La pedina sulla scacchiera
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Edizione integrale
La pedina che si muove sulla scacchiera di un mondo devastato dalla crisi mondiale degli anni Trenta del secolo scorso è Christophe Bohun, anonimo impiegato nell’azienda dell’acciaio fondata dal padre, ma ormai finita nelle mani del socio, dopo un terribile crac finanziario. Christophe si sente “condannato a vivere”, si lascia trasportare dalla corrente, scegliendo di non avere iniziative, progetti, e neanche desideri e affetti: si fa manovrare dagli altri e dagli avvenimenti senza opporre nessuna resistenza, rimanendo indifferente a tutto e tutti. Ma il caso gioca per lui una mossa che forse potrebbe scuoterlo quando ritrova un elenco stilato dal padre, con i nomi di politici e personaggi influenti, corrotti dal vecchio cinico e spietato Bohun, perché spingessero presso il governo la corsa agli armamenti e lo salvassero dal fallimento. Questa potrebbe essere per Christophe l’occasione
per reagire e riscattarsi, oppure per seguire le orme paterne, perdendosi definitivamente nelle paludi del ricatto, dell’ignominia e dell’inerzia. Irène Némirovsky tratteggia con maestria e sobrietà il ritratto di un uomo disperato sullo sfondo di una nazione in crisi, in un grande romanzo che per molti aspetti anticipa e descrive la nostra inquieta realtà.
Irène Némirovsky
Nata a Kiev nel 1903 da una famiglia di ricchi banchieri di origini ebraiche, visse a Parigi dove, appena diciottenne, cominciò a scrivere. Nel 1929 riuscì a farsi pubblicare il romanzo David Golder, ottenendo uno straordinario successo di critica e di pubblico. Irène continuò a scrivere, ma presto fu costretta a usare un altro nome, perché gli editori, nella Francia occupata dai tedeschi, avevano paura di pubblicare i libri di un’ebrea. Nel luglio del 1942 fu arrestata e deportata ad Auschwitz, dove ad agosto, a trentanove anni, morì, lasciando incompiuto il suo ultimo capolavoro, Suite francese. La Newton Compton ha pubblicato anche Due; Come le mosche d’autunno - Il ballo; Il vino della solitudine; I cani e i lupi; Il calore del sangue - Il malinteso; Jezabel; Il signore delle anime; David Golder; I fuochi dell’autunno e la raccolta I capolavori.
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Anteprima del libro
La pedina sulla scacchiera - Irene Nemirovsky
I.
Per oggi è finita, disse tra sé a mezza voce Christophe Bohun, nell’ombra fitta della scala vuota.
Come al solito, era il primo a precipitarsi fuori dall’ufficio, come da una casa in fiamme. Ma, per un attimo, si appoggiò al muro freddo con una sensazione di piacere; era assetato di oscurità e silenzio; con mani tremanti frugò nervosamente nelle tasche del soprabito, prese il pacchetto di sigarette, l’accendino; estrasse una sigaretta con tale impazienza da spezzarla a metà; la buttò via, ne accese un’altra, aspirando con avidità il fumo.
Le dita erano ancora percorse da un leggero tremito. Si stropicciò a lungo le palpebre ferite dalla luce delle lampade, socchiuse gli occhi, sbadigliò, cominciò a scendere.
Una giornata era passata… Una giornata in meno da vivere… Grazie al cielo…
I passi degli impiegati che uscivano dagli uffici facevano vibrare gli scalini come un tuono lontano. Emergevano dalla tromba scura della scala, passavano veloci davanti alla vetrata illuminata dal giallo splendore del crepuscolo di ottobre, poi nuovamente erano assorbiti dall’ombra. Le lenti dei pince-nez, degli occhiali, colpiti dalla luce, si accendevano di un breve lampo che subito si smorzava. In basso la fiammella del gas diede un sibilo. L’edificio era vecchio; appariva scomodo e severo: Beryl aveva intenzionalmente conservato l’aspetto austero e da vecchia Francia
, voluto dal vecchio Bohun, che ispirava fiducia.
Christophe guardò scorrere la folla grigia degli impiegati, i cappelli sciupati, gli ombrelli neri, arrotolati e stretti al petto, i soprabiti lisi; ancora una volta, ascoltò il rumore che si alzava da quella marea di gente, respiri ansimanti, sospiri, frammezzati dai primi colpi di tosse dell’autunno. Qualcuno, passando, socchiuse la finestra, ma anche l’aria della strada era molle e pesante, intrisa di un vago sentore nauseabondo, come quella che fuoriesce da un’entrata della metropolitana. Giungevano a Christophe frammenti di frasi: «Charles, se arrivi prima di me, metti la minestra sul fuoco…».
«Se dovesse piovere, la aspetto nel corridoio della metropolitana…».
«Un alloggio di due vani con quattro ragazzini, si rende conto che è meglio la galera…».
Qua e là, tra i cappotti e i feltri scuri, il colore rosso di un cappellino femminile esplodeva come un ostinato grido di speranza. Christophe rallentò il passo per non essere spintonato, per non vederli più, né sentirli. Sorridono, parlano, quando dovrebbero fuggire la vista dei propri simili, e augurarsi la loro morte e la propria!
.
Finalmente scomparvero.
Da sotto la porta dell’ufficio di Beryl, filtrava ancora una lama di luce. La lucida targhetta di rame recava il nome di Beryl.
Il padrone…
Quante volte, pensò Christophe, aveva visto Beryl, quando ancora si chiamava solo Biruleff, curvo davanti a lui, davanti al figlio di James Bohun… Beryl era un uomo grasso, dalle carni molli, pallide e tremolanti come gelatina; ogni volta che lo vedeva la stessa associazione di idee si affacciava alla mente di Christophe; pensava a quei grandi storioni, freddi, bianchi, posati su un piatto e i cui occhi opachi e torbidi sembrano lanciare un ultimo sguardo altezzoso e diffidente. Aveva capelli radi e rossi, riportati sul cranio in piccoli riccioli distanti, lanosi, rossicci come il rame, e non si era trovata ancora una gommina abbastanza compatta e lucida da riuscire ad appiattirli e smorzarne la tinta. Parlava con una voce sempre in sordina, bassa e sibilante, come se temesse che ogni parola pronunciata potesse essere ripetuta e snaturata da mortali nemici: «Ah! Signor Christophe Bohun», mormorava scorgendolo e senza tendergli la mano la agitava fiaccamente da lontano abbozzando un sorriso.
La vecchia canaglia
, pensò Christophe, ma registrò con soddisfazione il moto di odio che scuoteva il suo tetro torpore. In quel momento, la maniglia sulla porta girò, e Beryl uscì. Christophe sfiorò con la mano la tesa del cappello; Beryl compì lo stesso gesto con uno sguardo freddo. Poi si calcò ulteriormente la bombetta grigia sulla faccia larga e pallida e cominciò a scendere; dietro di lui Christophe, più lentamente.
A cosa starà pensando?
, si chiedeva Christophe ironico, con una curiosità distratta. Di certo qualcosa come ‘partito dal nulla… fondata una ditta di importanza e fama mondiale’
.
Ricordò il discorso di Beryl, insignito il giorno prima di una onorificenza:
«Il grande, unico ideale della mia vita, la prosperità della Francia…».
E perché no? Quell’uomo che aveva cominciato alle dipendenze di James Bohun, il padre di Christophe, quel piccolo agente anonimo che aveva procacciato commesse per Bohun, che per lui aveva mercanteggiato acciaio e petrolio, adesso ricco, sposato, consolidato come denaro ripulito, aveva bisogno, come chiunque altro, di stima, di virtù e di amore. Perché no? «Signori, io ho consacrato la mia vita a un ideale, il prestigio della Francia all’estero, raggiunto con mezzi pacifici».
Christophe ripeté a mezza voce la frase sorridendo, cercò con lo sguardo la larga schiena rotonda già perduta nell’oscurità dei piani più bassi. Cos’altro aveva detto?
«Noialtri, Latini…».
Quest’ebreuccio, nato nei vicoli della Romania, l’agente di informazioni segrete di mio padre… Dopo tutto, è buffo…
.
Vicino all’uscita, all’improvviso pensò:
Probabilmente nel vedermi ha pensato soltanto: ‘io partito dal nulla! E adesso il figlio, il figlio di James Bohun andato in rovina, lavora nella mia ditta, confuso tra la massa anonima dei miei impiegati!…’
. Alzò le spalle, sporse le labbra in una piccola smorfia amara e stanca, mormorò con un sorriso:
«Ma che il diavolo se lo porti!…», e uscì.
Era una sera di ottobre, incerta tra la pioggia e le schiarite. A tratti il vento soffiava a raffiche, carico di un sapore forte e puro in cui si poteva ancora avvertire l’odore della campagna e delle libere distese. Oltre le nubi nere l’orizzonte era giallo; il marciapiedi bagnato era sdrucciolevole e lucente. Tra la folla, alcuni ragazzi con il viso ancora abbronzato, il collo dorato, facevano pensare alle vacanze trascorse e al mare.
Una donna guardò Christophe. Questi era sulla quarantina, la figura alta, asciutta e giovanile, il volto duro più vecchio della sua età, il naso ossuto, la bocca sottile, sdegnosa e stanca, dagli angoli profondamente incavati; sul labbro superiore i corti baffi, resi un po’ fulvi dalla nicotina, mostravano i primi peli bianchi.
Chissà?
, pensava in modo palese la donna. Perché no?
.
Lei lo fissò, gli sorrise; lui aveva abbassato gli occhi penetranti, e le palpebre larghe e bombate, orlate da lunghe ciglia, conferivano a tutto il volto una espressione indolente e sognatrice.
La donna rallentò il passo e dopo un momento si fermò. Ma lui, senza vederla, sfuggiva la strada, dove nel cielo oscuro lettere di fuoco, con un angoscioso spegnersi e riaccendersi, formavano una corona fiammeggiante.
B E R Y L
sul fastigio dell’edificio, e più in basso:
A G E N C E B E R Y L
I N F O R M A T I O N S
II.
Le automobili avanzavano lentamente verso l’Opéra, scorrevano come un fiume nero, traversato da riflessi e bagliori; di quando in quando si arrestavano, prese in un ingorgo. Si alzava allora un disumano frastuono, laceranti scampanellate, squilli di clacson, stridere delle ruote sull’asfalto untuoso dell’autunno. Nessuno vi faceva caso. I passanti continuavano a urtarsi senza vedersi, trascinati in correnti parallele. Serravano la mano sull’impugnatura degli ombrelli aperti, curvavano la schiena, si affrettavano, e i loro occhi stanchi sembravano rivolti all’interno, come se ciascuno contemplasse nel profondo dell’anima il proprio piccolo serpente familiare, il suo cruccio quotidiano.
Christophe salì nella sua macchina parcheggiata, piegò i giornali appena comprati, li gettò sul fondo, afferrò il volante, guardò irritato il vigile immobile e il cavallo dal manto lucido di pioggia, attese impaziente il segnale di partenza, sbuffò esasperato imprecando a bassa voce, scomparve.
Come ogni sera, si fermò nella strada vicina, davanti a un piccolo bar ancora vuoto e mal illuminato. Il barman sonnecchiava dietro il banco. All’entrare di Christophe si raddrizzò, agitò macchinalmente lo shaker, accese le lampade, attese l’ordinazione.
Christophe sedette, piegò il lungo corpo sul bancone sino a sentire la sbarra di metallo premergli sul costato. Con un profondo respiro, disse, come tutte le sere:
«Un quartino di champagne, José».
Il leggero tremito che gli percorreva le mani poco per volta spariva. Chiese:
«Tutto bene?».
Senza ascoltare la risposta, prese il giornale, lo poggiò davanti a sé, lo spiegazzò distrattamente, poi lo posò, ne aprì un altro. Non leggeva. Scorreva soltanto i titoli con uno sguardo spento. Ribasso del dollaro… Sciopero… crisi… deficit del bilancio… Marcia della fame su Londra… Sciopero… crisi…
.
Aveva mandato giù il primo bicchiere senza dare alla bocca il tempo di assaporarne il gusto. A quell’ora, non avendo bevuto alcolici dal pranzo, ne provava un lancinante bisogno, la fame del fumatore rimasto senza sigarette. Ordinò un secondo bicchiere, e un’acquavite, e li mescolò egli stesso. Nel frattempo il bar si era poco per volta riempito di ombre silenziose. Quasi tutti uomini, che uscivano dalla loro piccola galera quotidiana, l’ufficio, la banca… e che venivano lì non per cercare delle donne o per combinare un affare, ma semplicemente per bere, e stare tranquilli, recuperare le forze per la fatica più gravosa che rimaneva da compiere prima della notte misericordiosa: la cena in famiglia.
Da otto anni, Christophe li incontrava ogni sera, alla stessa ora. Ne conosceva appena i nomi. Non si scambiavano altre parole che un breve: «Come va?…» e un cenno della testa.
Con uno di loro giocava in silenzio una partita ai dadi, un bicchiere. Ma non guardava nemmeno quello lì, con difficoltà lo riconosceva tra gli altri. Tuttavia, quella sera, sollevò la testa, osservò l’uomo accanto a sé, anch’egli seduto sull’alto sgabello del bar, e lo colse una leggera nausea. Come quando, divenuti vecchi, al mattino si vede la propria immagine riflessa nello specchio dell’armadio, tra la penombra e la falsa luce dell’alba.
Come Christophe, quell’uomo protendeva il viso con una espressione spossata e tetra, come lui distrattamente tastava, con mani nervose e tremanti, i dadi sparsi tra due bicchieri vuoti. Doveva avere quarantacinque o cinquanta anni, grandi orecchie discoste dal cranio, capelli radi che lasciavano intravedere la cute rosata, le palpebre gonfie di chi passa le giornate a scrivere, chiuso in un ufficio in cui non penetra la luce del sole, ma solo il chiarore di una lampada a saliscendi dal paralume verde. Aveva grandi borse bluastre sotto gli occhi. Era grigio, grasso e stanco, fumava incessantemente; ansimava piano, come un vecchio cane malato di cuore.
Meccanicamente, Christophe guardò la propria immagine nella specchiera, con un senso di disagio, si passò le dita sulle gote scavate, le alette del naso macchiettate, per l’abuso di alcool, dalle prime venuzze rosse della couperose, le tempie che iniziavano a sguarnirsi, le zampe d’oca all’angolo degli occhi.
Ancora non gli somiglio, ma, pazienza, succederà. Ecco come sarò domenica
, pensò con un lieve sospiro ironico.
Giocate le due partite e bevuti i bicchieri messi in palio, l’uomo alzò la testa, contemplò con tetro stupore l’orologio che segnava le sette e un quarto, trasse un profondo respiro e, per un momento, chiuse gli occhi come fanno gli animali malati, quando arriva qualcuno che li afferra per la collottola e li trascina fuori dall’angolo buio in cui si rintanano.
Si infilò il soprabito, in silenzio strinse la mano a Christophe e andò via.
Anche