceva sentinelle del mondo dei morti.
Indagò in quegli occhi simili a sfere di ossidiana, tanto neri e tanto lucidi da riverberare il paesaggio circostante.
Lo scrollare frenetico di ali, di quando in quando, liberava il piumaggio della polvere cristallina che vi si andava depositando.
Aria dura come carta vetrata che raschiava la gola.
Il fiato si condensava davanti al volto, appena in tempo per essere spazzato via.
Scosse la testa e tornò sui propri passi.
La tenda dove avevano trovato posto ospitava altri sfollati. Nessun riguardo per chi aveva avuto il merito di recapitare l’unica possibile speranza in una situazione tanto disperata.
– Dobbiamo andarcene da qui.
Oksana e Serhij osservarono Ksenija senza replicare.
– Se non possiamo essere utili e non ci è dato modo di fare parte del sistema, non abbiamo motivo di restare.
– Non credo ci sarà permesso abbandonare questo posto.
– Non chiederemo il permesso, Serhij.
– Per andare dove? – domandò Oksana. – Russia, Bielorussia, Ucraina?
– Altrove. Purché non sia qui.
Oksana chinò il capo.
– Siamo senza armi – considerò Serhij. – Non possiamo andarcene senza armi. E cibo.
– Dobbiamo pensare a tutto prima di muoverci. Devo capire dove e come recuperare quanto ci serve.
– Sai che potrebbe non essere una decisione fortunata.
Non una domanda, quella di Serhij.
Ksenija annuì.
– Cosa possiamo fare noi tre, soli e senza nulla per le mani? Non abbiamo neppure l’antidoto. L’unica nostra moneta di scambio.
Ksenija sospirò.
Oksana risolse i dubbi di Serhij. – Torniamo a casa. Se c’è un posto dove può esserci bisogno di noi è lì.
– Non sappiamo neppure se ci sia ancora… una casa.
– L’Ucraina è casa – sentenziò Oksana.
Ksenija scosse il capo.
– Saremmo comunque inutili – dichiarò Serhij alzando lo sguardo a cercare quello di Ksenija. – Dobbiamo recuperare il siero o la formula o qualsiasi altra cosa possa consentirci di non essere solo tre disperati in cerca di salvezza.
– Devo riuscire a parlare con il dottor Sokolov. È l’unica speranza. Dopodiché valuteremo se poter ancora essere utili a questa causa… oppure… – serrò le labbra – decidere di abbracciarne un’altra.
– Sarebbe opportuno capire cosa ne è del resto del mondo. Cosa c’è oltre questo centro di accoglienza, oltre la safe zone, negli altri paesi oltre il confine.
– Serhij ha ragione. Diversamente non avrebbe senso lasciare questo posto.
– Mi occuperò anche di questo – assicurò Ksenija. – Temo solo che non troverò alcuna collaborazione da parte del colonnello Glushakov.
– Mi stupirei del contrario.
Lupus in fabula.
Il colonnello Vasilij Glushakov si materializzò come una minaccia in fondo al padiglione, affiancato dagli immancabili pretoriani. Mosse passi decisi in direzione del conciliabolo nel silenzio che si era venuto improvvisamente a creare. I volti degli sfollati rifuggivano quelli dell’ufficiale e dei militari.
– Kapitán Kurylenko.
Ksenija assunse un atteggiamento marziale, Serhij e Oksana si alzarono dai propri giacigli.
– La sua identità è stata confermata.
Nessuna emozione tradita dall’espressione granitica di Glushakov.
Nessuna emozione manifesta su quella di Ksenija. Una domanda però, non pronunciata: Come? Da chi?
– Da questo momento è reintegrata nel suo ruolo. Può abbandonare questo posto – disse brandeggiando lo sguardo con accennato disgusto.
Ksenija non replicò.
– Prenda le sue cose, si faccia indicare il suo nuovo loculo e mi raggiunga nel Quonset di comando entro quindici minuti.
– Sissignore.
– È tutto.
– Signore.
Il colonnello Glushakov stava già per voltarsi. – Cos’altro?
– I miei…
– In quanto a suoi… accompagnatori – la precedette l’ufficiale – potranno continuare ad alloggiare in questa meravigliosa cloaca.
– Con il suo permesso…
– Nessun permesso – sentenziò, ruotando su se stesso. – Quindici minuti.
66
Polvere di diamante.
Ancora, persistente, annichilente.
Il loculo di Ksenija, come l’aveva definito Glushakov, era un prefabbricato modulare provvisto di letto e riscaldamento centralizzato ad aria. La luce fredda del neon fece il paio con la temperatura interna. Ksenija sollevò la mano davanti alla grata dell’impianto: niente aria calda. Niente aria.
Sul comodino, un badge privo di nome o fotografia. Solo una stampigliatura in cirillico a caratteri cubitali blu su sfondo bianco, il corrispettivo di SECURITY.
Il Quonset di comando si trovava poco distante. Dal profilo della facciata pendevano ancora stalattiti di ghiaccio. In alcuni punti della copertura, si allargavano ampie aree di lamiera scoperta. Punti di calore che aprivano un varco nella morsa del gelo e della neve cristallizzata dal Buran.
Due guardie all’esterno.
Ksenija si avvicinò decisa. Uno dei militari alzò il palmo della mano, l’altro abbassò lo sguardo sul badge. E annuì.
All’interno, la temperatura era decisamente superiore. Il deposito di polvere cristallizzata sul Gore-Tex della mimetica si sciolse in chiazze isolate.
Numerosi monitor catalizzavano attività frenetiche di militari e civili. Tentativi verosimili di gestire la crisi e, con auspicabile probabilità, di trovare una soluzione.
Nessuno parve curarsi di lei.
Ksenija abbassò il cappuccio e si tolse la cuffia di lana. Identificò l’ufficio del colonnello Glushakov in fondo al Quonset, oltre una paratia trasparente.
L’uomo dall’aspetto di un Nenets era seduto alla scrivania con le dita delle mani incrociate sul ventre e la schiena ostentatamente poggiata allo schienale della sedia girevole. Ascoltava le parole di due uomini in camice bianco in piedi davanti a lui, che gli mostravano qualcosa su fogli riportanti espressioni e variabili booleane, grafici e proiezioni.
Appena Ksenija fu prossima all’ingresso, Glushakov congedò gli uomini in camice bianco e la autorizzò a entrare con un impercettibile gesto della mano.
– Ne ho le tasche piene di questi scienziati, analisti e damerini di ogni sorta – dichiarò, spingendo ancora oltre l’inclinazione dello schienale. Il suo sguardo indagò la mimetica di Ksenija, oltre la mimetica, oltre le imbottiture che a tratti modellavano e a tratti deformavano la reale forma del corpo.
Ksenija avvertì il peso di quello sguardo. Provò fastidio.
– Può mettersi comoda, kapitán.
Non un invito. Un ordine.
Ksenija tolse il parka windbreaker, sciogliendo i dubbi del colonnello sulla sua prorompente sensualità.
Gli occhi dell’ufficiale si strinsero ancora di più. Scanner a infrarossi. Analisi anatomica: seno, vita, fianchi, gambe… occhi. Gelidi come laghi montani. Imperturbabili. Imperscrutabili.
– Kapitán Ksenija Kurylenko, Spetsnaz. Berdjans’k, Ucraina, 14 novembre 1979. 175 centimetri per 63 chilogrammi – lesse. – Capelli castano scuro, occhi verdi… di ghiaccio, direi; carnagione tipo III: pelle chiara intermedia/scura europea. Addestramento commando/forze speciali massimo livello… mmm… Letale? – commentò ironico. – Ultimo impiego: Stati Uniti d’America, infiltrata forze di polizia, reparto SWAT, Special Weapons And Tactics, unità speciali di polizia destinate a compiti ad alto rischio. Dopodiché… il suo fascicolo ha un buco, un vuoto. Solo una velina… negabile. Combat SAR, Combat Search And Rescue, Ricerca e Soccorso in zona ostile.
Ksenija ascoltò in posizione marziale, in piedi davanti alla scrivania. A lato del dossier, il dispositivo di encrypted transmission che le era stato requisito all’arrivo. Ormai superfluo. Spetsnaz probabilmente aveva smesso di esistere. Come tutto il resto.
– Ricerca e Soccorso – ripeté il colonnello, quasi fra sé. – Alla ricerca di chi? O di cosa?
Domanda retorica. Fino a un certo punto.
– Incarico negabile.
– Non in questa sede. Non in queste circostanze.
– Negabile. Sempre.
Glushakov riportò la sedia in posizione perpendicolare al pavimento.