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Il bibliotecario di via Gorki: Un'altra indagine di Galeazzo Trebbi
Il bibliotecario di via Gorki: Un'altra indagine di Galeazzo Trebbi
Il bibliotecario di via Gorki: Un'altra indagine di Galeazzo Trebbi
E-book237 pagine3 ore

Il bibliotecario di via Gorki: Un'altra indagine di Galeazzo Trebbi

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Info su questo ebook

Davide Ciampi è un uomo tranquillo, laureato in storia, lavora come bibliotecario in via Gorki, quartiere Navile, ha due figli e una moglie commercialista che porta a casa i soldi e non ha una grande considerazione del marito. Davide ha un solo amico, e se ne rende conto solo quando scompare. Si tratta di un commerciante ambulante nordafricano che ha circa la sua età e vende la sua merce davanti alla Coop di via Gorki. Lui è il primo ad accorgersi che è sparito, quando ritrova la merce abbandonata davanti al supermercato. Nessuno sembra interessato alla scomparsa dell’uomo, solo Davide si preoccupa per lui e solo Trebbi deciderà di aiutarlo a svelare la verità con l’aiuto del commissario Guerra e dei suoi uomini. La verità, come al solito, si annida dietro le pieghe di una città sazia e annoiata, dove nulla è come appare e nessuno è davvero innocente, tranne Davide, che in questa vicenda perderà i suoi punti di riferimento e la sua vita non sarà più quella di un tranquillo bibliotecario di periferia.

Massimo Fagnoni. Cinquantott’otto anni, bolognese, laureato in Filosofia, ha lavorato a lungo nei servizi sociali e psichiatrici della sua città. Da quindici anni fa parte della Polizia Municipale di Bologna. Dalla collaborazione con le forze dell’ordine è nato il desiderio di narrare storie noir. È autore di: Bologna all’Inferno 2010, Giraldi editore; La ragazza del fiume 2010, 0111 edizioni; Belva di città 2010 Eclissi editore (primo romanzo della serie del maresciallo Greco che nel 2011, ha vinto il primo premio al concorso letterario «Lomellina in giallo»); Cielo d’agosto 2012 Eclissi editore (secondo romanzo della serie del maresciallo Greco); Solitario bolognese 2013, Giraldi editore; Lupi neri su Bologna 2013, Minerva Edizioni; Il silenzio della bassa 2014, Fratelli Frilli Editori; Vuoti a perdere 2015 Eclissi Editrice; Bologna non c’è più 2015 Fratelli Frilli Editori (primo premio al concorso letterario «I Sapori del giallo, poliziotti che scrivono»); Bolognesi per caso, racconti 2016 Giraldi Editore; Il giallo di Caserme Rosse 2016 Fratelli Frilli Editori; Il ghiaccio e la memoria 2017, Minerva Edizioni.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2017
ISBN9788869432385
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    Anteprima del libro

    Il bibliotecario di via Gorki - Massimo Fagnoni

    Uno

    1.

    Il ragazzino, di origini messicane, pedala grasso sulla piccola bicicletta acrobatica e disegna cerchi concentrici intorno al ciccione vestito di una tuta bianca, candida e pretestuosa. Il giovane spacciatore sta parlando al telefono cellulare, lecca nervosamente il piercing che spunta dal carnoso labbro inferiore, si intuisce la sua paura, sta guardando i due uomini in auto dall’altra parte della strada e chiede aiuto ad una segreteria telefonica, mentre intorno, nel quartiere periferico di un qualsiasi sobborgo americano è palpabile la desolazione silenziosa e vuota che precede l’ennesimo omicidio. L’uomo osserva l’auto dalla quale due ceffi minacciosi e muti a loro volta lo guardano, la grossa automatica che tiene infilata fra l’elastico della tuta acrilica e la ciccia della pancia non lo rassicura più, e lo sparo arriva come una liberazione, lui si gira voltando le spalle all’auto, e si ritrova ad osservare prima il buco nella pancia dal quale il sangue comincia a inzuppare la felpa bianca dopo avere trapassato mezzo litro di caffè contenuto nel solito bicchierone di plastica, poi guarda stupito il bambino che solo poco prima gli girava intorno con la bicicletta il quale con occhi spaventati gli punta contro una piccola pistola automatica, forse una Glock. L’uomo grasso lo guarda a bocca aperta, il bambino grasso lo osserva terrorizzato, forse sperava bastasse un proiettile a stenderlo ma dopo un istante di esitazione spara di nuovo e lo centra. Allora lo spacciatore si volta e cerca di fuggire, mentre la fine gli corre incontro; un ultimo proiettile lo colpisce alla schiena e l’uomo cade, il viso paffuto contro il cemento screpolato della strada, mentre il sangue esce copioso dalla bocca semiaperta, sembra un pesce rosso boccheggiante caduto fuori dalla sua boccia di vetro. L’auto parte in una direzione, il cucciolo assassino sulla bicicletta in un’altra e rimane solo una grande macchia bianca e rossa in mezzo alla strada deserta.

    Davide con il mouse interrompe la visione del telefilm, mentre la colonna sonora di Breaking Bad irrompe negli auricolari che indossa. Rimane con il fiato grosso e il battito accelerato a osservare il fermo immagine, sfondo verde e formule chimiche a muoversi come di consueto.

    Dovrei smettere di guardare questa serie, non mi fa bene, ma è una delle cose migliori che abbia visto da sempre, accidenti a Rosa che mi ha prima raccontato la trama, e tutto il resto e poi ha scaricato dalla rete la prima stagione e adesso mi sento proprio un coglione, quarantotto anni a spaventarmi per un telefilm americano che Aurora nemmeno vuole vedere, a lei fa schifo la storia del malato terminale professore di chimica che per assicurare un futuro alla famigliola diventa produttore e spacciatore di metanfetamina, ma a lei fa schifo quasi tutto ciò che piace a me, e questo è un dato di fatto, del resto siamo sposati da quanto? Vent’anni? Ma adesso cosa vado a pensare ... la cosa importante è che nessuno intuisca l’ansia, no dico… come sono messo? Vado in ansia per un telefilm dentro un computer. Davide si guarda intorno, nessuno bada a lui.

    Del resto alle sei di sera in biblioteca ci sono soprattutto studenti stanchi e annoiati e gli ultimi frequentatori, un libro in fretta e poi a casa. Il più bel lavoro del mondo, in mezzo ai libri, a questo profumo di carta sfogliata, polvere accumulata e tutto ciò che mi piace di più, i DVD con i film, i CD con la musica e tutto gratis, anzi mi pagano per fare il bibliotecario, non sarà un gran stipendio, ma a questo punto non lo cambierei. Peccato che lo pensi solo io, Aurora non più, una volta mi amava, gli occhialini leggeri, la laurea in storia, la conoscenza di Bologna, la delicatezza delle mie mani, sussurrava porcate la commercialista sul sedile posteriore della Ritmo di mio padre, ricca, famiglia di commercialisti, gente spiccia, non perde tempo a leggere narrativa o a guardare un bel film o una fiction come questa, e io cosa ci trovavo in lei? Sicuramente la prima cosa era, ed è rimasta, la bellezza; assomigliava a Olivia Newton-John del periodo Grease, una testa di capelli biondi che avrei potuto perdermi dentro, occhi grandi, verdi e luminosi, le labbra morbide e sorridenti. Mentre mi baciava mi raccontava che avrebbe voluto fare filosofia, ma alla fine ha dovuto rassegnarsi a seguire le orme della madre, quella puttana maledetta, l’anima venduta a una finanziaria, avida e arida come un usuraio, ma io l’amavo perché lei aveva scelto me, mi aveva imposto ai suoi, ai fratelli bancari, al suo mondo borghese e produttivo e io sono sempre stato Davide Ciampi, il toscano, bibliotecario, storico e brav’uomo. Dio che schifo mi faccio a volte, già immagino la scritta sulla mia tomba, anzi nella cripta di famiglia, la sua famiglia, la famiglia Filopanti, era un brav’uomo, uno buono, un topo di biblioteca e magari fra le righe un bel commento in dialetto bon bon... bon da gninta.

    «Allora che ne dici?» Rosa lo guarda, piccola, gli occhi appena strabici e i capelli crespi, un metro e quarantacinque di bruttezza autentica, non mimetizzata da tentativi di trucco o abbigliamento alla moda; lei vive per la biblioteca, per tutto ciò che è arte, musica, cinema, teatro. Abita da sola nell’appartamento ereditato dalla madre, un bilocale Acer e Davide è convinto che sia una delle persone più serene sulla faccia della terra, perché è davvero libera di fare ciò che vuole, anche perché ciò che vuole è quasi tutto alla sua portata.

    «Mi fa morire, mi piacerebbe chiederti come va a finire, ma devo resistere. Però è da infarto, non c’è tregua, non sai mai come si concluderà la puntata».

    Rosa sorride, mostrando denti irregolari, gli occhi marroni grandi si allargano soddisfatti.

    «Sapevo che ti avrebbe emozionato».

    Davide annuisce serio.

    «L’unica cosa seccante è guardarsi le puntate da solo, sono un po’ ansiogene».

    «Se vuoi le posso rivedere con te, non mi stancherei mai di guardarle».

    Davide ci pensa un attimo.

    «No, a fine turno devo tornare a casa, ci sono le commissioni da fare, con l’orario flessibile mi occupo della spesa, delle pulizie e insomma… lo sai».

    Rosa sorride.

    «Come no, sei da sposare… accidenti, purtroppo hai già dato».

    Davide fa spallucce è un loro tormentone, gli piace davvero Rosa, come persona, come collega, come amica, ma è inguardabile e lo sa, scruta l’ora appesa davanti a lui dentro un grande orologio Ikea metallo e plastica e a malincuore estrae la chiavetta usb dal computer, si stira allungando le grandi mani dietro e si stropiccia gli occhi sollevando appena la montatura leggera, titanio e lenti ultrasottili, regalatagli per il compleanno da sua moglie.

    Non ti lamentare, pensa mentre riordina la scrivania, "fai una bella vita, hai il lavoro che volevi, hai una moglie bellissima, stronza certo, ma non si può avere tutto. Hai due figli belli, arroganti e arrivisti, come la madre, ma li hai fatti tu, hai contribuito a concepirli, li hai cresciuti, gli hai cambiato pannolini merdosi e sfamati con litri di latte artificiale e forse è per questo motivo che sembrano tanto sintetici, così tanto da non sembrare nemmeno tuoi".

    Saluta Ambra la direttrice della biblioteca, piccola anch’essa e sempre allegra, occhi chiari e viso pulito di rughe sottili. Davide pensa, mentre scende le scale metalliche che lo conducono verso il parcheggio, perché non abbia sposato una donna come lei, piccola, dolce, accogliente e solare, e in quella riflessione suona il cellulare; la musica di Psycho lo fa sobbalzare. Sul display dell’iPhone 6, altro regalo della consorte, appare l’immagine di lei, una fotografia che lui le ha fatto in Liguria in una giornata di vento; lei sorride guardando il mare e sembra quasi umana, sembra quasi innamorata, ma Davide sa che è una posa, lei è sempre impostata come in uno spot pubblicitario, adesso sta vivendo il periodo della quarantenne scatenata, tonica, allenata e sempre a mille, Davide ogni tanto la notte stenta ad addormentarsi preda di improvvise crisi d’ansia all’idea dell’inevitabile crisi dei cinquant’anni, e spera in cuor suo che Aurora sappia inventarsi per quel momento un nuovo personaggio, ma sa che la menopausa sarà per lei il momento della verità e anche per lui, e ogni tanto nel dormiveglia immagina una fuga, ma i suoi progetti sono come i sogni ad occhi aperti dei bambini, perché ci vuole coraggio per uscire dalla gabbia dorata, coraggio e vera disperazione.

    «Aurora… sto uscendo ora dal lavoro».

    «Ti sei fermato a flirtare con quella cessa di Rosa, confessa, conosco il tuo cattivo gusto».

    «Se avessi tanto cattivo gusto non ti avrei sposata».

    Una risata secca, sgraziata, rimbalza nelle orecchie di Davide, gli sembra di sentirsela dentro il cranio, in esplorazione.

    «Io sono un errore di percorso, ma la tua passione insana rimane per le brutte donne, quelle tristi; esperimenti femminili malriusciti e, ammettilo, in fondo rimani un inguaribile comunista, sentimentale e umido come il muso di un cane».

    «Al di là della quotidiana dose di sarcasmo immagino tu volessi qualcosa?».

    «Farò tardi, come al solito, passi dalla Coop di fianco alla biblioteca o dove vuoi e prendi qualcosa di pronto per i ragazzi che stasera si fermano a cena… per favore?».

    «Certo… amore, sarà fatto».

    Davide si dirige a passi lunghi e veloci verso la vicina Coop di via Gorki, è caldo per essere quasi inverno, dieci giorni a Natale, un languore nuovo si insinua sotto il cappotto blu corto, una specie di sentimento ritrovato, a quasi cinquant’anni sta riscoprendo il natale, quello delle luci, dei presepi e degli alberi agghindati e sicuramente la causa è da ricercare nelle frequenti visite guidate di classi di diverse scuole presso la biblioteca che ha un ampio spazio per recite e gruppi numerosi. Ha visto sfilare bambini festosi e rumorosi, insegnanti giovani e vecchie, genitori di scorta, tutti concentrati sull’organizzazione di feste natalizie, studi sulla natività, sulle tradizioni e si è fatto contagiare dall’atmosfera. Davanti all’ingresso della Coop, di fianco alla macchina che eroga per pochi centesimi acqua naturale o gassata, c’è il suo amico Alì, un commerciante tunisino quarantenne, in Italia da venti anni, uno dei primi migranti. Non ha mai rinnegato le sue origini, ma gli piace vivere a Bologna. Sua moglie lavora come collaboratrice scolastica in una scuola elementare del quartiere, due figli: uno sedicenne studia alle Fioravanti, istituto professionale, e un bambino di nove anni che frequenta la stessa scuola dove lavora la madre in via Giulio Verne. Alì sembra più vecchio di Davide e sicuramente più saggio pensa lui mentre si ferma davanti al suo banchetto ricoperto di accendini, ombrelli, borse di cuoio cinese, portafogli e merce simile.

    «Ciao professore cosa mi racconti?».

    Davide sorride, Alì è l’unico a chiamarlo in quel modo, da quando ha saputo della sua laurea in storia; sa che non ha insegnato un giorno in vita sua, ma ammira uno studioso di storia, perché secondo lui non esiste materia più importante.

    «Tutto bene, vado a comprare alcune cose e poi a casa». Alì sorride, ha un viso lungo, scuro, rugoso e due occhi marroni quieti.

    «Tua moglie ti ha dettato la lista della spesa?».

    Davide alza le spalle.

    «Lo sai lavora fino a tardi, è lei che porta i soldi a casa, e mi sa che anche a casa tua quella che guadagna è Fatima».

    Alì annuisce.

    «È vero, guadagna uno stipendio, fa la spesa, cura la casa, è lei la padrona e quella che manda avanti la baracca».

    Davide scoppia a ridere.

    «Hai visto un bel mondo Alì, non solo guadagna più di te ma fa anche tutto il resto, se torno a nascere voglio essere musulmano, altroché».

    «Io in realtà mi occupo dell’educazione dei figli, li aiuto nei compiti, li tengo fuori dai guai, poi non è questione di essere musulmani, Fatima mi rispetta, riconosce il capofamiglia, ma a casa tua mi sembra che le cose funzionino diversamente, o ricordo male?».

    «Mi sa che devo smettere di usarti come muro del pianto» sospira Davide.

    «Ognuno di noi ha bisogno di amici con i quali confidarsi e con me i tuoi piccoli problemi sono al sicuro, lo sai che puoi fidarti».

    Davide annuisce, un mezzo sorriso sulle labbra sottili.

    «Mi dai uno di quegli accendini da cucina, per favore?».

    Alì scoppia a ridere.

    «Vuoi comprare il mio silenzio, confessa».

    «Esatto, un triste tentativo di corruzione».

    Davide infila nella borsa di cuoio che porta a tracolla il lungo accendino incartato in un pezzo di giornale, saluta con un gesto Alì ed entra nel negozio.

    2.

    Trebbi è seduto nella camera morbida dedicata agli incontri genitori pazienti del centro residenziale dove vive da alcuni anni sua figlia Irene. Si è tolto le scarpe, è in tuta e nel complesso si sente abbastanza ridicolo e inutile, la schiena rigida di muscoli mai sufficientemente rilassati poggia contro la parete rosa della camera, intorno a lui cuscinoni morbidi anni Settanta, giocattoli da incastro, enormi costruzioni che i pazienti usano per i loro giochi insieme agli educatori, e tappeti sui quali stendersi quando vogliono riposarsi dalla fatica di vivere ventiquattro ore al giorno in un’altra dimensione. Trebbi guarda Irene e la trova magra, remota, però ha un bel colorito, sicuramente migliore del suo. "Potrebbe vivere in eterno", si ritrova a pensare, "vita sana, alimentazione controllata, niente fumo, niente alcol, niente sesso, niente stress, in realtà niente di niente, se non ore e ore a giocare con oggetti, magari senza nemmeno esserne cosciente, una bambina di due anni imprigionata nel corpo di una donna di quasi trenta", sbuffa al silenziatore Trebbi, e Irene lo guarda con un sorriso ebete sulle labbra tumide e morbide.

    Che peccato che nessuno possa baciare quelle labbra, e che tu non possa imparare ad amare qualche essere umano, ma in fondo… là fuori fa tutto abbastanza schifo, e chissà chi mi avresti portato a casa con la tua testa matta; magari un extracomunitario, ma non come Faid, uno di quelli stronzi, mangia cristiani, con il Kalashnikov nel bagagliaio, o un medico senza frontiere, un anarchico individualista, o un No Tav o uno scarabocchiatore di muri brufoloso e puzzolente, difficilmente una persona normale. Poi saresti cambiata lo so, il giorno della laurea in legge in via Zamboni avrei indossato il vestito buono, quello del matrimonio, e come un cretino con le mani tremanti e la lacrima facile mi sarei seduto a guardare te in piedi con la faccia morbida di tua madre e gli occhi duri da partigiana a tenere testa a qualche vecchio coglione, raccontandogli la tua versione del diritto con una tesi su qualche argomento di moda, che ne so diritto internazionale, saresti uscita a testa alta e saremmo andati a festeggiare in collina io te e forse un fidanzato che avrei finito per accettare solo per amor tuo….

    Irene molla i due cubi di plastica colorata che sta maneggiando, li lascia cadere sul tappeto morbido e con la testa inclinata guarda suo padre, occhi chiari, puliti, asciutti, sembra in procinto di dirgli qualcosa. Trebbi interrompe il pensiero, si perde nello sguardo della figlia, poi un sottile filo di saliva fa capolino dalle labbra socchiuse di Irene, scivola lentamente verso il mento e l’incanto si dissolve. Trebbi asciuga la saliva con un fazzoletto di carta, accarezza quella pelle liscia, vellutata, pelle di bambina pensa. Poi afferra una di quelle forme colorate, enormi mattoncini lego che i pazienti usano per comporre architetture irrealizzabili o semplicemente per disporle nello spazio, o per annusarle o metterle in bocca bagnandole di saliva; lui si limita a girarsela fra le mani mostrandola a Irene che continua a guardarlo con occhi grandi e vuoti e Trebbi rimane in quella porzione di spazio a chiedersi come sia possibile fare l’educatore o semplicemente condividere uno spazio con una qualsiasi Irene e inventarsi un senso in assenza totale di condivisione, di comunicazione, di empatia, mentre Carmela, la coordinatrice del centro, continua a ripetergli che Irene ha bisogno delle sue visite settimanali e che un giorno magari, riuscirà a riconoscerlo, o comunque a riconoscergli un ruolo nella sua vita attuale. Trebbi vorrebbe molto crederle, e la fiducia che ripone in Carmela è condizionata dai capelli ricci e neri della giovane educatrice, giovane per lui perché deve avere almeno trent’anni, dai denti bianchi e forti, dalla pelle olivastra di donna del sud e dagli occhi neri, grandi, allegri, di persona che riesce a muoversi in un universo disgraziato come se fosse sempre in buona compagnia, e forse sta bene lei fra traumatizzati, pazzi scatenati e autistici, sempre meglio dei normali sospira Trebbi, si alza a fatica dalla sua posizione primitiva, accarezza un’ultima volta Irene e decide che la sua ora settimanale di padre educatore è conclusa. Deve trovarsi al più presto un qualsiasi caso da seguire, fosse solo la scomparsa di un cane, perché l’inattività cerebrale lo sfianca e lo costringe a riflettere sulla sua vita, sulle macerie della sua famiglia e certi pensieri non gli fanno bene, lo sa.

    3.

    La cucina è illuminata, luci calde e alogene, dalla vetrata affacciata sulla campagna circostante di giorno si scorge la chiusa del canale Navile a Corticella situata in via delle Fonti, Davide nelle giornate d’estate trascorre ore all’ombra di un salice seduto su uno sdraietto di plastica che si porta da casa, legge

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