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Biagio e Gianni l'usuraio. Il bene e il male a Scampia
Biagio e Gianni l'usuraio. Il bene e il male a Scampia
Biagio e Gianni l'usuraio. Il bene e il male a Scampia
E-book138 pagine1 ora

Biagio e Gianni l'usuraio. Il bene e il male a Scampia

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Biagio è un uomo onesto e generoso, tradito dalla moglie Clementina, che lavora in un supermercato del centro di Napoli. Gianni l’usuraio è un benzinaio di Aversa che ha stretti contatti con clan di camorristi di Scampia. Sono due simboli di una complessa realtà, quella di Scampia, dove coesistono il bene e il male, dove talvolta a causa dell’assenza dello Stato prevale il male.

Biagio sospetta che la moglie Clementina gli nasconda la verità su un furto avvenuto al supermercato dove lei lavora. Decide di controllarla. Scoprirà in seguito che il furto è stato organizzato da Bruno Menna, direttore del supermercato, con la complicità di Clementina che ne è diventata l’amante.

L’investigatore privato, detto “papillon”, ha una figlia con un grave tumore al cervello, da fare operare in un ospedale di Marsiglia. Ha bisogno di soldi, si rivolge al benzinaio usuraio Gianni Ruminale. In cambio si offre di fare da corriere per portare la droga agli spacciatori di alcuni comuni della periferia di Napoli.
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2020
ISBN9788831652841
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    Anteprima del libro

    Biagio e Gianni l'usuraio. Il bene e il male a Scampia - Gennaro Sorrentino

    Fran­ce­sco)

    Capitolo 1

    Biagio sospetta della moglie e si fa investigatore.

    Bia­gio per­cor­re con la sua au­to, tra l’in­cer­to chia­ro­re del­le pri­me lu­ci dell’al­ba, la stra­da di un pae­si­no del­la pro­vin­cia di Ca­ser­ta, do­ve la­vo­ra in una fab­bri­ca di scar­pe e bor­se co­me rap­pre­sen­tan­te ester­no. E’ ad­det­to a vi­si­ta­re i ne­go­zian­ti a cui pro­por­re nuo­vi cam­pio­na­ri.

    Lun­go il per­cor­so, da­van­ti ai suoi oc­chi si av­vi­ci­na­no e si con­fon­do­no due fi­la­ri di al­be­ri, so­vra­sta­ti a de­stra e a si­ni­stra da li­nee in­ter­mi­na­bi­li di lam­pio­ni, che sem­bra­no ga­reg­gia­re nel­la cor­sa tra­sci­nan­do­si die­tro la stra­da. At­tra­ver­so l’in­trec­cio de­gli ol­mi e de­gli abe­ti scor­ge dal pa­ra­brez­za la fi­la gib­bo­sa del­le ca­se an­co­ra ad­dormen­ta­te. 

    La gior­na­ta si pre­an­nun­cia piut­to­sto gri­gia; il cie­lo si ac­ci­glia, co­me fa d’au­tun­no.

    Il fra­go­re as­sor­dan­te di una mo­to­ci­clet­ta, che lo sor­pas­sa ve­lo­ce co­me un raz­zo, lo scuo­te a tra­di­men­to.

    Do­po al­cu­ni se­con­di egli av­vi­sta di lon­ta­no un in­vo­lu­cro vo­la­re da quel bo­li­de e bal­lon­zo­la­re sul sel­cia­to, pun­tan­do sul ci­glio de­stro del­la stra­da. In­cu­rio­si­to, fer­ma l’au­to. Scen­de, cer­ca tra i ce­spu­gli. Scor­ge una bor­set­ta ne­ra e gon­fia. E’ ti­tu­ban­te. Che fac­cio, la pren­do? E se con­tie­ne un’ar­ma, una bom­ba? Per­ché ri­schia­re? E poi, è si­cu­ro che quel cen­tau­ro non sia un de­lin­quen­te che ora sta tor­nan­do in­die­tro per re­cu­pe­rar­la? pen­sa en­tran­do in ap­pren­sio­ne.

    An­che se ama po­co il ri­schio, pos­sie­de una buo­na do­se di per­vi­ca­cia. De­ci­de di con­trol­la­re. Si guar­da at­tor­no e con mol­ta pru­den­za la ta­sta. Non con­tie­ne og­get­ti di fer­ro; esclu­de che ci sia­no ar­mi. L’apre quel tan­to che gli per­met­te di ve­de­re mol­ti pac­chet­ti di ban­co­no­te. Sal­ta in mac­chi­na e si av­via ve­lo­ce, la bor­set­ta lan­cia­ta sul se­di­le po­ste­rio­re, cer­can­do di far per­de­re le trac­ce all’igna­ro mo­to­ci­cli­sta, che sen­te co­me un’om­bra al­le cal­ca­gna.

    Svol­ta a de­stra, sen­za una me­ta. Si fer­ma do­po un pa­io di chi­lo­me­tri, en­tra in un pic­co­lo bar, do­ve un grup­pet­to di uo­mi­ni di co­lo­re di­scu­to­no nel­la lo­ro lin­gua d’ori­gi­ne, in at­te­sa del ca­po­ra­le di tur­no che li rag­giun­ge­rà di lì a po­co per uti­liz­zar­li nel­la rac­col­ta del po­mo­do­ro in cam­pa­gna. Chie­de un caf­fè. Lo sor­seg­gia, qua­si a vo­ler pren­de­re tem­po, an­che se è an­sio­so di scap­pa­re.

          Men­tre la cit­tà a po­co a po­co co­min­cia a sve­gliar­si, si avvia ver­so il ca­sel­lo dell’au­to­stra­da per Na­po­li. Lo rag­giun­ge; do­po po­chi chi­lo­me­tri im­boc­ca la Tan­gen­zia­le, che la­scia al ca­sel­lo di Fuo­ri­grot­ta. Poi in un fre­ne­ti­co die­tro­front at­tra­ver­sa le stra­de del­la cit­tà di Na­po­li e si di­ri­ge a Scam­pia, do­ve abi­ta.

    Bia­gio è uno de­gli abi­tan­ti di quei par­chi pri­va­ti, chiu­si co­me in for­ti­ni, che cer­ca­no ri­pa­ro dall’as­sal­to dei ma­la­vi­to­si che con­trol­la­no un ter­ri­to­rio tri­ste per le sue fa­mi­ge­ra­te Ve­le, fa­mo­se in tut­to il mon­do per lo spac­cio di dro­ga.

    En­tra in ca­sa. Il la­vo­ro di­ven­ta l’ul­ti­mo dei suoi pen­sie­ri. Lo pren­de la per­ce­zio­ne che quel­lo che gli sta ca­pi­tan­do sia qual­co­sa di gros­so. I due fi­gli so­no a scuo­la, la mo­glie al la­vo­ro in un su­per­mer­ca­to si­tua­to nel cen­tro di Na­po­li, a po­chi chi­lo­me­tri dal­la sua abi­ta­zio­ne. Si av­via a pas­so svel­to in fon­do al cor­ri­do­io. Di­men­ti­co di es­se­re so­lo, si chiu­de a chia­ve in una stan­za an­gu­sta si­mi­le a un bu­gi­gat­to­lo, zep­pa di vec­chie co­se li­se. Apre la bor­set­ta, ne estrae il con­te­nu­to: tan­ti pac­chet­ti di ban­co­no­te da cin­quan­ta e cen­to eu­ro, chiu­si cia­scu­no da un ela­sti­co, una pic­co­la agen­da e un fo­gliet­to di car­ta spie­gaz­za­to. In­fi­la l’agen­da e il fo­gliet­to in una bu­sti­na di pla­sti­ca e por­ta il de­na­ro in cu­ci­na. Li­be­ra i pac­chet­ti da­gli ela­sti­ci. Le ban­co­no­te si sro­to­la­no e si di­sten­do­no sul ta­vo­lo co­me li­be­ra­te dall’op­pres­sio­ne di uno stret­to guin­za­glio. A quel­la vi­sta pro­va un’eb­brez­za che gli pro­cu­ra un sen­so di leg­ge­ro man­ca­men­to. Si sie­de, ac­ca­rez­za qual­che ban­cono­ta. Le con­ta.   

    Un mi­lio­ne di eu­ro! Una som­ma da ca­po­gi­ro, que­sta è una ve­ra for­tu­na si di­ce sot­to­vo­ce. Si­ste­ma le ban­co­no­te a roc­chet­to e le na­scon­de nel bu­gi­gat­to­lo, die­tro una va­li­gia ada­gia­ta sul­lo scom­par­to più al­to di un ar­ma­diet­to di fer­ro ap­pog­gia­to a una pa­re­te..

          Bia­gio Lo­si­to ap­pa­re più vec­chio del­la sua età per via di una pre­ma­tu­ra cal­vi­zie che gli ar­ri­va al­la nu­ca con an­go­li aguz­zi. Ha su­perato da po­co i qua­rant’an­ni, al­to, na­su­to, fal­so ma­gro, bril­la­no sul suo vi­so co­lo­ri­to due oc­chi mi­ti, di un ma­lin­co­ni­co co­lor lil­là, che sem­bra­no lo spec­chio di un ani­mo pa­ci­fi­co. In real­tà die­tro que­gli oc­chi si na­scon­de il suo ca­rat­te­re om­bro­so. Ha l’hob­by del mo­del­li­smo na­va­le, che rap­pre­sen­ta la sua val­vo­la di sfo­go per vin­ce­re lo stress. Il suo la­vo­ro lo co­strin­ge tut­ti i gior­ni a di­me­nar­si in un traf­fi­co cao­ti­co e al­la spa­smo­di­ca ri­cer­ca di un par­cheg­gio. Si de­di­ca con pas­sio­ne, qua­si sem­pre di not­te, al­la ri­pro­du­zio­ne di na­vi an­ti­che e mo­der­ne, cu­ra­te in ogni det­ta­glio. La rea­liz­za­zio­ne di mo­del­li­ni ri­chie­de pa­zien­za, mi­nu­zio­si­tà e de­di­zio­ne. Do­po qual­che an­no de­ci­de, an­zi, di fa­re di que­sto hob­by un’at­ti­vi­tà ve­ra e pro­pria, ven­den­do i suoi pro­dot­ti con la par­te­ci­pa­zio­ne a mo­stre al­le­sti­te in va­rie par­ti d’Ita­lia.

    Quel gior­no non esce di ca­sa, aspet­ta con tre­pi­da­zio­ne il rien­tro del­la mo­glie dal la­vo­ro nel po­me­rig­gio. Vuo­le pro­get­ta­re con lei l’uti­liz­zo di quel te­so­ro pio­vu­to­gli dal cie­lo.

    E’ po­me­rig­gio inol­tra­to, di lei nes­su­na no­ti­zia. Non rie­sce a rag­giun­ger­la sul cel­lu­la­re. Sem­pre oc­cu­pa­to. Un ri­tar­do in­spie­ga­bi­le, non è mai suc­ces­so pri­ma. Poi gli giun­ge la te­le­fo­na­ta di un agen­te di po­li­zia di Sta­to, che lo in­vi­ta a re­car­si pres­so il Com­mis­sa­ria­to di po­li­zia di Scam­pia. Bia­gio pen­sa al de­na­ro del cen­tau­ro, sen­te il bat­ti­to del cuo­re sa­lir­gli in go­la, far­fu­glia qual­che pa­ro­la. L’agen­te cer­ca di tran­quil­liz­zar­lo, lo in­for­ma che si trat­ta di sua mo­glie, fer­ma­ta per­ché pri­va di pa­tente di gui­da. 

    Non cre­de al­le pa­ro­le del po­li­ziot­to, pen­sa a una trap­po­la, vor­reb­be re­sti­tui­re il mal­lop­po. Lo pren­de. Ci ri­pen­sa. Lo ri­met­te a po­sto. Rac­co­man­da i due fi­gli di non apri­re la por­ta di ca­sa a nes­su­no e per nes­sun mo­ti­vo. Si di­ri­ge al Com­mis­sa­ria­to.

    L’agen­te di pian­to­ne lo fa ac­co­mo­da­re nel­la sa­la d’at­te­sa. Ap­pog­gia­ta al­la pa­re­te una pan­chi­na per tre per­so­ne, due se­die al­la pa­re­te op­po­sta, un gran­de po­ster ap­pe­so di fron­te raf­fi­gu­ran­te po­li­ziot­ti in mo­to­ci­clet­ta. Nel­la stan­za sie­de un uo­mo dal­la gros­sa cor­po­ra­tu­ra, gon­fio di gras­so che gli ri­ca­de da tut­te le par­ti, ca­pel­li briz­zo­la­ti, zi­go­mi lar­ghi e una lun­ga ci­ca­tri­ce sul­la guan­cia si­ni­stra. Un in­di­vi­duo che dif­fi­cil­men­te si di­men­ti­ca. Co­stui vie­ne in­vi­ta­to a pre­sen­tar­si dal ma­re­scial­lo. Esce do­po po­chi mi­nu­ti.

          E’ il tur­no di Bia­gio. Il ma­re­scial­lo, un ti­po sbri­ga­ti­vo, avan­ti ne­gli an­ni, in pro­cin­to di an­da­re in pen­sio­ne di lì a qual­che set­ti­ma­na, gli ri­vol­ge al­cu­ne do­man­de.

    Sig. Lo­si­to, lei co­no­sce il sig. La­mo­ni­ca An­drea? gli chie­de a bru­cia­pe­lo con la sua vo­ce pro­fon­da e rude. 

    No, mai vi­sto né sen­ti­to.

    Ne è si­cu­ro? Cer­chi di ri­cor­da­re.

    Glie­lo ri­pe­to, mai co­no­sciu­to. Per­ché mi fa que­sta do­man­da? Che c'en­tro io con que­sta per­so­na?.

    Noi stia­mo svol­gen­do del­le in­da­gi­ni e pen­sia­mo che lei pos­sa dar­ci un aiu­to.

    Mi scu­si, se non mi sba­glio so­no sta­to con­vo­ca­to per via di mia mo­glie, tro­va­ta sprov­vi­sta di pa­ten­te di gui­da.

    Sì, la sua si­gno­ra gui­da­va sen­za ave­re con sé la pa­ten­te di gui­da, ma non si trat­ta so­lo di que­sto. Noi l’ab­bia­mo fer­ma­ta per una se­gna­la­zio­ne per­ve­nu­ta­ci dal cen­tro com­mer­cia­le, ci ha te­le­fo­na­to una guar­dia giu­ra­ta del su­per­mer­ca­to do­ve la­vo­ra, av­ver­ten­do­ci che c’è sta­to il fur­to di una gros­sa som­ma di de­na­ro, av­ve­nu­to sen­za scas­so ed ef­fra­zio­ne. La cas­sa­for­te è sta­ta aper­ta con la chia­ve, da­ta in cu­sto­dia a sua mo­glie, l’uni­ca per­so­na tra i di­pen­den­ti con­se­gna­ta­ria di una co­pia.

    Mia mo­glie è una per­so­na per­be­ne, la­vo­ra in que­gli uf­fi­ci da ol­tre die­ci an­ni, è sti­ma­ta e ap­prez­za­ta da tut­ti. Voi sie­te fuo­ri stra­da sbot­ta.

    Egre­gio si­gno­re, ci la­sci fa­re il no­stro me­stie­re. Sua mo­glie è as­si­sti­ta dal suo av­vo­ca­to di fi­du­cia. Non si pre­oc­cu­pi. E’ tut­to in re­go­la.

    L’av­vo­ca­to di fi­du­cia? E chi è que­sto av­vo­ca­to? Voi ave­te pro­prio sba­glia­to per­so­na. E poi, le pa­re che mia mo­glie non mi avreb­be te­le­fo­na­to, tro­van­do­si in que­sto pa­stic­cio?.

    Que­sto non lo de­ve chie­de­re a noi. Le fac­cio di nuo­vo la do­man­da, sig. Lo­si­to. Co­no­sce il sig. La­mo­ni­ca An­drea?. Bia­gio  vor­reb­be met­ter­si a urlare.

    E dà­gli con que­sto La­mo­ni­ca! Io non lo co­no­sco, non ho mai sen­ti­to nep­pu­re il suo no­me. In­som­ma, dov’è mia mo­glie ades­so? Pos­so sa­per­lo?.

    E’ an­da­ta via da po­co, in­sie­me all’av­vo­ca­to.

    E’ an­da­ta via? E dov’è an­da­ta?  fra­stor­na­to da quell’even­to, ar­ri­va­to­gli tra ca­po e col­lo co­me un ci­clo­ne, Biagio co­min­cia a per­de­re il con­trol­lo di sé.

    Si cal­mi, si­gno­re, cer­chia­mo di ra­gio­na­re. Ve­de, nell’au­to di sua mo­glie è sta­to tro­va­to un fo­glio con su scrit­to il nu­me­ro di te­le­fo­no di un mem­bro di una pe­ri­co­lo­sa ban­da cri­mi­na­le. Di La­mo­ni­ca An­drea, ap­pun­to. Sua mo­glie af­fer­ma di non co­no­scer­lo, di non aver mai vi­sto quel fo­glio. Ri­fe­ri­sce, inol­tre, che la stes­sa au­to è sta­ta usa­ta an­che da lei nel­la gior­na­ta di ie­ri. Ri­cor­da di aver­lo vi­sto, que­sto fo­glio? gli do­man­da mo­stran­do­glie­lo.

    No, al­tri­men­ti mi ri­cor­de­rei. Il fo­glio non è mio, nem­me­no la gra­fia è mia.

    Non lo met­tia­mo in dub­bio, ma si ri­cor­da di aver­lo vi­sto sul se­di­le po­ste­rio­re dell’au­to?

    "Può an­che dar­si che era sul se­di­le, io co­mun­que non

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