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I signori della droga
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E-book331 pagine4 ore

I signori della droga

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L’impero di “el Patrón” non è finito

Il legame fatale tra narcotraffico e terrorismo internazionale nel racconto di un insider

Nel corso della sua carriera trentennale come agente antidroga in forza alla DEA, Ed Follis ha comprato coca nei vicoli di Los Angeles, concluso affari per milioni di dollari su jet privati, intrattenuto relazioni strettissime con uomini che non solo controllavano il narcotraffico, ma erano anche membri di spicco di Al Qaeda, Hezbollah, Hamas o del Cartello messicano. 
Follis non è stato solo uno degli infiltrati più abili dell’agenzia americana per la lotta alla droga, ma anche colui che ha portato la guerra agli stupefacenti a un nuovo livello. Se, infatti, negli anni Novanta le operazioni sotto copertura si svolgevano quasi esclusivamente per le strade delle metropoli USA – nel regno dei piccoli trafficanti e degli spacciatori di quartiere – ora si tratta di vere e proprie missioni globali di alto spionaggio, che spaziano tra cinque continenti e sono finalizzate a spezzare l’intreccio mortale tra i grandi signori della droga e altri settori della criminalità organizzata, primo fra tutti il terrorismo internazionale.

La storia dell’infiltrato numero 1 nel narcotraffico

«È Edward Follis il vero affare!»
Oliver Stone

«Ho spremuto Eddie per giorni. Volevo capire com’è entrare tanto in confidenza con qualcuno che poi di lì a qualche mese o anno dovrai tradire. Quanto devi spingerti oltre per riuscire a fregare tutti? Perché lì è la tua vita che è in ballo. È il governo che è in ballo. Tutto è in ballo.»
John Travolta


N.B. Questo libro è stato pubblicato in precedenza dalla Newton Compton con il titolo I signori della droga
Edward Follis
Agente pluridecorato della DEA (Drug Enforcement Administration, l’agenzia federale americana per la lotta alla droga), da anni conduce operazioni sotto copertura per sventare il narcotraffico internazionale. Negli anni Novanta è stato anche protagonista di un documentario sulle sue missioni da infiltrato tra la malavita di Los Angeles. 
Douglas Century
giornalista canadese, ha studiato a Princeton. È autore e co-autore di diversi libri. Collabora con varie testate, tra cui il «New York Times»
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2015
ISBN9788854170421
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    I signori della droga - Douglas Century

    1

    Gruppo Quattro

    Il mio primo giorno di lavoro ero terrorizzato.

    Non era il lavoro a preoccuparmi.

    Avevo una fifa blu di arrivare in ritardo. Adesso che Los Angeles è diventata la mia città d’adozione, mi viene da ridere, ma allora, come novello agente della DEA che si affacciava su un territorio sconosciuto e inquietante, guidavo per la prima volta su una di quelle famose autostrade metropolitane. La casa di mia zia era a una cinquantina di chilometri dall’ufficio della DEA e io non avevo idea di quanto potesse essere intenso il traffico.

    Dopo una notte praticamente insonne, mi alzai alle quattro e, fatta la doccia e indossato il mio completo blu scuro, aspettai le prime luci del giorno. Scesi in città e mi presentai in ufficio alle sei in punto. Il quartier generale della DEA era nel cuore del quartiere finanziario, all’interno del Los Angeles World Trade Center, un basso complesso di uffici al 350 di South Figueroa Street, forte di un personale di un centinaio di elementi.

    Imboccai South Figueroa, parcheggiai e salii in ufficio. L’unica altra anima viva era Lekita Hill, una segretaria che sarebbe diventata una delle mie più care amiche e il mio sostegno emotivo man mano che le indagini di cui mi sarei occupato fossero diventate più difficili, più logisticamente complesse e più politicamente delicate.

    Nella divisione di Los Angeles, ero stato assegnato al Gruppo Quattro, la task force di lotta al traffico dell’eroina, in seno alla quale avrei imparato di prima mano i fondamentali delle operazioni antidroga sotto copertura. La squadra era piena di uomini di legge più anziani e insostituibili, i veterani che avevano riscritto il manuale su come diventare un agente infiltrato.

    Quando entrai in scena io, il Gruppo Quattro aveva appena patito un grave trauma, che non solo aveva fatto notizia su tutte le testate della nazione, ma rispuntava ancora sui giornali quasi tutti i giorni. Tre dei nostri uomini migliori erano rimasti coinvolti a Pasadena in una fatale sparatoria durante un’operazione sotto copertura. L’unico rimasto a parlarne era l’agente speciale José Martinez. Gli altri due agenti infiltrati, Paul Seema e George Montoya, erano stati uccisi dalla .45 semiautomatica di un criminale.

    José, che in quell’operazione era l’autista ed era rimasto gravemente ferito nella sparatoria, avrebbe ricevuto personalmente dal presidente Reagan la medaglia al valore.

    Poco prima che io entrassi a far parte del Gruppo Quattro, sul «Los Angeles Times» apparve in prima pagina un articolo che illustrava il mondo ad alto rischio in cui stavo per mettere piede. Ricordo di aver letto l’articolo seduto al tavolo della cucina di mia zia.

    Un mondo oscuro di vita e morte:

    operando soprattutto come infiltrati, gli agenti della DEA

    vivono nel pericolo e muoiono spesso nell’anonimato.

    Si descriveva con dovizia di particolari la spietata uccisione degli agenti Seema e Montoya, spiegando che per quanto alti potessero essere il livello di preparazione, la presenza di spirito e l’addestramento degli agenti sotto copertura, i trafficanti di droga avevano quasi sempre la meglio, forti di un’«avidità assoluta» e della gelida propensione a uccidere seduta stante sia gli altri trafficanti come loro sia «i funzionari federali che interpretavano il loro ruolo in maniera troppo convincente» durante le operazioni sotto copertura:

    «La televisione ci celebra con divertenti avventure rocambolesche da guardie e ladri», dice Rogelio Guevara, un agente della Drug Enforcement Administration di Los Angeles, amico delle due vittime. «Ma [il lavoro della DEA] è anche molto reale, è un lavoro molto pericoloso e non è un gioco. Abbiamo il più alto tasso di aggressioni di tutte le agenzie federali, e questo è un dato che, se non è costante, è in crescita. Non è niente di cui vantarsi, solo una triste verità…».

    Entrare nel giro ristretto del Gruppo Quattro era sconfortante. Avvertii immediatamente di trovarmi in una famiglia traumatizzata, una famiglia ferita. Non avevo conosciuto personalmente George Montoya o Paul Seema, anche se, per ironia della sorte, anni dopo, in Thailandia, avrei sentito parlare spesso di Paul da persone che lo avevano conosciuto quand’era ancora giovane; prima di entrare nella DEA era stato nella CIA, e in Thailandia l’agente assassinato era ricordato con un rispetto che rasentava la riverenza.

    Al mio arrivo, dei particolari di quel trauma avevo una conoscenza ancora molto approssimativa: sapevo che due agenti erano stati uccisi durante una compravendita di eroina mentre operavano sotto copertura. L’unico sopravvissuto, sebbene gravemente ferito, era tornato al lavoro già pochi mesi dopo la sparatoria e si trovava in quel momento seduto a due metri da me.

    José Martinez sarebbe diventato mio partner, mio amico indispensabile e preziosissimo mentore.

    All’epoca José era considerato un agente esemplare, probabilmente il miglior operativo sotto copertura del Gruppo Quattro di quel periodo. Era alto solo un metro e sessantacinque, ma era forte come un toro e non indietreggiava davanti a nessuno. Ai tempi dell’università era stato un ottimo wrestler. Messicano-americano, ma con una carnagione molto chiara e capelli neri come pece, si vedeva che nei suoi geni era ancora forte la presenza del DNA dei conquistadores piuttosto che le caratteristiche di origine azteca comuni a tanti messicani. José parlava un inglese impeccabile, ma anche spagnolo castigliano, una varietà di dialetti messicani e spanglish. La sua abilità operativa nasceva dall’intuito, una cosa che non impari mai in un corso di addestramento o con qualche esercizio pratico all’accademia federale.

    José mi prese sotto la sua ala e io divenni il suo partner giovane. Quel primo Natale a LA, lo trascorsi con lui e la sua famiglia. Svolgemmo insieme lunghi appostamenti notturni in operazioni sotto copertura, a parlare della sparatoria di Pasadena.

    Le cicatrici dei proiettili che lo avevano ferito alle gambe erano ancora rosa o rosso ciliegia; il trauma era ancora ugualmente fresco nella sua mente. Aveva bisogno di parlarne con qualcuno, aveva bisogno di chiarezza, aveva bisogno di trovare un senso nel destino toccato ai suoi due cari amici. Non riesci mai a voltare pagina del tutto quando hai perso due dei tuoi colleghi e per poco non sei morto anche tu con loro.

    Fu José più di chiunque altro del Gruppo Quattro a spingermi con forza a specializzarmi nelle operazioni sotto copertura. Mi aveva capito all’istante, sapeva che il lavoro da infiltrato era quello che meglio si adattava alla mia personalità. Lui aveva una predisposizione incredibile per quel genere di interpretazione, un talento quasi innato, e aveva immediatamente riconosciuto la stessa attitudine anche in me.

    Il mio immediato superiore era Rogelio Guevara, il supervisore del Gruppo Quattro. Era stato un grande amico degli agenti speciali Seema e Montoya.

    Nato in Messico, Rogelio era arrivato alla DEA dopo una lunga trafila. Aveva fatto il macellaio finché non si era laureato in Diritto criminale, per diventare infine un’autentica leggenda vivente tra gli agenti messicani dell’antidroga. Rogelio aveva rischiato di perdere la vita in un’altra operazione sotto copertura a Monterrey, in Messico. Aveva perso per sempre l’uso di un occhio.

    Era caduto in un’imboscata e i malviventi gli avevano sparato alla testa, ma era miracolosamente sopravvissuto a quella pallottola conficcata nel cranio. Sbucando da dietro un costone insieme al suo partner, si era trovato a tu per tu con una banda di oltre trenta malviventi, alcuni dei quali a cavallo. Doveva essere l’acquisto di una grossa partita di marijuana, ma si trattava in realtà di una rapina. I trafficanti avevano ucciso il collega di Rogelio. Un bandito a cavallo gli aveva sparato in faccia. Il proiettile gli era entrato nel cranio sopra l’occhio e gli era uscito dalla tempia. Ancora oggi ha una vistosa cicatrice scura che gli taglia un lato della faccia.

    Come José Martinez, Rogelio non aveva paura di niente e di nessuno. Muscoloso, lineamenti aztechi, sul metro e ottantacinque. Con quella lunga cicatrice e l’occhio danneggiato metteva notevolmente in soggezione. Quando entrai nel Gruppo Quattro, faceva ancora la spola tra i suoi compiti di supervisore a LA e operazioni sotto copertura in Messico.

    Rogelio era un uomo stupendo, più di una volta abbiamo lavorato insieme come infiltrati violando il regolamento, specialmente tenendo conto che vedeva praticamente da un occhio solo. È un fatto che ho osservato e interiorizzato e che avrei portato con me nei miei giorni da comandante, da supervisore, e a livelli ancora più alti nella catena di comando della DEA. Per Rogelio i gradi non volevano dire niente. Sapeva che è in strada che il vero poliziotto ottiene risultati concreti.

    Completato il corso all’accademia federale di Quantico, in Virginia, mi si presentavano diverse alternative di carriera. La domanda che avevo inoltrato per il Secret Service era stata respinta, ma mi erano state offerte posizioni all’NCIS, all’FBI e alla DEA. Mentre ero ancora agente della polizia militare alle Hawaii, ero stato reclutato anche dalla CIA, sottoposto persino alla batteria di test psicologici giù a Langley. Rimuginai per una giornata intera. Non chiesi opinioni ad altri. Volevo che la decisione fosse tutta mia. Mi ritirai da FBI e NCIS e chiamai anche la CIA.

    «Grazie», dissi loro, «ma il mio cuore è nella DEA».

    La verità è che avevo sognato di diventare un agente dell’antidroga lavorando per la DEA fin da quando, a diciassette anni, avevo sentito la canzone Smuggler’s Blues di Glenn Frey. Sulle note metalliche che uscivano dagli altoparlanti della radio erano usciti alcuni versi che parlavano dell’epidemia di cocaina degli anni Ottanta:

    It’s propping up the governments in Columbia and Peru,

    You ask any DEA man,

    He’ll say, «There’s nothin’ we can do…».³

    Quelle parole, sentite mentre ero alla guida della mia vecchia Chevrolet, dovevano aver toccato un nervo scoperto, credo che mi avessero fatto incazzare, fatto sta che non riuscivo più a togliermi quella canzone dalla testa. Mi ossessionò per settimane. Ne parlavo in continuazione con i miei amici. Uno di quei momenti che cristallizzano una vita. Dicevo a me stesso: Fanculo, diventerò io quell’uomo della DEA. Vediamo un po’ chi avrà la faccia tosta di venire a dire a me che non c’è niente che possiamo fare…

    Più o meno in quell’epoca mi era capitato tra le mani il libro Serpico di Peter Maas, e quello fu il colpo di grazia. Oggi, dopo anni nelle forze dell’ordine, mi rendo conto di avere alcuni degli stessi difetti personali di Frank Serpico. Ma a quei tempi, quand’ero ancora molto giovane, nel suo stile da lupo solitario dedicato a una crociata contro la malavita, vedevo un modello di comportamento da adottare per la mia vita. Dopo aver letto Serpico, ero deciso più che mai a diventare un agente dell’antidroga sotto copertura. Andai a vedere il film con Al Pacino qualcosa come sei volte.

    Con il senno di poi, direi di essere stato un idealista, forse un ingenuo, ma credevo davvero di poter fare la differenza. Da quel giorno definii i miei obiettivi accademici e indirizzai tutto quello che facevo allo scopo di diventare un agente dell’antidroga. Ogni mia mossa e decisione aveva come fine quello di diventare un agente speciale della DEA infiltrato nei meccanismi del narcotraffico per arrestare i trafficanti di droga.

    Per me non c’era trampolino di lancio per una carriera nelle forze dell’ordine migliore della Drug Enforcement Administration. Le radici della DEA risalgono a leggi entrate in vigore nel 1914. L’agenzia fu creata il 14 giugno 1930, originariamente alle dipendenze del Bureau del proibizionismo del dipartimento del Tesoro. Lo sanno in pochi, ma per anni il Federal Bureau of Narcotics (FBN) fu la sola agenzia a lottare contro la mafia: è rimasta famosa la dichiarazione di J. Edgar Hoover secondo cui non esisteva nessuna associazione nazionale di famiglie del crimine organizzato, una posizione mantenuta fino a quando il pubblico scandalo del conclave della riunione di Apalachin del 1957 costrinse Hoover ad ammettere che esisteva davvero una rete di criminalità organizzata a livello nazionale; Hoover si rifiutò testardamente di usare la parola mafia, preferendo definire i gangster membri di Cosa Nostra.

    Contrariamente alla diffusa credenza che un presunto principio morale impedirebbe ai capi mafiosi di commerciare in stupefacenti, una mistificazione perpetuata in film come Il padrino, fin dagli anni Venti e Trenta i capi mafiosi come Arnold The Brain Rothstein e Charles Lucky Luciano smerciavano eroina. È passata alla storia la battuta con cui Luciano descriveva l’eroina come «un milione di dollari in una valigia».

    È da sempre una verità scontata: dovunque c’è droga, c’è il crimine organizzato. Il Bureau of Narcotics fu pertanto l’avanguardia nelle misure di interdizione, sequestri e arresti. Negli anni Sessanta e Settanta i grossi guadagni si facevano con l’eroina. Smack. Horse. Roba. I casi relativi alla famigerata French Connection – importatori corsi e produttori siciliani – furono tutti condotti dai precursori della DEA, task force create con la collaborazione del Federal Bureau of Narcotics insieme ad agenti della polizia dello Stato di New York e a detective del dipartimento della polizia di New York.

    La Drug Enforcement Administration, creata nel 1973 dal presidente Nixon, fondeva il Bureau of Narcotics del Tesoro con il Bureau of Narcotics and Dangerous Drugs del dipartimento della Giustizia. Prima che vi entrassi io, la DEA aveva il suo quartier generale al 1405 I Street NW di Washington. Quando le dimensioni dell’agenzia crebbero in risposta all’inondazione di stupefacenti illeciti, nel 1989 il quartier generale si trasferì in una sede più grande a Pentagon City, nella contea di Arlington, Virginia. La DEA doveva capeggiare l’originale guerra alla droga. Come avrei constatato di persona nei miei anni operativi, è difficile pensare a una definizione più inadeguata di guerra alla droga. La sola guerra, se vogliamo per forza usare questo termine militare, consiste in una serie di battaglie che hanno per obiettivo singoli trafficanti. Per me l’idea di una guerra alla droga è irrazionale: puoi essere l’agente federale più bravo del mondo, puoi collezionare un caso clamoroso via l’altro, ma non potrai mai sequestrare un quantitativo di narcotici tale da scalfire anche solo minimamente il traffico mondiale.

    Fin dal principio, ancora fresco di accademia, mi ero reso conto che si poteva ottenere un risultato vero solo perseguendo una strategia di decapitazione: togliere di mezzo i grandi capi. Decimare le organizzazioni non a partire dal basso, ma prendendo direttamente di mira le leadership. Se volevi vincere, dovevi neutralizzare direttamente i capi.

    Fu in quei primi giorni al Gruppo Quattro, non più di due settimane da quando ero entrato in servizio, che appresi di prima mano i fondamentali delle operazioni antidroga sotto copertura. Alla task force contribuivano agenti della DEA come José e Rogelio, ma anche un gruppo di agenti speciali del Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms (ATF).

    Tra questi c’era un grintoso agente del North Carolina che tutti chiamavano Billy Boy: l’agente speciale William Queen dell’ATF. All’epoca Billy stava diventando un esperto di operazioni sotto copertura, infiltrato in varie bande di biker onepercenter in tutto il Sudovest; dieci anni dopo avrebbe raccontato il suo viaggio da infiltrato all’interno del Mongols Motorcycle Club in Under and Alone, un best seller entrato ai primi posti della classifica del «New York Times»⁴.

    La prima volta che lavorai sotto copertura in un affare di eroina ero un poppante. Dovevamo andare in un certo albergo a comprare una libbra di smack. I trafficanti erano grossisti indipendenti messicani, distributori di livello medio collegati a uno dei cartelli a sud della frontiera, conosciuto come organizzazione Riveras.

    Trattavano una forma di eroina nera chiamata chiva. Si riteneva che smerciassero parte della chiva di qualità migliore che circolava in California. Io avevo già imparato il gergo giusto: per i pesi si faceva riferimento a eightballs (un ottavo di oncia equivalente a 3,5 grammi) e once messicane. (Come in gran parte del mondo, i messicani adottano il sistema metrico decimale. Un chilogrammo equivale a 2,2 libbre; in un chilogrammo ci sono 35,2 once. Un’oncia standard sulla scala decimale equivale a 28,35 grammi. Approssimando per comodità, un’oncia messicana corrisponde a 25 grammi.)

    Mi sarei presentato da solo, ma quel giorno con me avevo una squadra di sostegno da fine del mondo: José, il mio partner della DEA, e anche alcuni ragazzi dell’ATF. C’erano Billy Queen e Mike Dawkins, entrambi tanto esperti quanto io ero inesperto. Come me, anche Billy non era molto alto, ma a incutere timore bastava la sua nota abilità con qualsiasi tipo di arma da fuoco. Con il suo metro e novanta di statura, Dawkins era fisicamente più imponente, un agente speciale che nessuno avrebbe mai voluto trovarsi davanti.

    L’operazione ebbe inizio secondo il manuale. Miguel Occhi Verdi, il nostro informatore che era già all’interno dell’Holiday Inn, garantiva per me. Io indossavo il mio completo blu scuro da uomo d’affari. Prima che entrassi, Billy Queen continuava a bisbigliarmi all’orecchio: «Tranquillo, Eddie. Tranquillo».

    La stanza d’albergo era al pianterreno, con finestre aperte sul lato della strada. Le tende erano accostate. Quando bussai, il cattivo si guardò bene dall’aprire la porta. Poi mi arrivò alle narici una zaffata nauseante: la stanza puzzava da far schifo.

    Alla fine la porta si aprì molto lentamente. Strizzai gli occhi e indietreggiai colpito dal tanfo. Avevo pronti i nostri quattrini per far vedere agli spacciatori che ero in buonafede, ma era uno di quei casi in cui i delinquenti cominciano subito a dare segni di nervosismo e ad agitarsi in maniera troppo inconsulta perché possa interpretare in qualche modo il loro linguaggio del corpo.

    Spesso ci si trova in queste situazioni di stallo, questi pericolosi giochi di falchi e colombe, dove basta che uno solo dei giocatori abbia un prurito al dito sul grilletto, sia fatto fuori di testa, psicotico o paranoico.

    «Dov’è la roba?», chiesi.

    «Non lo so, primo. Dove sono i soldi?»

    «Tu non pensare ai soldi, dove cazzo è la chiva

    «Non lo so. Dove sono i soldi

    «Non lo so. Dov’è la chiva?».

    E si va avanti e indietro una decina di volte finché uno molla e mostra la sua parte per primo e si può procedere.

    Non c’è sbirro al mondo che abbia voglia di essere quello che mostra per primo i suoi soldi, perché se ha a che fare con giocatori sleali, appena glieli fai vedere, potrebbero farti fesso: tirano fuori la pistola, si prendono i quattrini e scappano.

    Quello che era successo a Paul Seema, George Montoya e José giù a Pasadena non era stato un tipico affare di droga andato storto. I criminali non uccidono tanto quanto rubano. Preferiscono tenerti sotto mira, prendersi la grana e filare.

    Io ero lì, nel mio bell’abito da uomo d’affari, a cercare di non respirare troppo a fondo in quella stanza d’albergo che puzzava come una cloaca, ad andare avanti in quel gioco di botta e risposta. Alla fine ho infilato una mano nella tasca della giacca e ho tirato fuori il contante, ma loro ancora non si decidevano a farmi vedere la roba.

    Poi, nel tempo di un respiro, il mondo intero è andato a gambe all’aria.

    La mia squadra di supporto – Mike Dawkins, Billy Queen, Doug Running Rabbit DaCosta e José Martinez – si è avventata sulla finestra. Dawkins ha fracassato il vetro con il calcio del suo fucile.

    Noi che eravamo dentro siamo rinculati, sorpresi dal fragore del vetro.

    Io ero mezzo paralizzato, stordito; ho visto Billy Queen, serafico, usare il suo fucile per ripulire il telaio dai cocci rimasti e poi scostare le tende ed entrare nella stanza dalla finestra. Dietro di lui, sempre dalla finestra sfondata: Dawkins, DaCosta, Martinez, tutti i ragazzi della squadra che sbraitavano prendendo possesso della stanza d’albergo. Non avevo mai visto niente del genere.

    Evidentemente c’era qualcosa di sbagliato e i miei colleghi lo avevano fiutato nell’istante stesso in cui io avevo mostrato i soldi. Il chilogrammo di catrame nero era da qualche altra parte. I trafficanti si erano impuntati, non volevano tirare fuori la roba.

    In mezzo a tutte quelle grida e alle girandole delle giacche a vento di DEA e ATF perquisimmo i criminali. Dopo qualche minuto trovammo un indirizzo di Bakersfield. Saltai sulla mia Corvette rossa del 1989, sequestrata durante un arresto di spacciatori e messa a mia disposizione, e partii a tutta birra per Bakersfield. Per prima cosa, andai subito da un magistrato californiano a farci dare un mandato di perquisizione.

    Quando entrammo all’indirizzo di Bakersfield… bingo. Trovammo più di quaranta armi da fuoco. Oltre a essere trafficanti di droga, i nostri amici erano anche mercanti illegali di armi. Qualche tempo dopo, grazie a un pressante interrogatorio, José e gli altri del Gruppo Quattro ottennero un altro indirizzo e trovarono il catrame nero.

    Ne risultarono un arresto e un sequestro di una certa importanza. Finì sui giornali di LA. Era stata la mia prima grossa operazione sotto copertura e non si era conclusa senza qualche intoppo, ma alla fine l’arresto c’era stato e nessuno dei nostri si era fatto male. Sulla scia dei ricordi ancora freschi della tragedia di Pasadena, il caso fu un successo

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