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Il canto del cigno
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E-book234 pagine3 ore

Il canto del cigno

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Info su questo ebook

Andreas Fanner, trentino di nascita e romano di adozione, è un informatico di fama internazionale, titolare di un software innovativo ed estremamente versatile, per la gestione dei flussi monetari delle banche. Poiché oltre alla vendita continua con il servizio di assistenza e di aggiornamento, viaggia molto spesso. Quasi per caso, si accorge di essersi trovato nella stessa città di quattro eventi delittuosi accaduti sempre il cinque del mese, sempre di martedì: una coincidenza? Una forse, ma quattro? Una situazione ai limiti del surreale, così per tacitare dubbi e timori, Andreas decide di rivolgersi al suo compagno di università, Marco Rambaldi, vicequestore a Roma.
In via ufficiosa Rambaldi contatta i colleghi che si sono occupati dei decessi avvenuti fuori dalla sua giurisdizione – Amalfi, Firenze e Bologna – e avoca a sé l’omicidio di un attore di teatro, il primo della lista che gli fornisce Andreas. Cosa si nasconde dietro questa catena di omicidi all’apparenza scollegati? E perché avvengono sempre nella stessa data?
Un interessante giallo, montato come un grande affresco, con i vari pezzi a incastro. Una trama fitta di eventi e di personaggi, dove l’indagine per omicidio si trasforma in una inquietante e affascinante indagine nelle menti e nei cuori dei protagonisti.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2020
ISBN9788832926361
Il canto del cigno

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    Anteprima del libro

    Il canto del cigno - Barbara Scattini

    poliziesco.

    1

    Roma, martedì 5 aprile 2016

    Il sipario di broccato rosso del piccolo teatro nei pressi di piazza San Pietro si chiuse, accompagnato da uno scroscio di applausi che sembrava non volesse finire mai. Lo spettacolo aveva fatto il pieno.

    Complimenti Mario, anche stasera grande successo!

    Dietro le quinte il tecnico delle luci si complimentò con il regista e attore protagonista.

    Mario Strozzi, di giorno era un operaio in una industria di scatolami ma, di sera, si trasformava in un attore di teatro piuttosto bravo. Le sue rappresentazioni, tratte dai classici della letteratura, facevano sempre centro. Trappola per topi era una delle sue produzioni più riuscite. Aveva la caratteristica, essenziale per ogni attore, di riuscire a catalizzare su di sé l’attenzione del pubblico. Quando entrava in scena l’effetto era quello di una calamita, effetto che durava per tutto lo spettacolo. Non lasciava spazio a distrazioni o commenti, l’attrazione era totale: una forma di ipnosi surreale che trascinava lo spettatore su quel palco, lo faceva interagire con gli attori e con la scenografia lasciandolo andare solo al termine dell’ultimo atto. Assistere ai suoi spettacoli era come fare un salto in un quando e in un dove lontani, che diventavano, come per incanto, un adesso e un qui. Avrebbe potuto diventare qualcuno, in molti, spesso, lo avevano ripetuto, ma è quello che si dice quando si vuole elogiare una capacità, sottolineando però l’incapacità o l’impossibilità di averla sfruttata fino in fondo. Mario lo sapeva bene. Essere in gamba è abbastanza comune e non sempre è il passaporto per la riuscita. Tanti sono i fattori che ti possono condurre all’affermazione, al successo, come viene comunemente definito, e la bravura non è necessariamente uno di quelli. La sua vita era stata deludente. Aveva perso entrambi i genitori troppo presto e non aveva mai trovato qualcuno con cui condividere le sue emozioni, le sue preoccupazioni, le gioie, il dolore. Aveva sempre accettato di buon grado quello che era stato già scritto: un copione banale, come quello di tanti altri. Così, un giorno, aveva deciso che forse avrebbe potuto vivere la vita di altri più o meno fortunati di lui, avrebbe potuto, anche solo per due ore, essere qualsiasi persona avesse voluto, avrebbe potuto assaporare il potere del sogno, dell’illusione.

    Accadde una sera di quindici anni prima. Durante la sua consueta passeggiata serale, dopo il lavoro, si era imbattuto in un cartellone che pubblicizzava uno spettacolo teatrale al Piccolo Teatro Romano vicino a piazza San Pietro. L’immagine di un uomo così cupa su uno sfondo altrettanto scuro lo aveva turbato. E incuriosito. Amleto. Shakespeare. Il principe sfortunato. Orfano reale di padre e orfano forzato di madre. Come lui. Un principe senza corona, senza regno, senza futuro, perso nell’oblio. Era pietrificato. Rimase per un po’ immobile sul marciapiede, risucchiato in un vortice di pensieri, di paure, di solitudini. Il suono di un clacson, poi, lo aveva svegliato all’improvviso. Una goccia di sudore stava attraversando i solchi della sua fronte così profondi per un uomo, tutto sommato, ancora giovane: segni indelebili di anni trascorsi tra fratture insanabili. Si mosse come un automa. Il suo corpo non gli rispondeva più. Una forza si era impadronita di lui. Camminava con passo incalzante, incrociando volti apparentemente tutti uguali, anonimi. Riusciva a vedere solo l’immagine inquietante di quel ragazzo tradito, imprigionato tra le mura di un castello di dolori là, nella lontana Danimarca.

    Un biglietto, grazie.

    Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il portafoglio. Era entrato in platea, si era seduto. Tutto senza rendersi veramente conto di quello che stava facendo. Le luci si abbassarono. Lo spettacolo aveva inizio.

    Quando infilò la chiave nella toppa il rumore della serratura riecheggiò nel cervello. Essere o non essere. Questo è il dilemma! Aveva sentito quella frase per la prima volta a scuola dalla sua insegnante di lingua inglese. E all’adolescente spensierato e bonariamente strafottente quelle parole sembrarono, allora, così stupide e vuote. Così inutili. Improvvisamente, quella sera, erano diventate piene, dense di significati, così maledettamente vere! Corse verso il piccolo ripostiglio dove teneva rinchiusi tutti i ricordi del passato. Nella fretta dimenticò anche di chiudere la porta. Trovò lo scatolone dei suoi vecchi libri là, in alto, su una mensola. Lo aprì in preda a una inspiegabile eccitazione. Lo trovò: praticamente nuovo nella sua copertina morbida, grigia, dell’edizione economica. Non lo aveva mai aperto veramente quel libro, all’epoca così difficile e noioso; un testo a fronte scritto in un inglese ostico anche per il più bravo della classe e tradotto in un italiano così arcaico, pesante, pieno di morte. La morte. Un pensiero che non sfiora mai la mente di un ragazzo. Un pensiero che un adolescente rifiuta giustamente, perché capace soltanto di vedere l’eternità fornita dai suoi pochi anni. L’incoscienza di credere di avere il mondo tra le mani, di avere una corazza come quella dei supereroi, degli invincibili, degli immortali. Aprì avidamente la prima pagina e iniziò a leggere e rileggere e ancora, ancora una volta, fino a quando la sveglia non suonò. Le sei del mattino e Mario si rese conto che era l’alba. Il sogno era svanito. La notte oscura aveva lasciato il posto alla luce di una nuova verità, all’infinito potere delle possibilità e tutto divenne chiaro. All’improvviso. Si fece una doccia, un doppio caffè per cercare di restare sveglio. Si sistemò la barba e cercò di sciacquare via il rossore della stanchezza dagli occhi. Si avviò verso la porta e la vide così come l’aveva dimenticata la sera prima. Era aperta. Aperta. Come la sua nuova vita. Aperta verso il cambiamento. Salì sulla sua utilitaria parcheggiata davanti alla palazzina. Chiuse lo sportello lentamente. Mise in moto e un sorriso quasi sereno, accompagnato da un lungo sospiro, illuminò il suo volto.

    La sera stessa il direttore del Piccolo Teatro Romano ricevette una visita.

    Sono Mario Strozzi. Vorrei un posto nella vostra compagnia stabile. La prego mi faccia un provino.

    L’uomo venne preso alla sprovvista. Di solito non accettava richieste improvvise da sconosciuti. Aveva l’abitudine di fissare delle date per i provini, occorreva presentare un curriculum, ma quell’uomo aveva negli occhi uno sguardo talmente determinato, carico di fuoco, di energia, che il direttore non riuscì a rifiutare.

    "Reciterò un passo dell’ Amleto!" disse salendo a grandi passi sul palcoscenico.

    Durante la notte aveva letto e riletto tanto da aver imparato le battute a memoria. Fu una cosa incredibile. Il direttore sentì improvvisamente il potere accattivante, suggestivo che quell’uomo, umile e insignificante pochi minuti prima, emanava da tutto il suo essere. Non riuscì nemmeno a concludere la sua performance. Dal silenzio della platea il suono ritmato, man mano sempre più veloce, di battito di mani concluse il provino e decretò inequivocabilmente l’esito. Così l’anonimo operaio Mario Strozzi divenne ufficialmente membro della compagnia stabile del teatro.

    Negli anni la sua dedizione, l’amore e il trasposto con il quale portava in scena i suoi personaggi furono il passaporto per un meritato successo e per l’ottenimento di un ruolo sempre più importante nel gruppo, fino a diventarne il regista. Purtroppo il suo lavoro, di certo necessario per la sopravvivenza, non gli permetteva di dedicare il tempo che avrebbe voluto a questa sua passione, che rimaneva confinata nel piccolo teatrino amatoriale. Ma le soddisfazioni, al termine di ogni rappresentazione, appagavano quasi più di ogni altro tipo di riconoscimento.

    Era la seconda settimana di rappresentazione nella quale Mario, nei panni del sergente Trotter, portava in scena un prodotto assolutamente pregevole. Entrò in camerino, si tolse il costume di scena e si infilò la sua consueta tuta da ginnastica blu per ritornare l’uomo semplice che era. La compagnia di attori, che negli anni aveva contribuito a formare, era diventata la sua famiglia e tutti lo amavano quasi come un padre. Qualcuno bussò con delicatezza alla porta.

    Mario ti aspettiamo. Andiamo a cena da Gino come al solito?

    Arrivo subito Cristina! rispose l’uomo.

    Cristina Rossi. Una ragazza minuta che sprigionava una energia contagiosa propria della sua giovane età. Nella commedia interpretava Mollie Ralston ed era davvero brava. La prima volta che le fece un provino intravide subito, dietro quell’aria semplice e ingenua come la sua, un enorme potenziale, una grande versatilità. Quando Cristina saliva sul palco aveva la capacità di portare una ventata frizzante: i suoi personaggi erano freschi, curiosi, pieni di brio. Era un’attrice nata e da un lato a Mario dispiaceva di tenerla legata a sé, a quella piccola compagnia amatoriale. Nel profondo del suo cuore sperava che con lui la ragazza avrebbe potuto farsi le ossa, imparare i trucchi del mestiere. Qualcuno prima o poi l’avrebbe sicuramente notata. Aveva un futuro Cristina, ne era certo! Ma doveva ancora crescere. Diventare più scaltra. Lasciare alle spalle parte dell’ingenuità che le si leggeva nel profondo degli occhi. Il mondo dello spettacolo sapeva dare tanto quanto togliere, in un attimo.

    Ritornò con la mente a qualche minuto prima. Gli applausi, dopo ogni rappresentazione, lo appagavano così tanto da fagli assaporare il profumo del successo. Ma che durassero tanto o poco, gli applausi ogni volta finivano, le luci si spegnevano, e il mondo fatto di sogni svaniva, per incanto, lasciando il posto alla realtà di quel volto struccato che fissava un piccolo specchio. Lo sguardo intenso e determinato, tornava a essere mesto, disincantato, a volte stanco.

    Spense le luci del camerino, chiuse la porta e si diresse all’uscita. Il gruppo lo aspettava con trepidazione. Gli andarono incontro sorridendo e tutti si unirono in un grande abbraccio. Poi si diressero verso una piccola trattoria lì vicino.

    Gino, il proprietario, negli anni era diventato un amico. Teneva sempre un tavolo per loro e, eccezionalmente, le sere degli spettacoli chiudeva più tardi per aspettare che la compagnia avesse finito di cenare. Tra una portata e l’altra i bicchieri si alzarono più e più volte per brindare alla riuscita della serata. Tutti avevano una bella luce negli occhi, erano felici e commentavano i momenti più divertenti e gli istanti di incertezza che in ogni serata si riproponevano, rendendo la performance viva.

    La mezzanotte era passata da un po’.

    Mario si alzò da tavola, era stanco aveva bisogno di rientrare a casa e riposare. I più giovani decisero per una passeggiata. La serata era mite e invitava a restare svegli a godersi ancora un po’ il successo. Si congedarono davanti al locale e l’uomo si avviò verso l’auto.

    Alle due chiuse la finestra della camera perché l’aria iniziava a farsi fresca, spense la luce della lampada sul comodino, si girò su un fianco e si addormentò.

    2

    Roma, mercoledì 6 aprile 2016

    La primavera a Roma era arrivata tiepida e profumata come la sfoglia alla mela che stava assaporando, tra un sorso e l’altro di un caffè ristretto, al vetro. La colazione di Andreas Fanner era metodica, ripetitiva. Quando si trovava nella capitale tutte le mattine, alle otto, il bar di fronte alla scalinata di Piazza di Spagna lo aspettava, puntuale. Durante l’inverno si barricava, appollaiato su uno sgabello, dietro la grande vetrata che offriva uno sguardo indiscreto sul via vai di individui in perenne sfilata, sempre assenti, sempre affannati. Andreas pensava che la vita fosse diventata una corsa continua e che ogni tanto si rendeva necessario fermarsi e guardarsi per non perdere quella dimensione umana che, ormai, sembrava essere, da molti, dimenticata. Quando le temperature salivano, invece, il suo tavolino era quello nell’angolo più defilato sul lastricato di fronte. Da lì poteva godersi le prime ore del mattino, senza che nessuno lo disturbasse. In realtà per Andreas il clima di Roma era amabile tutto l’anno, per lui che era nato e cresciuto in Trentino con temperature decisamente meno sopportabili. Era felice di essersi stabilito in un loft sul Lungotevere ma, ogni tanto, rimpiangeva i colori e i profumi delle Alpi, la quiete e la calma del suo piccolo paese d’origine. Il destino però e, decisiva, la scelta dell’università, lo avevano portato a centinaia di chilometri di distanza.

    La sua fuga non aveva motivazioni reali. Semplicemente a diciannove anni baite, abeti e stambecchi possono iniziare a stare stretti, a non bastare più. Era arrivato il momento di cambiare aria. Alcuni lontani parenti residenti a Roma gli offrirono alloggio e lui colse l’opportunità, al volo, iscrivendosi alla Sapienza. Scienze dell’informazione. Perché Andreas Fanner aveva tre passioni nella vita: sciare, programmare computer e la Juventus. Era un giovane genio del software.

    I suoi anni di università furono intensi ed entusiasmanti, ma volarono. In quattro anni arrivò la laurea con il massimo dei voti. I suoi insegnanti spesso faticavano a star dietro alle sue risoluzioni, alla progettazione e realizzazione delle sue idee, tanto che gli proposero di restare nel mondo accademico come ricercatore; ma Andreas aveva altri progetti. Aveva voglia di costruire qualcosa di suo. Aveva bisogno di muoversi, viaggiare, di varcare, non solo con la mente e lo spirito, le vette più alte delle sue montagne. Andare oltre. Così, dopo la discussione della tesi di laurea, trascorse sei mesi rintanato nella camera a casa dei parenti e sviluppò un software innovativo ed estremamente versatile, per la gestione dei flussi monetari delle banche. Era un prodotto incredibile: ottenere il brevetto fu un gioco da ragazzi. Poi il colpo di fortuna che cambiò definitivamente la sua vita. Uno dei parenti che lo ospitava conosceva il direttore di una importante banca di Roma. Ottenne un appuntamento e così, a soli venticinque anni, iniziò la sua carriera di imprenditore. Il suo software era stato installato in banche di tutto il mondo: dal Canada all’Australia e Andreas era continuamente a bordo di un treno o di un aereo perché, oltre alla vendita, continuava con il servizio di assistenza e di aggiornamento. La sua era una vita piena. Aveva conoscenti ovunque e il suo tempo non era mai abbastanza per mantenere tutti i contatti come avrebbe voluto. Grazie al suo carattere aperto e al suo fare accattivante, i suoi rapporti lavorativi da formali diventavano immediatamente personali e i suoi viaggi avevano sempre un risvolto piacevole, quasi come una vacanza. La sua era una vita perfetta. Ovviamente secondo i suoi canoni di perfezione.

    Stava leggendo le notizie sportive, la sua Juventus anche quell’anno si era confermata campione d’inverno e si preparava a vincere l’ennesimo scudetto. Ormai non c’era quasi più gusto a seguire il campionato. Un messaggio sul cellulare interruppe la lettura. Un amico lo invitava per il fine settimana a fare un po’ di surf in California. Proposta allettante. Ci doveva pensare. Aveva programmato di andare a casa a trovare i genitori. Era da tempo che non tornava. Declinò a malincuore l’invito, ma si riservò l’opportunità di approfittarne in un altro momento. Mentre rispondeva, inconsciamente sfogliava, senza cercare niente di specifico, le pagine del quotidiano. Una volta premuto l’invio della risposta, appoggiò il telefono e i suoi occhi caddero sulla pagina che era rimasta aperta. Cronaca locale. Un trafiletto a margine attirò la sua attenzione.

    Ieri, martedì 5 aprile i condomini di una palazzina nel quartiere Nomentano sono stati svegliati intorno alle sette del mattino da un colpo proveniente da uno degli appartamenti. Un vicino, Mario Strozzi di cinquant’anni, si è suicidato con il fucile da caccia di sua proprietà regolarmente denunciato. L’uomo viveva da solo, non aveva parenti prossimi, era un operaio di una fabbrica della zona ed era noto nell’ambiente dell’intrattenimento come regista e attore amatoriale di teatro. Il suo ultimo lavoro, Trappola per topi di Agatha Christie, era andato in scena per l’ultima volta la sera precedente alla tragica scomparsa. Gli inquirenti, pur non avendo trovato alcun indizio sui motivi di quel gesto così estremo, hanno chiuso le indagini ritenendo inequivocabile la dinamica dell’accaduto. I vicini, sotto shock, lo ricordano come un uomo cordiale, molto educato, gentile e disponibile con tutti.

    Rimase immobile per qualche minuto con lo sguardo che fissava un punto lontano all’orizzonte, senza rendersi conto di cosa stesse vedendo. Immaginò la scena. Il corpo dell’uomo disteso a terra, in una posizione innaturale, come un pupazzo lasciato cadere sbadatamente. Il sangue ovunque. Immaginò il volto sfigurato dal proiettile. L’articolo non diceva dove

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