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L'ombra del ramo spezzato
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E-book174 pagine2 ore

L'ombra del ramo spezzato

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Info su questo ebook

Gaby Meistri soffre di depressione a causa delle preoccupazioni e delle pressioni emotive causate dal suo lavoro alla Ciufflì, un’azienda un tempo florida, che dopo il passaggio del testimone dal fondatore al figlio sta per essere ceduta a un fondo di investimenti americano. Le maestranze entrano in agitazione e, nonostante le rassicurazioni della dirigenza, iniziano a cadere le prime teste. Il mondo di certezze di Gaby inizia a crollare, costringendola a decidere se subire o lottare.
 
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2020
ISBN9788835808022
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    Anteprima del libro

    L'ombra del ramo spezzato - Nives Tharafeo

    Capitolo 1

    25 luglio 2010

    La lampada della cucina sfarfallava e sulla parete si riflettevano dei giochi di luce simili a ombre cinesi. Nanà fissava rapita con i suoi grandi occhi color arancio quelle strane immagini.

    Di scatto volse lo sguardo verso Gaby e sembrò chiederle se ciò che vedeva fosse frutto di uno dei tanti strani scherzi che la sua padrona amava farle.

    Gaby la prese in braccio e la fissò intensamente poi scoppiò in una grossa risata, quasi isterica. Non era nuova a comportamenti di quel genere.

    Nanà non miagolò, ma i suoi occhi erano fin troppo eloquenti. Riusciva ormai a capire Gaby con un’occhiata e conosceva i suoi sbalzi di umore inaspettati.

    Dall’esterno giungevano le urla di incoraggiamento e di tensione per la partita Milan-Varese, che stava per terminare. Gli inquilini al quinto piano del palazzo di fronte si erano riuniti per guardarla in compagnia. Erano forse in otto ma facevano una gran cagnara come fossero stati allo stadio. Alle grida si alternavano momenti di assoluto silenzio. L’atmosfera era rarefatta, come quando cade la neve; ma a fine luglio l’afa era insopportabile.

    La piccola Nanà se ne stava accovacciata alla finestra boccheggiando, forse supplicando affinché la pioggia si decidesse finalmente a scendere per purificare gli animi.

    Un borbottio improvviso la fece trasalire come se avesse visto un fantasma. Si protese in avanti e, con le orecchie dritte, restò immobile per alcuni secondi.

    Dalla cucina giunse un gran baccano di pentole e piatti. Alla piccola Nanà bastava poco per spaventarsi, ma quel rumore avrebbe fatto risorgere anche un morto.

    «Oggi non ne va bene una, che diamine!» urlò Gaby. «Non ce la faccio più. Perché va tutto storto? Ci mancava anche Fausto!»

    Nanà le si avvicinò, fissandola con la sua solita buffa aria interrogativa.

    «E tu, perché mi guardi in quel modo? Non hai mai sentito cadere delle pentole?»

    Avendo compreso che nulla di grave era accaduto Nanà ritornò sul davanzale della finestra, in attesa di qualche cenno dall’alto dei cieli.

    Era tutto il giorno che Gaby si sentiva strana, anche se, in fondo, non ve n’era motivo.

    Oltre la finestra, alcuni lampi sfolgorarono nel cielo plumbeo all’orizzonte, facendo presagire un forte temporale in arrivo.

    Poco prima che si scatenasse il diluvio Fausto la chiamò.

    «Pronto, Gaby, sto tornando ma farò tardi.»

    «Mi stavo proprio chiedendo dove fossi finito, non hai visto che tempaccio?»

    «Sì che ho visto. Ho un piccolo contrattempo.»

    «A quest’ora? Ma si può sapere dove sei?»

    «Non ti spaventare, ho avuto un piccolo incidente con l’auto. Nulla di grave, tranquilla.»

    «Tranquilla? Un incidente? Ma come? Sei ferito?» chiese Gaby con evidente concitazione, in preda ai pensieri più catastrofici.

    «Ti ho detto che non è nulla di serio. Mi hanno tamponato mentre stavo svoltando su piazzale Corvetto. Sai che quel semaforo di fronte alla Upim è davvero sistemato male.»

    «Si, ho presente.»

    «Stavo per svoltare, quando un tizio mi ha tagliato la strada. Meno male che andavo piano. Alla fine è solo un’ammaccatura.»

    «Solo un’ammaccatura, dici?»

    «Si, te l'ho detto. Stiamo compilando la constatazione amichevole sotto la pioggia. Immagina come sono conciato.»

    «Non è possibile. L’auto nuova! Con tutte le rate che dobbiamo ancora pagare! Non ne va mai bene una!»

    «Suvvia, non agitarti inutilmente. Cerco di sbrigarmi in fretta. A dopo.»

    «Pronto, Fausto, pronto!»

    Fausto aveva già chiuso la comunicazione e Gaby era rimasta ammutolita, con il cellulare in mano, come imbambolata. Aveva indugiato per diversi minuti, incredula. Non era chiaro se il suo timore fosse maggiore per il marito o per la loro Peugeot 307.

    Fausto l’aveva sostituita da poco alla Renault Modus, che ormai cadeva a pezzi; un giorno l’aveva piantato sulla superstrada Milano-Meda e a quel punto si era deciso a comprare un’auto nuova, a costo di sacrifici.

    Passato quel momento di smarrimento Gaby si rivolse alla piccola Naná.

    «Sai, il papà ha avuto un piccolo incidente, ma non si è fatto male. Vedrai che tra poco sarà a casa.»

    Naná la fissò, forse domandandosi se la sua padrona fosse sotto l’effetto di qualche strana sostanza. Di colpo si alzò sulle zampette bianche batuffolose. Con aria contenta, andò verso Gaby e le si piazzò proprio davanti.

    «Che c’è ancora? Stasera non hai proprio voglia di startene tranquilla? Anche tu devi tormentarmi?»

    La gattina non fece neanche una piega, come se nessun suono le fosse giunto all’orecchio.

    «Sei proprio strana» le disse Gaby mentre Nanà, serafica, si stiracchiava.

    «Che bella vita la tua: mangiare, dormire e…» non finì la frase, ché Nanà le si strusciò contro facendo le fusa e ruotandole attorno la sua soffice coda nera.

    «L’ho detto che sei stramba» ripeté Gaby.

    Nanà le si aggrappò con le unghie al lembo del grembiule, come per attirarla verso la finestra.

    «Dai, adesso non mi va di giocare.»

    Nanà insistette e una unghietta si conficcò in un filo sottile del grembiule. Mentre Gaby cercava di sfilare la zampetta, Nanà la sospinse di nuovo verso la finestra. In quel momento si scatenò un violento acquazzone.

    Gli inquilini di fronte schiamazzavano delusi e rabbiosi per la sconfitta del Milan, in una partita che si era preannunciata grama fin dall’inizio del gioco.

    «Mamma mia, come piove» disse Gaby affrettandosi a chiudere tutte le finestre che sbattevano per la corrente.

    Nanà, incuriosita dai ridicoli movimenti di Gaby, la seguì in cucina.

    «Smettila di saltellare. Stai attenta al davanzale. Sei proprio una piccola peste! E se cadi dalla finestra?»

    Per la gattina era ormai giunta l’ora della razione serale di gustose crocchette di pesce, di cui era golosissima, e non intendeva di certo rinunciarvi. Le bastava strusciare la sua vaporosa coda nera sulle gambe della sua padrona per riportarla alla realtà.

    «Povera cucciola, hai ragione. Mi ero distratta. Adesso arrivo con la tua pappa» le disse Gaby accarezzandola dolcemente sul musetto.

    Sentì le chiavi girare nella toppa: era Fausto che rientrava a casa, tutto inzuppato.

    «Sono completamente esausto» disse appena entrato.

    «Finalmente ce l’hai fatta» lo rimproverò Gaby.

    Fausto alzò gli occhi al cielo. Non aggiunse altro e andò a cambiarsi. Capì che la moglie aveva avuto una delle sue giornatacce.

    Andò in cucina per bere dell’acqua. «Gaby, hai preso il Tavor?» le urlò.

    Nessuna risposta.

    Sapeva che l’unico modo per aiutarla a calmarsi era di farle prendere il suo ansiolitico.

    «Gaby cara, vuoi che ti porti il Tavor?» ripeté.

    «Lo so che ti preoccupi per me» gli disse Gaby entrando in cucina, «ma stasera mi sento più tranquilla.»

    «Non si direbbe. Forse è meglio se prosegui la cura come ti ha detto il medico. Interromperla non è consigliabile.»

    «Sono troppo stanca per discutere.»

    «Vai a coricarti. Non mi hai detto che domani ti aspetta un’altra giornata pesante? Forse è meglio se ti distendi. Arrivo con la tua pastiglia e vedrai che andrà tutto meglio.»

    Gaby obbedì come un automa. Si infilò la sua vestaglia grigia, uno dei pochi ricordi rimasti di nonna Anita, che conservava come una reliquia. Il bordo della cintura penzolava di sbieco e Nanà l’afferrò, tirandola finché non scivolò sul pavimento.

    «So che vorresti giocare ma non è il momento»

    Nanà non voleva desistere e si aggrappò all’orlo della camicia da notte, gonfiando la sua coda setosa e mettendosi a saltellare su e giù.

    «Basta! Ti ho detto che non mi va! Fausto, portami il Tavor. E prendi Nanà, che stasera mi sta facendo impazzire.»

    «Sto arrivando. Ecco l’acqua e il Tavor.»

    Gaby buttò giù d’un colpo la sua medicina.

    La pioggia battente colpiva incessantemente i vetri delle finestre. I tuoni le facevano tremare.

    «Adesso cerca di dormire e non pensare più a nulla. Se vuoi accosto la porta, ma Nanà vorrà restarti vicino e tu dormi più serena con lei.»

    «Va bene, lasciala pure dov’è. Credo che il Tavor non tarderà a fare effetto.»

    In pochi istanti sprofondò tra le braccia di Morfeo.

    Alle tre e mezza del mattino il rumore della pioggia divenne fragoroso. La porta dell’ascensore sul pianerottolo sbatté e Gaby si svegliò di soprassalto, madida di sudore.

    Ripensando al sogno appena fatto, le venne in mente un ricordo d’infanzia.

    Capitolo 2

    Il povero Dick aveva iniziato ad abbaiare come un forsennato, correndo avanti e indietro lungo il filo di ferro a cui era attaccato col collare. Se avesse potuto si sarebbe divincolato e avrebbe assalito l’intruso, difendendo la proprietà con tutte le sue forze. Non era esattamente un cane da guardia, ma un meticcio di sei anni dal pelo corto e nero con chiazze bianche irregolari. In particolare quella nera sull'occhio destro lo faceva sembrare un pugile che aveva beccato un bel cazzotto e gli conferiva un’espressione singolare.

    La Carla, come la chiamavano affettuosamente in paese, aveva una cagnetta nera di due anni, Dolly. Viveva nella grande cascina sopra a quella dei nonni, aveva circa quarant’anni ed era già vedova da una ventina. Il marito era stato investito da un treno a causa di un malfunzionamento del passaggio a livello. Aveva lasciato due bambini piccoli e una moglie ancora giovane che, per il dolore, si era imbianchita. A Carla non era rimasto che il sostegno dei genitori, con i quali viveva nella grande cascina.

    Un giorno il cane di Maurizio, che abitava in cima alla collina, gironzolando come sua abitudine nel bosco si era imbattuto nella tenera Dolly e non si era fatto sfuggire l’occasione di lasciare il segno, per così dire. La Carla non si era accorta di nulla, perché lavorava nei campi con i genitori e non aveva il tempo di badare a Dolly. Ma dopo poco più di due mesi la sorpresa non aveva tardato ad arrivare. Erano nati cinque cuccioli, uno diverso dall’altro.

    Dick si distingueva per il pelo chiazzato, mentre quello degli altri virava dal nero al caffellatte. Tutti si erano stupiti della sua particolarità, ma per la Carla il problema era un altro: che farsene delle povere bestiole?

    Quando Gaby e il fratello Nestore lo avevano visto tre giorni dopo la nascita, non avevano avuto dubbi. Dick era speciale e, oltretutto, un cane a guardia della cascina era indispensabile. Avevano fatto il diavolo a quattro coi nonni per averlo. Nonno Fiorino, con i suoi modi burberi, non ne voleva proprio sapere. Nonna Anita temeva che avrebbe portato solo scompiglio. Da fare ne aveva già abbastanza. Non avevano però fatto i conti con i due birbanti che, almeno su Dick, erano completamente d’accordo. Dopo una settimana il meticcio aveva trovato la sua nuova casa, per la gioia della Carla. Giocherellone come ogni cucciolo tormentava nonno Fiorino, identificandolo non si sa perché come capo branco. Gli stava sempre appresso, peggio di un orso con un alveare. Man mano che i giorni passavano, tutti si erano abituati alla presenza di Dick, che in breve era diventato la mascotte di casa.

    Una sera non si riusciva a trovarlo e nonno Fiorino aveva iniziato ad agitarsi sul serio.

    «Anita, che fine ha fatto Dick? Di solito è già qui a reclamare la cena.»

    «Cosa vuoi che ne sappia? Non vedi che sono indaffarata? Il cane è affar tuo.»

    «Come, affar mio? Dillo piuttosto ai tuoi cari nipoti, che l’hanno voluto a tutti i costi.»

    «Che c’entrano, picìnin? Invece di lasciarlo libero di vagare nel bosco potresti tenerlo legato da qualche parte, così non scappa più.»

    «Sempre a rognare. Metterò un filo di ferro lungo tutta l’aia e poi lo legherò. Sarà libero di muoversi, ma solo lì.»

    «Vedi che quando vuoi una soluzione la trovi?» aveva ribattuto compiaciuta nonna Anita.

    Così il povero Dick, ricomparso dopo aver goduto di una lunga e senza saperlo ultima scampagnata, aveva finito di scorrazzare liberamente. Soltanto quando nonno Fiorino voleva fare una passeggiata di sera lo portava con sé. Durante il giorno e la notte Dick rimaneva legato a quella odiosa catena.

    I suoi latrati squarciavano il silenzio della notte.

    A differenza del fratello, che crollava come un sasso, Gaby aveva il sonno leggero. Il fidato guardiano, con quel suo ringhio minaccioso, l’aveva svegliata di soprassalto. Era quindi scesa quatta quatta dal letto per andare a svegliare nonno Fiorino e nonna Anita, che dormivano nella stanza attigua.

    Le stanze erano comunicanti, perché la porta rossa che le separava veniva lasciata sempre aperta. Un vecchio tavolo di legno intarsiato – regalo di nozze della famiglia di Anita – vi era accostato proprio dietro. Sopra di esso erano disposti, uno in fila all’altro, dei ceri con l’immagine stampata della Beata Vergine Ausiliatrice. Nonna Anita era molto devota sia a Lei che a San Giovanni Bosco, e quel tavolo aveva l’aspetto di una specie di Cappelletta privata.

    In quel frangente più che una preghiera sarebbe stato più saggio accendere le luci e vedere cosa stesse accadendo.

    Gaby si era avvicinata delicatamente a nonna Anita.

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