I racconti più belli della saggezza zen
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Lorenzo Casadei
è nato nel 1971. Pratica alcune arti della tradizione orientale come l’aikido, lo shodo, lo iaido e il tai-chi-chuan. Dal 2004 dirige la Collana Porte d’Oriente della CasadeiLibri. Ha scritto Gli aspetti simbolici e magici dello shodo in Shodo lo stile libero; Il gioco del Go come metafora dell’arte del giardino e del paesaggio in San Sen Sou Moku. Il giardino giapponese nella tradizione e nel mondo contemporaneo; Préhistoire et mythe antique du mont Athos e, con Mauro Bulgarelli, Lo scontro delle inciviltà. La guerra in Afghanistan.
David Santoro
ha vissuto in Belgio e in Giappone; traduttore e giornalista, collabora con «Alias», «Il Giornale della Musica» e Radio3. Ha pubblicato Concerto in Sol levante. Musiche e identità in Giappone; Musiche e r/esistenza in Giappone (in «Temperanter») e il racconto Mix: le cose vanno e non vanno, in Cuori Migranti.
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I racconti più belli della saggezza zen - David Santoro
1. Un editore zen
L’editore mi guardava perplesso. Scrivere una serie di storie ispirate alla filosofia zen non è semplice. Non si affida un compito simile al primo venuto.
«Per correttezza devo dirle che, anche se non ho ancora preso una decisione, ho già interpellato diversi studiosi. Linguisti, filosofi, semiologi, storici delle religioni…».
«Ne ho riconosciuti un paio che uscivano dalla sua stanza poco fa, mentre aspettavo che mi ricevesse».
«Naturalmente anche lei ha studiato filosofie orientali…».
«A dire il vero, no…».
La mia risposta lo sorprese, ma in un certo senso sembrò quasi sollevato.
«Ma conosce il cinese o il giapponese…».
«Non so una parola di nessuna di queste lingue».
«…quindi non è un esperto della materia…».
«Per niente. Posso assicurarglielo».
L’editore cominciò a rilassarsi, il colloquio sarebbe stato breve. Ridurre le opzioni facilita la scelta. Tuttavia, forse per scrupolo, fece ancora un tentativo.
«Come fa a parlare dello zen uno che non ne sa niente?»
«Uno che lo conoscesse non lo farebbe».
Doveva certo aver tratto le sue conclusioni, ma continuò la conversazione per pura cortesia. Parlammo ancora per qualche minuto di altri progetti, dei Paesi che avevamo visitato, di vini. Poi ci salutammo e, come sempre in questi casi, disse che mi avrebbe fatto sapere. Quando infine rimase solo con una collaboratrice, l’editore commentò soddisfatto: «Questo è quello che fa per noi».
2. Dal maestro di coloro che
non hanno maestri
Attraversando una fitta coltre di nubi torno, dopo molti anni d’assenza, nel tempio senza quantità in cima alla montagna che non c’è e senza alcun pudore confesso all’abate il progetto: «Maestro ho avuto la sventatezza di accettare di illustrare con parole semplici la storia dello zen. La prego di aiutarmi. Non mi sento all’altezza del compito».
«In molti hanno scritto storie dello zen, storie sullo zen e storie ispirate allo zen, perfino tu puoi cimentarti in quest’impresa».
«La prego mi dia alcuni consigli».
«Non copiare, non inventare».
«Credo di capire maestro, è proprio per questa ragione che non mi sento…».
«Ricordati che ogni cosa costruita è un inganno, perfino questo tempio che tocca il cielo. Le storie non sono forse intessute della stessa stoffa dei sogni?»
«Ma lei mi consiglia di non inventare…».
«Parlando così ti mostri sciocco e presuntuoso, cosa credi di poter inventare? Al massimo potresti deformare. Non un solo atomo del sacco di carne che ti trascini dietro ti appartiene, non un solo pensiero che ti attraversa la mente è veramente farina del tuo sacco. C’è un inferno speciale per chi diffonde un dharma corrotto. Un inferno affollato, e quest’epoca è destinata a triplicarne gli infelici inquilini. Di certo già bolle l’acqua della pentola che stanno preparando per il coautore del tuo libro».
«Maestro, la scongiuro, non entri nei dettagli, ormai ho firmato il contratto con l’editore…».
L’abate ride di gusto. Mi guarda con infinita dolcezza.
«Non temere, anche l’inferno è una cosa costruita».
3. Sarà una risata
Sono in una grotta. Avanzo a fatica, le gambe pesanti, come immerse nel fango. Angoscia. Pagine di libri incombono alte come palazzi. Il tribunale in fondo. Fiamme. Oscurità. Bagliori. Una voce interna mi dice: «Inferno», un’altra, la mia, dice di ignorare che esista un inferno buddhista. Una terza dice: «Guarda che ce ne sono otto!». Schiere di monaci fiancheggiano il cammino. Seduto davanti a un kotatsu, il giudice. Sono in ginocchio sul tatami davanti a lui. La sua voce rimbomba dentro di me. «Così», dice, «tu scrivi storie zen… E cosa sai dello zen?». «Zero!», rispondo a capo chino. «Dello zen, so zero». Il maestro mi guarda beffardo, sul punto di emettere il verdetto. Scoperchia un cesto, afferra qualcosa e me la tira. La prendo al volo, timoroso della condanna. Una radice bitorzoluta. Scoppio a ridere. Il maestro anche. Zenzero. Al risveglio sono certo che a salvarmi è stata la risata.
4. Fuori strada?
A valle il cielo è scuro. All’orizzonte si intravedono dei piccoli tornado illuminati da saette, eppure devo salire il monte di buona lena. Tardi, è sempre tardi. La strada sembra non finire mai. La pioggia si tramuta in lame di ghiaccio sottile che mi feriscono il volto. Inizio a pensare che è meglio fermarmi; no, non posso far attendere l’abate. Proseguo. Come per magia dopo pochi passi torna il sereno e il tempio senza quantità mi compare, nel suo semplice splendore, incastonato nell’azzurro.
L’abate indossa una veste verde con un grande pesce d’oro ricamato sulla schiena. Nessun altro maestro zen che io abbia mai incontrato porta un simile abito.
«Com’è mutevole il tempo in questa stagione, non ti pare?»
«Decisamente maestro, soprattutto in montagna».
«Hai pensato da dove iniziare con i tuoi racconti?»
«Pensavo di ripercorrere la storia dello zen dalle sue origini. Mi sembra una buona occasione di studio».
«La storia… che disciplina ingannevole e pretenziosa. Nessuno può scrivere una storia dello zen. Fa tesoro di leggende, miti e koan, piuttosto. Da dove pensi abbia origine lo zen? Se credi di sapere, parla!».
«Dall’illuminazione del Buddha Shakyamuni».
«Come immaginavo, sei fuori strada».
A questo punto entra dalla porta di servizio l’altro, il coautore che, dimentico della buona educazione, non fa neppure un cenno di inchino, non dico a me, ma neppure all’abate. Inconsapevole di peggiorare sensibilmente la sua posizione karmica, parla senza essere stato interrogato: «Non esageriamo con la tradizione: troppi templi e abati, ci sono già quelli che citiamo da altre fonti. Se partiamo così sembra tutto ambientato in una specie di passato mitico e dopo il resto risulta incoerente. Cominciamo subito con qualcosa di più attuale».
All’abate non sembra importare granché di esistere, ma sa che a me dispiace perderlo così presto, a libro appena iniziato… Compassionevole come un vero bodhisattva, rivolge a me queste ultime parole: «Non temere la confusione, essa è un segno tangibile dei tempi, un’illusione nella perfezione totale. Cerca di essere zen-zero anche tu, come una zucca vuota che segue la corrente e che schiacciata sott’acqua non resta mai ferma e infine torna sempre a galla».
5. Il terzo (pensando a Chuang Tzu
in riva al mare)
Nella calura estiva, sopra le dune, una farfalla balla prigioniera dentro una bottiglia vuota rovesciata sulla sabbia. Il goccio di vino rimasto sul fondo basta alla sua estasi, ma il collo è troppo stretto e trasparente, per chi è preso dall’ebbrezza. Spingo allora un filo d’erba secca all’interno, il naufrago lo afferra e lo estraggo piano piano. Una volta fuori, asciugate le ali, la farfalla vola via, sbanda un po’ e vive, credo felice, le poche ore che le sono date.
Pare che sotto un albero Chuang Tzu e una farfalla si sognassero a turno, o forse l’un l’altra simultaneamente. Questo dice Chuang Tzu, ma a me la farfalla ha detto che era l’albero a sognarli.
6. Il Bambino nato dall'Uovo,
ovvero preistoria del Buddhismo
Piove che Dio la manda. Mi chiedo se è davvero il caso di uscire di casa. Vado. Non posso far aspettare il Viandante-che-non-fa-mai-un-passo. E poi, un bicchiere di rosso, con questo freddo, ci vuole proprio. Mi armo d’ombrello ed esco. Come per magia dopo pochi passi torna il sereno. Quando arrivo al Bar-lumi lui già sta pecchiando (verbo in disuso che, mi spiega, indica l’atto di sorseggiare lentamente) il suo calice. Ha una strana felpa verde con un grande pesce d’oro stampato sul petto. Ordino anch’io lo stesso suo vino. Pecchiamo assieme.
«Com’è mutevole il tempo in questa stagione, non ti pare?»
«Decisamente, soprattutto in questi ultimi anni».
«Hai pensato da dove iniziare con i tuoi racconti?». Assaggio il mio merlot: è leggermente acido, ma sincero.
«Pensavo di ripercorre la storia dello zen dalle sue origini. Mi sembra una buona occasione di studio».
«La storia… Da dove pensi abbia origine lo zen?»
«Dall’illuminazione del Buddha Shakyamuni».
«In un certo senso è vero, tuttavia… ascolta: è detto che il Buddha Shakyamuni, il saggio degli Shakya, appartenga alla stirpe del Bambino nato dall’Uovo, ovvero di suo figlio Okkaka, cioè canna da zucchero
. L’uovo d’uomo rappresenta evidentemente il primo uomo, che gli indiani chiamano Manu. Manu rappresenta anche una collettività di uomini che viveva spontaneamente in uno stato di pace e pienezza e che non conosceva avidità, fame, freddo e paura. Ovviamente allora non esistevano caste e neppure religioni. Questo avveniva in tempi assai remoti, nel ciclo che gli indiani chiamano Krita Yuga».
«L’età dell’oro! Un lama tibetano parlandomi di questo evo felice, mi disse che allora gli uomini stavano talmente bene che non avevano bisogno di cercare la via della Liberazione. In altre parole, erano incapaci di comprendere le quattro nobili verità sulla sofferenza».
«Quello del lama era solo uno scaltro stratagemma per incoraggiare mandrie di yak indolenti. Il Risvegliato passò al di là del grande fiume dell’esistenza senza mai abbandonare questa riva, comodamente seduto, come prima di lui fecero i sapta-tathagata e gli altri Buddha del passato. Mai nessuno di loro scoprì nulla di nuovo. Furono tutti quanti venditori di pesce puzzolente. La Tradizione è ininterrotta dall’inizio dei tempi. Questo è rappresentato dall’invocazione ai maestri indiani del Buddha storico, che si recita prima dello zazen. I venerabili Ajnata Kaundinya, Bharika, Dasabala-Kasyapa, Mahanaman e Asvajit erano forse un po’ arrugginiti e il loro insegnamento non valeva una tazza di riso bollito nel latte eppure… a loro dobbiamo il ricordo e il ricordo del ricordo, ma anche il qui e ora. Lo zen è la pratica della religione prima che le religioni sorgessero. Il dharma, trasmesso in linea diretta da Manu fino a noi, accompagna l’umanità sin dai tempi primi, anzi, secondo la tradizione indù, esso è l’eredità delle sei umanità precedenti la nostra».
«Sei umanità?»
«E sette a venire, ma questa è un’altra storia. Scaduto il ciclo dell’età dell’oro, il Krita, altre tre ere si son succedute: il Tréta Yuga, il Dvapara Yuga e il Kali Yuga, l’età oscura in cui ancora viviamo. A ogni era la Vacca della Giustizia, del dharma, si è retta con una gamba in meno e così, nel tempo, le tre malattie (desiderio, fame e vecchiaia) aumentarono fino a diventare novantotto».
«Quali sono le novantotto malattie?»
«Non le ricordo davvero, ma ti affliggono di certo tutte e se presti attenzione potresti elencarle tu stesso».
«Capisco».
«Nel caos crescente sorsero, come luce nella notte, alcuni Buddha e molti altri saggi minori, ma questo servì solo a controbilanciare temporaneamente la caduta. Il Buddha Shakyamuni nacque nel cuore del Kali Yuga da stirpe regale e certi hanno creduto si trattasse del nono avatara di Visnu. Comunque, anche il suo fu un buco nell’acqua».
«Come? Stai forse scherzando?».
Il Viandante-che-non-fa-mai-un-passo ride di gusto: «Un sasso gettato nel lago può fare grandi cerchi: è bello, ma a un certo punto i cerchi, avendo raggiunto il loro limite, si dissolvono nel silenzio piatto. Se ci si attacca alla figura, ipnotica, del progresso geometrico può essere triste. Questa è la natura del ciclo. Anche la comunità dei buddhisti, grazie alla forza del getto del Fondatore nelle acque del nostro mondo – davvero un poderoso buco nell’acqua – è divenuta presto assai numerosa».
«Questo è bene?»
«Mah… La stirpe Shakya era così chiamata – shakya significa abile
– perché il loro clan era notoriamente prolifico, anche in esilio e perfino in isolamento riuscivano a moltiplicarsi. Pare che, se costretti dalla necessità, gli Shakya si riproducessero accoppiandosi tra di loro! Quale sia la reale etimologia del loro nome, questa storia ha di certo un senso simbolico profondo, è quasi una profezia».
«Ricorda la storia di Abramo, la cui stirpe dev’essere numerosa come le stelle del cielo».
«Sì, certo e quest’analogia ha ragioni profonde, ma tu non devi, mi pare, scrivere un trattato comparativistico, ma solo delle storie, o sbaglio? Comunque infine Buddha fu esiliato
dalla cultura indiana come Cristo da quella ebraica. Eppure entrambi, tra figli legittimi e illegittimi, si sono dimostrati davvero assai prolifici. Svincolando la trasmissione da questioni legate alla carne sono potuti divenire universali, così anche tu, che sei un barbaro, puoi seguirne la Via».
Pronunciate queste parole, ordina un altro bicchiere, il quinto, credo. Non ho mai capito come faccia a bere tanto senza ubriacarsi, mai! Si fa tardi. Ingurgitiamo e paghiamo, cioè pago io, come al solito. Lui dice che le sue monete sono fuori corso e che ne ha piene le tasche. Scambio altre due parole poi il Viandante-non-cammino-ma-pedalo inforca la sua bici e svanisce nella nebbia.
7. Bianca è la neve e nero è il corvo
In un giorno d’inverno, un corvo nero come la pece, che aveva puntato una piccola preda, si tuffò in un mucchio di neve soffice e farinosa, caduta da poco, e ne riemerse con le penne di un candore sfavillante. Un bambino che lo aveva visto posarsi lo inseguì a lungo nel tentativo di catturarlo, o forse solo di accarezzarlo; le sue scarpe infangate lasciarono sulla neve una lunga scia di orme buie come il carbone. Dopo qualche saltello il corvo spiccò il volo e la neve cadde giù dalle sue ali, che tornarono di ossidiana. La neve restò lurida, fino al disgelo o alla nevicata seguente. Il bambino rimase a mani vuote, col naso per aria, e non lo avrebbe consolato sapere un giorno che «la neve non è bianca, il corvo non è nero, eppure ognuno è in sé sia bianco che nero»¹.
¹Suzuki D.T., Introduzione al buddhismo zen, Ubaldini, Roma 1970, p. 53.
8. Il Grande veicolo
(c’è un non-posto per tutti)
Fuori dal tempo e dallo spazio lo spirito e il corpo di Shakyamuni, indivisi, raggiungono la meta. L’evento è così