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Le grandi battaglie della seconda guerra mondiale
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E-book499 pagine7 ore

Le grandi battaglie della seconda guerra mondiale

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Info su questo ebook

Da Pearl Harbor allo sbarco in Normandia
La nostra storia nasce in queste pagine

Dal fronte italiano alla Russia, da Pearl Harbor allo sbarco in Normandia, tutti gli scontri decisivi dell’ultimo conflitto

La seconda guerra mondiale rappresenta senza ombra di dubbio lo spartiacque della storia del novecento, un evento unico per la ferocia dei combattimenti e il numero di persone coinvolte.

Il crudele bilancio finale parlerà di sessanta milioni di morti in uno scontro che, sui diversi fronti, non è stato solo una contrapposizione di eserciti, ma una lotta per la supremazia economica e militare, una sfida tra i totalitarismi e i nazionalismi da una parte e il mondo democratico dall’altra. Questo libro vuole ripercorrere le battaglie che ne hanno determinato l’esito, dal primo scontro in Polonia fino al suo epilogo a Berlino, in un’innovativa prospettiva comparativa. I teatri operativi qui descritti sono molteplici: si va dalla Guerra-lampo al Fronte orientale, dalla Campagna d’Africa al Fronte italiano, da quello occidentale al Pacifico, oltre alle battaglie che videro protagonisti in prima persona gli italiani e alla caduta finale del Reich. Un lavoro esauriente, indispensabile per chi vuole disporre di un compendio completo, ma anche un testo stimolante per chi si avvicina per la prima volta alla storia del nostro recente passato.

Le strategie, le armi e i protagonisti del conflitto che ha cambiato l’assetto del mondo

Tra le battaglie descritte nel libro:

• BLITZKRIEG, LA GUERRA-LAMPO
Battaglie della Bzura, di Narvik, Dunkerque, d’Inghilterra, Creta

• LE BATTAGLIE DEGLI ITALIANI
Campagna di Grecia e battaglie di Taranto, Capo Matapan, Amba Alagi, Nikolajewka

• FRONTE ORIENTALE
Battaglie di Kiev, Mosca, Stalingrado, Kursk

• FRONTE AFRICANO
Battaglie di Bardia/Beda Fomm, Tobruch, El Alamein, Kasserine

• FRONTE ITALIANO
Operazione Husky, Sbarco a Salerno, Battaglia di Cassino

• FRONTE OCCIDENTALE
Sbarco in Normandia, Battaglia di Arnhem, delle Ardenne

• FRONTE DEL PACIFICO
Battaglie di Pearl Harbor, Mar dei Coralli, Midway, Guadalcanal, Tarawa, Saipan, Iwo Jima, Okinawa


Giuseppe Rasolo
nato a Biella nel 1966, è vicepresidente dell’Istituto Storico di Varallo. Ha schedato i reperti militari del Museo del Territorio e contribuito alla realizzazione della nuova veste del Museo Militare degli Alpini di Biella, inaugurato nel 2011. Esperto in pubbliche relazioni e gestione dell’ufficio stampa, dal 2009 conduce il format televisivo Piemonte Notizie, dedicato alle eccellenze della sua regione, in onda sulle principali emittenti locali e sul canale 879 di Sky.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854156791
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    Anteprima del libro

    Le grandi battaglie della seconda guerra mondiale - Giuseppe Rasolo

    116

    Le cartine presenti nel volume sono tratte da:

    E. Rosati - A.M. Carassiti, Dizionario delle battaglie, Newton Compton, Roma 1996,

    e H. Michel, La seconda guerra mondiale, Newton Compton, Roma 2003.

    Prima edizione ebook: giugno 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5679-1

    www.newtoncompton.com

    Giuseppe Rasolo

    Le grandi battaglie

    della seconda guerra mondiale

    Dal fronte italiano alla Russia,

    da Pearl Harbor allo sbarco in Normandia,

    tutti gli scontri decisivi dell’ultimo conflitto

    logonc

    Newton Compton editori

    Questo lavoro è dedicato ai miei nonni,

    che sono stati attori in primo piano della storia del Novecento,

    alla mia famiglia (Adriano, Lucia, Nik e Michela)

    che mi ha seguito, aiutato e incoraggiato durante la stesura

    e agli amici Andrea, Giorgio e Raffaele

    che condividono con me la passione per la storia.

    Introduzione

    Lo spartiacque del secolo breve è senza ombra di dubbio la seconda guerra mondiale, un evento unico per lo scontro di civiltà alla base del conflitto e per la ferocia dei combattimenti. Il crudele bilancio finale parla di sessanta milioni di morti per una lotta che, sui diversi fronti, non è stata solo una contrapposizione di eserciti, ma di etnie, spesso seguendo l’assurdo principio del predominio di razza. E ancora, è stata uno scontro per la supremazia economica e militare, una sfida tra i totalitarismi e i nazionalismi da una parte (tedesco, giapponese e italiano) e il mondo democratico dall’altra. Una sorta di seguito del primo conflitto mondiale, che aveva lasciato tanti nodi irrisolti, ma al contempo anche una guerra tecnologica, sperimentale e soprattutto di movimento.

    Al di là delle sintesi, però, ciò che è certo è che nulla sarebbe stato mai come prima: in poco più di sette anni era veramente cambiato il mondo. A cambiare erano anche gli interpreti principali: mentre all’inizio si fronteggiavano Germania da una parte e Inghilterra e Francia dall’altra, alla fine del conflitto il baricentro dell’economia e della potenza militare non sarà più l’Europa, bensì gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.

    Ma come è cambiata questa guerra? Attraverso scontri epici, frutto del confronto di eserciti, di generali, di mezzi. Del resto, il progresso tecnologico passa anche attraverso le battaglie, come giustamente ricordava il teorico militare Carl von Clausewitz: «[...] la guerra non è altro che la prosecuzione dello scontro politico»¹. Ma c’è uno storico che più di ogni altro ha lasciato in eredità un nuovo metodo di analisi bellica, John Keegan, morto nel 2012. Nella sua visione, infatti, la battaglia è fatta da uomini e la svolta può essere decisa da un particolare, da un dettaglio, dal caso. L’attenzione a questi aspetti empirici è ciò che crea l’interesse per lo svolgimento dei singoli episodi.

    Lo scopo di questo libro, in tale ottica, è dunque proprio quello di puntare sui simboli, sui particolari, sull’evento militare, sull’individuazione della strategia per poi raccontarla in modo semplice e diretto, cercando di coinvolgere il lettore e di condurlo attraverso il secondo conflitto mondiale, e mettendo in risalto le varie tappe e le battaglie più importanti, considerate come crocevia di un percorso difficile e complesso che ha stravolto la storia dell’umanità.

    Per dare un senso logico alla narrazione degli eventi, ho scelto di privilegiare i teatri di guerra e le operazioni militari di rilievo afferenti a ciascun fronte. Ogni sezione è a sé stante, e vi si ripercorrono cronologicamente i momenti salienti, le tattiche e i contendenti di un singolo scontro, all’interno di un particolare scenario bellico.

    Si parte dalla Guerra-lampo, la fase della facile conquista messa in atto dalla Wehrmacht, che va dalla battaglia di Bzura in Polonia – il test probante che spinge Hitler a insistere e a modificare l’impiego delle truppe corazzate – all’occupazione del mare del Nord, necessario per garantirsi lo spazio vitale e poter sfruttare i giacimenti e le risorse della Norvegia. Ripercorreremo la rivincita di Hitler contro i francesi, e la grande vittoria sul fronte occidentale. C’è la battaglia delle attese: quella d’Inghilterra, uno scontro aereo che è servito a definire scopi e obiettivi nel corso della guerra. E a chiudere il Blitzkrieg, c’è la conquista di Creta, grazie a un forte impiego di truppe aviotrasportate.

    Si prosegue con la partecipazione del nostro Paese al conflitto: si comincia con la guerra sui mari, lo scontro per il predominio nel Mediterraneo con l’Inghilterra e le brucianti sconfitte di Taranto e di Capo Matapan, e si prosegue poi con la disastrosa spedizione contro la Grecia, che segna il definitivo tramonto della stella militare italiana e di Mussolini, la pagina dell’Amba Alagi – con la scomparsa dell’impero tricolore in Africa orientale –, e infine la lotta dei reparti alpini per sfuggire all’accerchiamento dalle armate sovietiche a Nikolajewka.

    Capitolo a parte è quello del fronte orientale, il più temuto da Hitler, che nella sua ottica degenera in uno scontro per la supremazia della razza ariana sul nemico sovietico. L’Operazione Barbarossa è preparata e studiata per un anno con il preciso obiettivo di disfarsi dell’avversario più pericoloso: i bolscevichi. L’avvio è a Kiev, il secondo atto – fallito – è l’Operazione Tifone per la conquista di Mosca, il primo grande smacco per le truppe tedesche, costrette a indietreggiare dalla capitale quando erano giunti a soli 22 km dall’obiettivo. Stalingrado è una tragedia annunciata, l’apogeo della potenza nazista e la sua più fragorosa caduta, una lotta disumana non per il possesso di un territorio ma per la sopravvivenza, mentre il colpo di coda è a Kursk, la battaglia dei carri armati, l’ultimo tentativo della Wehrmacht di cambiare il destino della guerra su quel fronte.

    Dalle steppe russe al caldo dell’Africa il passo non è breve. È uno scenario differente, ovattato, lontano, di scarso interesse per mezzi e uomini, anche se alla fine risulterà determinante, come dimostrano le scorribande degli eserciti italiano, tedesco e inglese e dei loro comandanti Graziani e O’Connor, nonché di Rommel e Montgomery (Beda Fomm, Tobruch ed El Alamein); qui avverrà il primo interessante confronto fra i tedeschi e le truppe americane, al Passo di Kasserine.

    Al fronte di casa nostra sono dedicati tre episodi determinanti: la conquista della Sicilia (che porta alla caduta finale del fascismo in Italia), lo sbarco a Salerno in prossimità dell’armistizio firmato dal governo italiano presieduto da Badoglio e la tremenda battaglia per l’accesso a Roma che ha luogo sulle colline intorno a Cassino, uno scenario che consente agli Alleati di allenarsi per lo scontro definitivo sul fronte occidentale.

    Con lo sbarco in Normandia inizia la fase finale della guerra. Gli americani e gli altri Alleati riescono a sbarazzarsi (non senza qualche difficoltà) della resistenza tedesca, prima in Francia e poi – nonostante due ultimi tentativi ad Arnhem e a Bastogne – direttamente sul suolo tedesco.

    La guerra nel Pacifico è un capitolo a parte: qui i contendenti sono l’impero giapponese da una parte e tutti gli Alleati dall’altra, con gli americani a fare la parte del leone. I teatri di guerra sono particolari, esotici: isole, giungle, mari; è una battaglia di mezzi vinta da chi ne possiede di più, e in questo senso gli statunitensi non hanno rivali. È anche uno scontro fra civiltà differenti, tra quella antica, frutto della saggezza orientale giapponese, e quella moderna americana, e anche in questo caso la molla economica diventa la spinta necessaria per infiammare quel teatro di guerra. Il passaggio obbligato è rappresentato da Pearl Harbor, poi il Mar dei Coralli, Midway e Guadalcanal nella prima fase, quella per il predominio della sfida. Poi si passa alla guerra degli atolli e agli scontri in mare che sanciscono la fine dell’impero giapponese e delle sue velleità: Tarawa, Saipan, Peleliu, Leyte, Iwo Jima e Okinawa saranno tappe inevitabili per la riconquista dei territori occupati dai nipponici e per decretare la fine della guerra nel Pacifico.

    Il libro si conclude con l’atto finale: la battaglia di Berlino, che sancisce il crollo definitivo del Terzo Reich e delle velleità del Führer di creare un ordine nuovo mondiale.

    Per ogni battaglia, è stato scelto di raccontare lo scontro enunciando dapprima il teatro in cui si consumava la sfida, e poi mettendo in evidenza quelle che erano le forze in campo. Lo svolgimento temporale dello scontro è fondamentale per comprendere lo sviluppo dell’azione. Il fatto di presentare i contendenti serve, invece, per conoscere da vicino i protagonisti di ogni singolo combattimento, così come le schede dei mezzi, degli equipaggiamenti e delle armi che hanno contribuito direttamente all’esito della battaglia.

    L’obiettivo ultimo è quindi quello di fornire al lettore uno strumento che aiuti a comprendere una storia che è fatta anche di uomini, delle loro sofferenze, del loro orgoglio e delle difficoltà incontrate, e per approfondire in modo capillare la conoscenza di questo periodo cruciale.

    1 Carl von Clausewitz, On War, Penguin Classics, Londra 1985, p. 108.

    Blitzkrieg, la Guerra-lampo

    (1939-1941)

    cartina

    Battaglia della Bzura

    Campagna di Polonia (9-19 settembre 1939)

    Scenario

    La prima guerra mondiale aveva lasciato in Europa una situazione irrisolta, sia a livello politico che economico, perché non aveva fatto altro che esasperare molte delle conflittualità emerse tra le potenze in campo. Gli imperi che si erano disgregati dopo il conflitto avevano lasciato in eredità illusioni e macerie difficili da gestire. I vincitori si ritenevano gli artefici dei destini del mondo e decisi ad annientare militarmente e politicamente gli avversari; i vinti, defraudati dei propri confini, delle proprie ricchezze e dell’orgoglio nazionale, nonostante la lunga lotta che aveva richiesto sacrifici immensi.

    L’ascesa dei regimi totalitari negli anni Venti e Trenta dipende in parte anche dalla volontà di rivincita postbellica, di mostrare i muscoli per riparare alle ingiustizie subite nel conflitto precedente. La Germania, più di ogni altra nazione, ne esce ridimensionata, con l’onta di una pace punitiva senza che il proprio suolo venga calpestato dalle truppe alleate. Il riarmo tedesco è lento ma inesorabile, così come la voglia di riappropriarsi della visibilità e della potenza che l’avevano resa una forza economica e militare all’inizio del secolo. L’annessione dell’Austria e dei Sudeti (così come l’invasione della Polonia) non sono che una tappa di avvicinamento al definitivo regolamento di conti con Francia e Inghilterra.

    Questa volta le potenze alleate non accondiscendono alle pretese naziste e quindi Hitler si trova nelle condizioni di rivolgersi verso est nel più breve tempo possibile. La Polonia rappresenta così una sorta di test – un tentativo probante, come vedremo – per comprendere e sperimentare le tattiche militari, ma anche per fare delle valutazioni su un sistema bellico che prevede velocità di movimento, rapidità di esecuzione e, possibilmente, il minor consumo e il miglior utilizzo di risorse umane e materiali.

    Non è una campagna facile, a dispetto di commenti persino autorevoli di storici che la bollano come rapida e indolore; ci sono difficoltà, talvolta errori di valutazione e con ogni probabilità – senza l’aiuto delle truppe sovietiche a est e grazie anche alla scarsa operatività sul fronte occidentale da parte di quelle francesi – la campagna avrebbe avuto ben altro esito.

    Alle 4:15 del mattino del primo settembre 1939 il cannoneggiamento della guarnigione polacca di Westerplatte da parte dell’incrociatore tedesco Schleswig-Holstein dà il via alle ostilità. Hitler ha avocato a sé la gestione dell’esercito, della Marina, dell’aviazione, della produzione bellica e della stessa propaganda nell’Oberkommando (OKW), il comando supremo tedesco: questo per sbarazzarsi della strategia bellica troppo attendista e poco propensa allo scontro, maturata da Werner von Blomberg, ministro della guerra nel 1938, da Werner von Fritsch, capo dell’esercito, e da Ludwig Beck, capo di Stato Maggiore dell’esercito. In tal senso, il Führer dimostrerà fin dall’inizio di provare una certa idiosincrasia nei confronti dei comandi militari, responsabili – secondo lui – anche dei rovesci e dei disastri della prima guerra mondiale. Per Hitler il fulcro dell’esercito e della Wehrmacht è il fante tedesco, abituato a soffrire e a raggiungere l’obiettivo in ogni condizione. Il dittatore inoltre disprezzava i propri generali, persino i migliori, come Rommel e Guderian, che in futuro saranno destituiti.

    Hitler voleva azioni rapide e in profondità, ecco perché pretendeva la creazione di divisioni corazzate e motorizzate capaci di grande mobilità, che agissero con il contributo determinante dell’aviazione. I primi risultati gli daranno ragione: l’armata tedesca che si muove dalla Prussia orientale costringerà l’armata polacca Modin a ritirarsi sulla linea della Vistola fin dal 2 settembre. Il 5 settembre cade l’importante centro di Piotrków e le armate polacche disposte al centro e a sud riceveranno l’ordine di ritirarsi dietro la Vistola. Il 7 settembre i panzer raggiungeranno la periferia di Varsavia. L’armata polacca Poznań lancerà, però, un contrattacco lungo la linea del fiume Bzura, che spezzerà l’iniziativa tedesca e troverà impreparata l’VIII armata della Wehrmacht.

    Gli schieramenti

    Prima di entrare nel dettaglio della battaglia della Bzura, è opportuno soffermarsi sulle tattiche e sugli armamenti dei due schieramenti opposti. Nel momento in cui inizia la campagna di Polonia, erano sei le divisioni corazzate tedesche schierate, con in dotazione carri leggeri: i PZKPFW 3 e 4, che però entreranno in scena solo in una seconda fase.

    La vera forza dirompente è quella aerea: dal 1934 la produzione era passata da poco meno di mille apparecchi all’anno a circa 6000, e alcuni di questi erano decisamente all’avanguardia, come il caccia M109 o il cacciabombardiere M110. Diverso il discorso per l’aviazione polacca, che poteva contare su circa 2000 aerei, ma di questi poco più del dieci per cento può competere con la Luftwaffe.

    La Wehrmacht schiera le sue migliori forze in due gruppi di armate con 37 divisioni di fanteria, una divisione da montagna, 4 divisioni leggere, 6 divisioni corazzate, alle quali i polacchi contrappongono 23 divisioni di fanteria, 8 brigate di cavalleria, 3 alpine e una motorizzata. Il rapporto numerico delle truppe di fanteria è a favore dei tedeschi, ma non di molto (559 battaglioni di fanteria contro i 376 polacchi). Diverso il discorso per quanto riguarda l’artiglieria: 5085 sono le bocche da fuoco tedesche, che andavano dai moderni pezzi da 105 e 150 ai vecchi cannoni da 77 in uso nel primo conflitto mondiale. Poche, invece, le risorse per le truppe polacche, costituite da vecchi cannoni austroungarici.

    Le forze corazzate tedesche dispongono di 2511 carri, che contano tra i loro pezzi migliori i panzer 4 armati con cannoni da 7,5. La potenza di fuoco polacca è costituita dalle tankette, piccoli cingolati armati di mitragliatrici, e da pochi carri armati Vickers commissionati e consegnati dalla Gran Bretagna prima della guerra, ma queste unità non erano comunque in grado di competere con i PZKPFW tedeschi. L’unità d’élite dell’esercito polacco è costituita dalle divisioni di cavalleria, che già si erano distinte nel 1920 contro i bolscevichi perché non esisteva un rete stradale efficiente e le zone del Pripet erano molto paludose, come avrebbero imparato a loro spese i tedeschi un paio d’anni dopo, durante l’Operazione Barbarossa.

    La differenza la fanno anche le armi automatiche: le truppe scelte germaniche hanno in dotazione le MP38, mentre quelle polacche combattono con moschetti automatici MORS (modello 39), non considerati molto efficaci. Anche nella sussistenza, il vantaggio su cui può contare la Wehrmacht è notevole: a fronte di 930 veicoli a motore e 600 motociclette, le truppe polacche contrappongono solo 76 autocarri. Sulla Bzura, i tedeschi dispongono di 12 divisioni di fanteria, 5 motorizzate e corazzate, per un totale di 425.000 uomini, mentre i polacchi 8 divisioni di fanteria e 4 brigate di cavalleria, per un totale di 225.000 soldati.

    La battaglia

    Il 7 settembre, l’avanzata repentina delle truppe tedesche scombina i piani della difesa polacca, messa a punto dal capo di Stato Maggiore Rydz-Śmigły, militare di lungo corso che aveva combattuto nelle file dell’esercito austroungarico. Fondatore della polizia polacca nel 1918, aveva avuto un ruolo preminente nella guerra contro i bolscevichi ed era stato ministro della guerra. Era, dunque, un militare vecchio stampo, abituato a tattiche da guerra di posizione; all’interno dello Stato Maggiore polacco, però, altri generali suggerivano di passare all’offensiva, un modo come un altro per costituire una linea difensiva salda che consentisse di non soccombere all’indiscutibile manovrabilità tedesca. Le truppe nemiche, infatti, cercavano di stringere in una morsa quelle polacche, con l’avanzata della IV armata tedesca lungo la Vistola fino a Thorn, mentre la III era riuscita a sfondare a Mlava e cercava di prendere alle spalle la capitale Varsavia. Cracovia era caduta e la guerra sembrava ormai predeterminata.

    È in questo momento di difficoltà che il capo delle truppe polacche Rydz-Śmigły ordina all’armata Poznań e al suo comandante, Tadeusz Kutrzeba, di attaccare il fianco esposto dell’VIII armata tedesca a Kutno. L’attacco improvviso e inaspettato mette in difficoltà le truppe germaniche, che si ritirano dai sobborghi di Varsavia: in particolare, due divisioni di fanteria (la 24ª e la 30ª) subiscono forti perdite; si tratta del primo smacco per la Wehrmacht. L’attacco sferrato da tre divisioni di fanteria al centro, coadiuvate da unità di élite della cavalleria polacca, sfonda la linea tedesca costringendo i nemici alla ritirata. In questo modo, quasi 2000 militari tedeschi verranno catturati nel primo giorno di combattimento. Il generale della Wehrmacht Blaskowitz aveva mandato in profondità le proprie truppe senza dar loro un’adeguata copertura di carri e di artiglieria, e il ripiegamento era stato quindi l’unica soluzione possibile.

    Il risultato atteso e sperato dai polacchi è l’allentamento della morsa sulla capitale: in effetti, il feldmaresciallo tedesco Gerd von Rundstedt richiamerà due divisioni corazzate, ma non commetterà l’errore di un attacco diretto, che sarebbe risultato dispendioso, attirando piuttosto le forze polacche in una sacca. La superiorità di mezzi e l’uso combinato di forze aeree e corazzate di fatto permetterà di accerchiare, nel breve volgere di 48-72 ore, le truppe polacche dell’armata Poznań. La sproporzione di forze induce il capo di Stato Maggiore polacco a ordinare la ritirata a Kutrzeba, con sole 9 divisioni di fanteria e 2 brigate di cavalleria contro le 19 tedesche; cerca così di sganciarsi dal nemico, puntando dapprima verso sud, poi verso est in direzione della capitale, attraversando l’abitato di Sochaczwez.

    I tedeschi utilizzano in modo massiccio la loro forza aerea (quasi mille apparecchi), bombardando ininterrottamente le colonne in ripiegamento. Ingenti le perdite per i polacchi; la difesa crolla definitivamente il 18 settembre, non prima di aver lasciato alle proprie spalle 120.000 prigionieri. Alcuni reparti riescono a uscire dalla sacca e si congiungono alle altre armate schierate a difesa della capitale. Se l’offensiva polacca si fosse organizzata fin dalle prime battute della guerra, questa avrebbe potuto avere ben altro esito, anche in considerazione del massiccio utilizzo delle truppe di cavalleria: in questo caso, invece, si tratta solo di una manovra di alleggerimento che non pregiudica il corso degli eventi. Solo due divisioni di fanteria e due brigate di cavalleria riescono a sfuggire all’accerchiamento riparando nella foresta di Kampinos.

    I combattimenti cessano il 19, anche se alcuni focolai di resistenza resteranno ancora attivi fino alla mattina del 21. All’alba di quel 19 settembre, dunque, quasi un terzo dell’esercito polacco è stato messo fuori combattimento. Nel frattempo, la discesa in campo della Russia dà il colpo di grazia alle flebili speranze dei polacchi, che puntavano a una guerra difensiva nella speranza di un intervento francese e inglese. Gli ultimi giorni della campagna di Polonia serviranno solo a definire le aree di competenza degli eserciti invasori tedeschi e russi. Il 24 settembre, con la battaglia della Bzura ormai definitivamente alle spalle, la Wehrmacht completa l’accerchiamento di Varsavia con un terzo delle forze presenti in Polonia.

    Le armate di von Rundstedt isolano la città da sud a ovest, posizionando più di mille pezzi d’artiglieria per l’assedio. Il 25 settembre, ribattezzato in seguito dai polacchi il lunedì nero, più di 1200 bocche di fuoco distruggono gran parte delle difese locali, uccidendo più di 40.000 civili. Il 27 settembre Varsavia capitola e con essa si arrendono 120.000 soldati: la campagna è al suo epilogo.

    La battaglia evidenzia il concetto di guerra totale e di movimento: un’attività congiunta di forze corazzate e forze aeree che consente rapide avanzate in profondità dietro le linee nemiche, mentre la fanteria ha il compito di eliminare le sacche di resistenza. L’importanza dei mezzi corazzati e delle comunicazioni tra reparti, per un rapido ed efficace utilizzo delle forze, fa poi il resto. I polacchi non sono inferiori ai tedeschi, ma le novità introdotte nei combattimenti (testati proprio su quel fronte) dimostrano quanto le tecnologie belliche siano cambiate e che il concetto stesso di guerra di posizione – caratterizzato da lunghe attese su di un fronte statico, come era accaduto nel primo conflitto mondiale – sia definitivamente tramontato. Il grosso delle forze polacche cessa le ostilità il 29 settembre. L’ultimo generale a deporre le armi è Franciszek Kleeberg, a Klok, il 6 ottobre. La prima battaglia della seconda guerra mondiale si conclude così con il pieno successo delle truppe della Wehrmacht e di Hitler.

    Conseguenze

    La battaglia della Bzura è l’episodio centrale della campagna polacca. Combattuta in una decina di giorni, come abbiamo visto porterà all’annientamento di un terzo delle forze polacche, che registreranno 20.000 morti, 35.000 feriti e 120.000 prigionieri, mentre i tedeschi in questo scontro riporteranno la metà esatta dei caduti dell’intera campagna d’invasione polacca, 8000 uomini e 4000 prigionieri quasi tutti dell’VIII armata. Viene, inoltre, distrutta una cinquantina di carri armati.

    Le perdite umane sono relativamente limitate, se raffrontate alla carneficina della Grande Guerra. Nel corso di tutta la guerra, i polacchi conteranno 70.000 caduti, il doppio di feriti e oltre 600.000 prigionieri in mano ai tedeschi, mentre altre 100.000 unità verranno catturate dai russi. In particolare, Stalin si preoccuperà di cancellare la classe militare polacca eliminando fisicamente gli ufficiali (ne sono un esempio le fosse comuni di Katyn), una sorta di vendetta per il summenzionato attacco del 1920 che aveva visto la sconfitta delle truppe bolsceviche. Non tutte le divisioni polacche sono catturate: circa centomila uomini riparano nelle repubbliche baltiche e in Romania e da lì raggiungono poi Francia e Inghilterra, dove negli anni successivi costituiscono il nerbo delle brigate che avrebbero poi combattuto con onore su tutti i fronti europei.

    Per la Wehrmacht, questa prima battaglia è un banco di prova importante: le perdite di mezzi, in alcuni casi significative (la 4ª divisione di panzer viene privata di 81 carri su 100 a disposizione), hanno dimostrato che le battaglie si vincono non solo per la perizia dei propri comandi militari, ma anche per il quantitativo di materiali che si hanno.

    La campagna dell’esercito tedesco, tuttavia, serve anche a mettere in luce alcune manchevolezze: le divisioni leggere motorizzate hanno offerto risultati fallimentari poiché mancano, da una parte, della forza della fanteria, e dall’altra non dispongono della potenza di fuoco di quelle corazzate. Quindi vengono trasformate in panzer, che risulteranno determinanti nella sfolgorante vittoria della primavera 1940 e, dal momento che dispongono di poca fanteria, vengono rinforzate con altri uomini. La Luftwaffe pianifica meglio i propri attacchi e si coordina con le forze di terra.

    Hitler quindi utilizza la Polonia come banco di prova militare, ma non solo per questo: le SS e i loro battaglioni cominciano purtroppo a entrare in azione in modo sistematico contro le popolazioni civili inermi. Quello sul fronte orientale è uno scontro particolare, dove in palio non vi è solo la supremazia bellica, è piuttosto una lotta di razza tra quella ariana profetizzata dal Führer e quella dell’Est Europa, è uno scontro per lo spazio vitale, un conflitto per la sopravvivenza. Gli episodi in cui sono coinvolte le SS portano alcuni comandanti a censurare pubblicamente l’operato di questi reparti e in alcuni casi, come quello che vede protagonista il generale Blaskowitz, a emettere sentenze di condanna a morte per crimini di guerra di alcuni elementi. Nel caso specifico, però, interverrà lo stesso Führer in persona commutando la pena per le SS. Sono i primi screzi che si verificano con i comandi, tanto che Hitler preferisce di gran lunga l’ardore e il coraggio dei soldati a quello dei suoi generali. Un atteggiamento che si acuirà nel corso della guerra e che lo porterà di volta in volta a sbarazzarsi di quei generali che avranno l’ardire di contraddirlo sulle tattiche e sulla condotta delle varie campagne, privilegiando e premiando i semplici fanti o i reparti delle truppe speciali.

    Personaggi

    Tadeusz Kutrzeba (Cracovia 1886 – Londra 1947)

    È a capo della Poznań, quella che nel 1939 crea problemi all’VIII armata tedesca. Come tutti coloro che vogliono intraprendere una carriera militare in Polonia, aveva studiato all’accademia di Stato Maggiore di Vienna, dove nel 1913 si era laureato in ingegneria. Promosso tenente, è di stanza a Sarajevo quando viene assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando. Durante la prima guerra mondiale viene impiegato come ufficiale di collegamento sia nei Carpazi sia sul fronte italiano, interessandosi soprattutto del sistema di fortificazioni. Spostato in Transilvania nel 1916, viene trasferito a nord dopo l’offensiva dell’estate del generale Brusilov; la fine della guerra lo trova nell’esercito austriaco sul Danubio.

    La dissoluzione dell’impero austroungarico e il suo congedo lo riportano in patria e l’assenza di ufficiali poco istruiti lo favorisce nella scalata alle cariche militari più prestigiose, così come l’imminente guerra del 1919/20 contro i bolscevichi. Si distingue nella battaglia di Varsavia: a capo della II armata, partecipa alla battaglia di Bialystock (1920). Dopo la guerra contro la Russia, viene promosso generale e nel 1928, vista l’esperienza maturata nel corso del primo conflitto mondiale, diventa il nuovo comandante della Scuola superiore di guerra polacca, che viene da lui riorganizzata con nuovi metodi di preparazione. Esperto dei sistemi di guerra tedesca, cerca di imporre alle forze armate del proprio Paese nuove strategie legate alla mobilità in guerra, ma lo scoppio del conflitto non gli consente di concludere l’auspicato rinnovamento. Profondo conoscitore della storia militare e autore di saggi di tattica, viene catturato dai tedeschi nel settembre del 1939 e passa il resto del conflitto come prigioniero di guerra, internato in diversi campi. Liberato, si trasferisce a Londra, dove si dedica a studi storici. Muore di cancro nella capitale britannica nel 1947.

    Johannes Albrecht Blaskowitz (Peterwalde 1883 – Norimberga 1948)

    Prussiano e con la passione bellica nel sangue, con il grado di capitano partecipa a tutte le operazioni sul fronte orientale durante la Grande Guerra. Nominato ufficiale della Reichswehr (nome dato all’esercito tedesco dopo il trattato di Versailles dal 1919 al 1935) durante la Repubblica di Weimar, nel 1936 diviene generale della Wehrmacht. La campagna di Polonia lo vede al comando dell’VIII armata, forte di 4 divisioni di fanteria e di 2 corpi d’armata, di cui uno d’artiglieria. Sorpreso dalla tattica polacca, ha il merito di non farsi prendere dalla foga della battaglia e con von Rundstedt riesce ad accerchiare l’esercito polacco. Decorato con la Croce di cavaliere – uno dei primi a riceverla alla fine della campagna del 1939 – viene promosso al rango di colonnello generale e successivamente comandante militare del fronte orientale fino al maggio 1940.

    Proprio in questo periodo invia al Führer diversi rapporti che provano le atrocità delle SS nei territori occupati, crimini che lo stesso Blaskowitz, soldato della vecchia guardia, definisce indegni, di fatto impedendo alle sue truppe di partecipare a tali azioni. Per questo motivo, viene trasferito nella Francia settentrionale. Qui si trova impegnato a contenere gli attacchi delle truppe americane nel ’44, ma nuovi dissidi con l’Alto Comando lo relegano a riposo nella riserva. Gli uomini ai suoi ordini avranno solo un ruolo di supporto nell’offensiva delle Ardenne. L’ultimo incarico è al comando delle truppe tedesche in Olanda, per poi arrendersi agli americani il 5 maggio 1945. Accusato di crimini di guerra, si suicida prima della fine del processo di Norimberga.

    Armi, equipaggiamenti e mezzi

    MP38/40

    Meglio conosciuta come "Machine Pistole", il modello .38 e il successivo .40 traggono la loro origine dall’Erma M58 utilizzata in Sud America alla fine degli anni Venti, usata con successo anche nella guerra civile spagnola. Il modello MP38 entra in produzione nel 1938 e costituisce – con tutte le sue varianti MP38/40/40.1 – uno dei migliori prodotti bellici realizzati dall’industria tedesca. Lunga poco meno di un metro (83 cm) per un peso di 3,9 kg, con una canna da 25 cm, un sistema di alimentazione da 32 colpi sparati in rapida successione per un raggio di azione efficace sui 100 metri, era armata con cartucce 9x19 parabellum.

    L’arma preferita dai paracadutisti, dai carristi e dai gruppi di fuoco veloce per la precisione e rapidità di tiro, non veniva però distribuita a tutto l’esercito: vista la scarsità di materia prima (acciaio, sostituito poi con bachelite) del periodo, era difficile produrla in grandi quantità, e per questo la fanteria utilizza prevalentemente i fucili 98K. Dopo aver visto in azione intere unità nemiche, come nella battaglia di Stalingrado, armate di fucili mitragliatori, anche la Wehrmacht adotterà una nuova arma derivata dall’MP40: l’MP43/44, noto anche come STG44.

    Modello WZ 39 MORS

    Fucile mitragliatore dal nome sinistro (morte in latino, anche se aveva un altro significato in polacco), realizzato utilizzando come modello l’Erma tedesco, entra in produzione nella primavera del 1939. Solo alcuni reparti potevano disporre di questo fucile mitragliatore della lunghezza di 97 cm e del peso di 4,5 kg. La canna di 30 cm indirizza il tiro che ha un raggio di più di 400 metri. Con il calcio in legno e l’impugnatura di una normale pistola, poteva essere armato con cartucce 9x19 parabellum grazie a un sistema di alimentazione da 24 pallottole. Il suo utilizzo, seppur limitato, durante l’assedio di Varsavia non darà buoni risultati.

    Panzerkampfwagen III

    Il Panzerkampfwagen III è un carro armato tedesco e la sua fabbricazione risale al 1935, quando le aziende tedesche sono incaricate di realizzare un mezzo blindato della portata di 15 tonnellate. Il risultato è eccellente, soprattutto per la sua facilità di assemblaggio, in quanto torretta e scafo possono essere costruiti altrove, con evidenti vantaggi per la produzione. Numerose le varianti atte a provvedere a un suo rinforzo per la corazza, ma anche per l’armamento e sugli stessi cingoli.

    Poteva disporre di un equipaggio di cinque uomini, mentre la sua superficie prevedeva una lunghezza di quasi 6 metri e una larghezza di 3. Aveva un’autonomia di 175 km con la velocità massima di 40 km/h. Armato con un cannone da 75 e con due calibri di mitragliatrice da .7,92, aveva in dotazione 64 granate e 3500 cartucce. Ha il suo battesimo del fuoco proprio nella campagna di Polonia come supporto ai più leggeri PZKPFW I e II, ma il suo ottimo impiego in questo teatro di guerra ne accelererà la produzione in serie, per essere pronto nella primavera del 1940.

    Tankette Vickers

    Di produzione inglese, non è altro che un leggero carro corazzato del peso di cinque tonnellate, di buona manovrabilità e velocità (50 km/h), con un equipaggio di tre persone: autista, mitragliere e ufficiale addetto al pezzo. L’armamento principale è composto da una mitragliatrice Vickers da 0,50 pollici fissata su una torretta rotante; verrà utilizzato con successo anche nelle campagne dell’Africa orientale, soprattutto per la sua duttilità su terreni impervi. Di supporto alla fanteria, questo carro armato leggero nulla potrà contro i ben più potenti panzer, rendendo lo scontro sul teatro di guerra polacco impari.

    Battaglia di Narvik

    «Operazione Weserübung»

    (9 aprile – 28 maggio 1940)

    Scenario

    Dopo la conquista della Polonia, la guerra subisce uno stallo di alcuni mesi. L’obiettivo di Hitler è quello di rivolgersi a occidente perché, nella sua ottica, la Francia meriterebbe una lezione, ma al contempo il Führer non vuole lanciarsi in manovre avventate. La campagna di Polonia ha dimostrato che, con una preparazione accurata, è possibile ripetere quel successo su scala molto più vasta. Anche in Francia quindi si può applicare la strategia della Guerra-lampo e l’attacco va preparato ripercorrendo magari la strada già indicata dal piano di von Schlieffen del 1906 (che prevedeva l’attacco contro la Francia passando attraverso il Belgio e l’Olanda in modo da sconfiggere repentinamente l’esercito francese per poi potersi dedicare al fronte orientale), non completamente attuato nel corso della Grande Guerra. Un’aggressione attraverso l’Alsazia e la Lorena, tuttavia, non è praticabile: le due linee che si contrappongono (Maginot da una parte e Sigfrido dall’altra) sono impenetrabili e non possono essere attaccate frontalmente, ma solo scavalcate.

    Il tempo scorre e la tattica attendista della Germania nazista inizia a mettere in apprensione i governi di Francia e d’Inghilterra. La prima crede fermamente che l’attacco avverrà all’inizio della bella stagione, come era già successo nel 1916 a Verdun e nella Somme, ma in realtà l’attesa non è legata ad aspetti metereologici. Il Führer ha deciso di dare corso all’Operazione Weserübung (letteralmente: esercitazione del Weser), ovvero la conquista del Nord Europa prima di affrontare Francia e Gran Bretagna. La decisione viene presa a marzo, forse anche per dare respiro e preparare più nei dettagli l’auspicata disfatta francese. Forti di un lavoro accurato di intelligence, Inghilterra e Francia cercano alleanze e appoggi con i Paesi del Nord Europa, pensando a un rafforzamento della linea scandinava e inviando anche alcune truppe di supporto, ma la rapidità di esecuzione dei piani alleati è ancora ben lungi dall’essere paragonabile all’efficienza tedesca.

    L’ammiraglio Erich Raeder, non troppo entusiasta dell’apertura di un fronte a Nord, aveva cercato di convincere Hitler a tralasciare il piano per la Norvegia, ma non era riuscito nella sua opera di persuasione: il Führer era fermamente deciso a invadere Danimarca e Norvegia. Il 1 aprile 1940, quale prova generale dell’operazione, Hitler illustra al suo Stato Maggiore il piano redatto con il generale Nikolaus von Falkenhorst, soffermandosi su alcuni dettagli: è una sorta di lezione di strategia, con l’occupazione dei porti, lo sbarco di alcune divisioni di fanteria e di montagna e la conquista delle capitali Copenhagen e Oslo. La tattica prevedeva l’interazione completa tra Marina, esercito e aeronautica, com’era nello stile tedesco. Gli Alleati, nel frattempo, si perdevano in discussioni e ipotetici piani strampalati, come l’Operazione Royal Marines, messa a punto dagli inglesi. Essa prevedeva mine mobili sul Reno, ma aveva subito incontrato la ferma opposizione della Francia, preoccupata da eventuali ritorsioni tedesche contro le popolazioni dell’Alsazia. Hitler intanto aveva fissato la data di inizio delle operazioni da lì a sette giorni: l’8 aprile. E la Wehrmacht, con tutto l’apparato militare, era già pronta a eseguire gli ordini.

    Le forze in campo

    La Germania dispone di poche forze ma di élite. In questa operazione, la Marina tedesca viene schierata nella sua interezza con 22 navigli, 10 cacciatorpediniere su Narvik, l’incrociatore Hipper e altri 4 cacciatorpediniere su Trondheim, mentre a Bergen l’attacco è demandato agli incrociatori leggeri Köln e Königsberg, più una quindicina di vascelli di piccolo cabotaggio. Sulla capitale Oslo avrebbero operato gli incrociatori pesanti Blücher e Lützow, più una flottiglia di piccole imbarcazioni, cinque dragamine a Egersund con i due incrociatori pesanti (Scharnhorst e Gneisenau) a scortare i convogli deputati all’equipaggiamento e ai rinforzi. La Luftwaffe avrebbe pattugliato con metodo tutta l’operazione lanciando paracadutisti su Copenhagen.

    Due sono le brigate corazzate necessarie per la Danimarca, mentre la Norvegia sarebbe stata l’obiettivo di alcuni battaglioni alpini e di altri reparti di fanteria. In particolare, sul saliente di Narvik le forze tedesche possono contare circa seimila uomini tra truppe di terra, alpini, paracadutisti, oltre a marinai riqualificati come fanti. Gli eserciti alleati, invece, si affidavano a una forza navale di prim’ordine: una portaerei, cinque corazzate di prima classe, una quarantina di cacciatorpediniere, oltre a un numero imprecisato di navigli utili al trasporto di uomini e mezzi. In Norvegia si concentrano truppe inglesi, francesi, norvegesi e polacche, e il loro numero è di gran lunga superiore alla forze tedesche, ma la dispersione nel comando non aiuta la manovrabilità. Solo per il fronte di Narvik verranno schierati 25.000 uomini, in un rapporto di uno a cinque con le truppe tedesche, che ciò nonostante non risulterà decisivo.

    Lo scontro in Norvegia e la battaglia navale di Narvik

    In gran segreto, il 7 aprile i primi cacciatorpediniere tedeschi cominciano a solcare i mari con uomini ammassati sui ponti. Vengono utilizzati sistemi di camuffamento per fare in modo che le navi non siano identificabili. All’alba del 9 aprile le truppe varcano la frontiera e le navi entrano nei porti di Bergen, Trondheim, e Narvik. Ma, mentre la Danimarca cede senza combattere nel breve volgere di 24 ore, i norvegesi – grazie alle loro batterie costiere – si difendono; il re, accompagnato dai suoi ministri, lascia la capitale e raggiunge la parte settentrionale del Paese, da dove organizza la resistenza. L’occupazione dei porti, però, non sarà indolore per la Germania: l’incrociatore corazzato Breslau verrà affondato nel fiordo di Oslo, quello leggero Königsberg sarà

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