Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Stazione omicidi. Vittima numero 1
Stazione omicidi. Vittima numero 1
Stazione omicidi. Vittima numero 1
E-book457 pagine6 ore

Stazione omicidi. Vittima numero 1

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un grande thriller 

Sembra un’amicizia impossibile, quella tra Vasile e Flavio. Un giovane romeno, il primo, venduto dai genitori e ora schiavo in un campo rom. Un ragazzo ricco e viziato, il secondo, figlio di imprenditori che abitano in una villa alle porte di Roma. Proprio la villa in cui Vasile ha deciso di entrare, con l’intenzione di svaligiarla. Eppure quel rapporto si cementa nel tempo, diventando una sorta di duplice apprendistato criminale: quando Flavio accetta di aiutare Vasile a vendicarsi dei suoi aguzzini provando a eliminarli, la furia dei nomadi si scaglia contro di loro e la ritorsione atroce e sanguinosa sconvolge la vita di entrambi. Costretti alla fuga dopo il barbaro massacro della famiglia di Flavio, a rifugiarsi tra i senzatetto, i barboni, i derelitti della città, i due verranno a contatto con gli ambienti più loschi della capitale. Flavio deve dire addio agli agi di un tempo. E Vasile deve imparare a fare i conti con la paura costante di essere ucciso. Il pericolo è il loro compagno di viaggio. Finché non decideranno di sfidarlo… 

Maestro del thriller italiano, finalista al Premio Strega, torna per raccontare una Roma violenta e criminale

Hanno scritto dei suoi libri:

«Con l’istinto del grande cronista, Massimo Lugli ha trasformato in romanzo il mondo di “mafia capitale”.»
Corrado Augias, il venerdì

«Una prosa accesa e coinvolgente [...] dal ritmo mozzafiato, ogni capitolo un colpo di scena. Un libro che prende e che non si dimentica.»
Corriere della Sera

«Lugli ha fiato narrativo, ha tenuta, appassiona.»
Giovanni Pacchiano, Il Sole 24 ore
Massimo Lugli
Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso, Ossessione proibita, La strada dei delitti, Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, Stazione omicidi. Vittima numero 1 e, nella collana LIVE, La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in giallo, Giallo Natale, Delitti di Ferragosto, Delitti di Capodanno e Delitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2016
ISBN9788854194168
Stazione omicidi. Vittima numero 1

Leggi altro di Massimo Lugli

Correlato a Stazione omicidi. Vittima numero 1

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Stazione omicidi. Vittima numero 1

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Stazione omicidi. Vittima numero 1 - Massimo Lugli

    e-narrativa.jpg

    1228

    Prima edizione ebook: maggio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9416-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it

    Massimo Lugli

    Stazione omicidi

    Vittima numero 1

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Prologo

    Cammina ondeggiando, farfugliando, imprecando, una litania minacciosa fatta di gorgoglii indistinti, parole senza senso, ansiti, grugniti. Qualcuno gli lancia un’occhiata distratta e timorosa e si scansa, una donna prende per mano la bambina e si allontana, un negoziante si affaccia sulla porta della tabaccheria e scuote la testa, con aria di disapprovazione.

    «Che palle, ancora ’sto matto…».

    Giorgio tracanna il resto della Nastro Azzurro da 75 cl e scaglia la bottiglia vuota contro una Citroën Picasso nuova fiammante parcheggiata a poca distanza dai giardinetti di piazza Mazzini. Rumore di lamiera, ammaccatura sulla fiancata, qualche altro passante che si avvicina per godersi la scena. Giorgio guarda la macchina con occhi folli e l’aggredisce come un nemico, prende a calci il paraurti, sferra pugni e calci alla cieca, si ferisce a una mano. La mano schizza sangue dappertutto, continua a colpire senza curarsi delle nocche che si spaccano, della pelle che si sbuccia, delle ossa che si frantumano. Raccoglie la bottiglia spezzata e col bordo tagliente come un rasoio riga l’intera fiancata sinistra. Un frammento di vetro gli apre il palmo, altro sangue sgorga dal taglio ma non ci fa caso, non sente dolore, solo rabbia e voglia di uccidere. Dal bar si precipita fuori un uomo massiccio, brizzolato, sulla cinquantina, con un completo color antracite, da avvocato, che si scaraventa contro Giorgio imprecando.

    «Pezzo di merda, la mia macchina…». Giorgio lo guarda, sbalordito da quell’intrusione che, per un attimo, lo strappa dai suoi incubi, scuote la testa inebetito prima che un diretto sferrato con tutto il peso del corpo lo centri alla mascella. Cade sull’erba, sputa sangue e pezzi di dente, si guarda attorno senza capire da dove gli è arrivato il cazzotto, poi si rialza e si catapulta addosso all’avvocato che si è dimenticato di lui e sta guardando lo scempio della sua auto con gli occhi pieni di lacrime. I due rotolano a terra, una lotta goffa e ansimante, cercando di immobilizzarsi a vicenda, graffiando, sbavando, ansimando. Giorgio affonda i denti in un braccio muscoloso fasciato dalla manica del completo color antracite, morde come un pitbull, cerca di strappare carne e stoffa. L’altro urla come se lo stessero castrando. Qualcuno accorre ma si tiene a distanza. Sangue e cocci di vetro dappertutto. La furia di quel ragazzo macilento e pencolante, il pazzoide di Prati, che ogni tanto perde la brocca e dà fuori di matto, fanno paura. Giorgio riesce a piazzarsi con le ginocchia sulle spalle dell’avvocato, gli stringe le mani alla gola, comincia metodicamente a strangolarlo. Un barista esce di corsa, una bottiglia di Mistrà impugnata come una clava, vibra una randellata alla testa di Giorgio ma manca il bersaglio e lo prende alla clavicola. La bottiglia resta intatta. L’avvocato è cianotico, tenta di agguantare un po’ d’aria dalle narici dilatate, apre e chiude la bocca come una cernia. Sirene in arrivo. Coro di Era ora.

    Due poliziotti, un uomo e una donna, balzano a terra da una delle volanti. L’agente sventola un manganello senza sapere bene cosa fare, un capannello di gente ha circondato i due, qualcuno cerca, senza convinzione, di strappare l’avvocato alla stretta di Giorgio, ma si ritrae quasi subito davanti a quella figura spaventosa, insanguinata, inumana. La poliziotta, una brunetta graziosa, piccolina, con una massa di capelli ricci tenuti a bada nella coda di cavallo, si ricorda dello spray al peperoncino, in dotazione da pochi mesi. Estrae la bomboletta dalla custodia, si avvicina a Giorgio tenendosi comunque a distanza di sicurezza e gli spruzza un getto nebulizzato di capsicum in piena faccia. Il ragazzo si porta le mani al viso che brucia come fuoco, si sente la pelle scorticata, gli occhi gli si chiudono automaticamente, respira a fatica, i polmoni in fiamme, si butta a terra singhiozzando come un bambino. L’avvocato ne approfitta per strapparselo di dosso, gattona lontano, si rifugia tra le braccia compassionevoli di un gruppetto di passanti, si scola un bicchiere d’acqua arrivato da chissà dove.

    I due poliziotti si lanciano su Giorgio, cieco, semisoffocato, impotente. Lo schiacciano faccia a terra, gli torcono le braccia dietro la schiena cercando di non far caso al sangue che imbratta le divise, gli fanno scattare le manette ai polsi, più strette di come sarebbe necessario. L’acciaio azzanna la carne, solchi rossi sulla pelle traumatizzata. Giorgio si scuote come un bufalo, tenta di rimettersi in piedi, riesce quasi a scrollarsi i due poliziotti di dosso, si alza in ginocchio, i polsi ammanettati, gli occhi chiusi, ruggendo, piangendo, ululando bestemmie. L’agente perde il controllo e gli sferra un calcio alla pancia che lo fa piegare in due, incurante dei cellulari che riprendono tutta la scena. Una grana in più per la questura di Roma quando i filmati faranno il giro dei social network.

    Un’ambulanza si ferma in doppia fila accanto alle volanti, bloccando completamente il traffico. Ormai la piazza è piena di gente, i giardinetti sono diventati un piccolo teatro, qualche impiegato in pausa dà la voce ai colleghi col cellulare.

    «Scendi, stanno a ammazzà il matto». Il pubblico s’infoltisce. Due infermieri tamarri si consultano rapidamente col dottore, un trentenne spaurito tutto ossa e spigoli che prepara una fiala. Il più grosso, con un assurdo pizzetto tinto di biondo, si accosta cautamente, con passi da domatore di tigri. La folla trattiene il fiato, pregusta l’epilogo. Giorgio sente un fastidio sulla coscia, come una zanzara, poi tutto il corpo gli si fa molle, pesante, vischioso, la testa gli ciondola sul collo, quel briciolo di luce che gli rimane tra gli occhi congestionati dallo spray si offusca piano piano, una morbidezza lo avvolge e lui ci si tuffa dentro. Buio.

    PARTE PRIMA

    Il duca di She disse a Confucio: «Nella nostra regione c’era un uomo chiamato l’onesto. Quando suo padre rubò una pecora, egli testimoniò contro di lui».

    Il Maestro disse: «Nella nostra regione, invece, diverso è il concetto di onestà: il padre copre il figlio, il figlio copre il padre. Questa è l’onestà».

    Kong Qiu (Confucio), Massime

    Capitolo 1

    Due bambini, ancora vestiti da femminucce per scacciare il malocchio, inseguono un grosso topo azzoppato da una sassata. Al campo di via di Salone ha piovuto da poco: grandi pozze d’acqua punteggiano la strada sterrata diventata un pantano, i mucchi di immondizia si sfaldano, fradici d’acqua, la legna dei fornelli da campo stenta ad accendersi, i panni appesi, che qualcuno non ha fatto in tempo a portare dentro, penzolano molli come stracci. Alcuni khorakhanè si sono già messi a lavare le macchine inzaccherate dal diluvio. Le carrozzerie lucenti dei SUV, delle Mercedes, delle BMW fresche di concessionario tornano a brillare sotto le amorevoli passate di spugna, stracci e pelle di daino.

    Un ratto tenta una fuga disperata, incalzato da urla, scalpiccio di piccoli piedi nudi, gridolini eccitati. Un altro sasso, scagliato con precisione da un ragazzino di undici anni, coi capelli quasi rasati a zero tranne un lungo codino che gli arriva alle spalle, lo centra in pieno e lo scaraventa a un metro di distanza, insanguinato e zampettante. È lungo almeno venticinque centimetri, grasso, il pelo lustro e viscido di fango, la bocca che scopre i denti lunghi, affilatissimi, duri quasi come il diamante. Un bambino di cinque anni con una lunga gonna a fiori che struscia fino a terra e un’assurda camicetta rosa trasparente, si china sul topo e lo infilza lentamente con un bastone appuntino e indurito sul fuoco, godendosi l’agonia dell’animale che squittisce sempre più forte e agita le zampe e la lunga coda. Poi il bambino solleva la preda, ancora viva, impalata sul bastone e si avvia saltellando insieme agli altri in una sorta di danza di guerra. Urla, richiami, imprecazioni, musica sparata dagli stereo delle roulotte e delle auto, odori di cucina, uomini che tornano al campo dopo una giornata di lavoro, carichi di filo di rame o rottami di metallo, donne affacciate sulla porta, adolescenti filiformi col pancione, incinte di sei o sette mesi: è l’ora di cena, la più animata, la più festosa, il momento delle chiacchiere, delle visite di cortesia, delle vanterie, dell’acquavite di prugna o di patate, delle liti che scoppiano all’improvviso, brevi e violente come temporali estivi.

    Vasile guarda i bambini che seguono il topo infilato su un bastone come una bandiera e fa cenno a Salsiccia, con aria disgustata.

    «Secondo te che ci fanno? Se lo mangiano?».

    Salsiccia alza le spalle massicce. E grosso ma flaccido, colorito malsano, pancia debordante. L’hanno chiamato così fin dal primo giorno e il nomignolo gli calza a pennello.

    «Boh. Può essere… ’Ste merde sono capaci di tutto».

    «Secondo me anche i grandi li mangiano. Anzi, i bambini cacciano i topi per loro. Lo spezzatino di ieri aveva un colore del cazzo… E la carne era grigia, così dura che sembrava di mangiare uno straccio».

    «Ma vaffanculo… Lo dici per farmi schifare…».

    «Col cazzo. È la pura verità. Quando sono entrato, ieri, Mina stava cucinando e appena mi ha visto ha nascosto quello che stava tagliando. Secondo me era un topone bello grasso come quello». Poi allunga una strizzata ai rotoli di Salciccia che sobbalza e lo allontana con una manata.

    «Bello grasso come te… Un giorno o l’altro mi sa che ci finisci anche tu, nello spezzatino», lo sfotte Vasile.

    «Cacati in mano».

    «Prima tu. E datti uno schiaffo».

    Tacciono per un po’. Vasile si fruga nelle tasche, trova l’ultima sigaretta, la spezza in due, si tiene la metà senza filtro e passa l’altra a Salsiccia che accetta con un gesto di gratitudine. Fumano in silenzio, guardando lo spettacolo desolante del campo. I lampioni, i pochi rimasti ancora intatti, sono già accesi. Settembre si è annunciato con una scarica di temporali, tra due mesi arriverà il gelo, si accenderanno le stufette e, di sicuro, prima o poi qualcuno ci resterà secco, soffocato dalle esalazioni di monossido di carbonio. Succede quasi ogni anno.

    «Stasera vengono i carabinieri», annuncia Salsiccia.

    «Chi te l’ha detto?»

    «Guerrino. Ha un amico brigadiere, se lo cura e gli passa un po’ di roba ogni tanto. Vengono a fare il controllo di quelli ai domiciliari… Vedrai se stanotte non sono tutti dentro, buoni buoni».

    «Li arrestassero tutti».

    «Già».

    I controlli ai domiciliari scattano in media ogni due mesi, preceduti, regolarmente, da misteriosi avvertimenti che passano di bocca in bocca e, ormai, non sorprendono più nessuno. Divise, torce elettriche, cani antidroga popolano la notte del campo e tutto si risolve in una stanca routine di appelli nominali, voci assonnate, facce incazzate che compaiono sulle porte delle roulotte per farsi registrare dai carubba. Solo ogni tanto qualche imbecille si fa beccare fuori dal campo, resta latitante qualche giorno, viene regolarmente blindato mentre se ne va a zonzo in borgata, passa qualche giorno al gabbio per evasione e poi ritorna, puntualmente, agli arresti casalinghi. Gli avvocati dei rom sono maestri nell’ottenere i domiciliari per i loro clienti. Il campo è una miniera d’oro: cause a ripetizione, soldi in contanti, niente ricevute, niente tasse. Per gli avvoltoi in toga, gli zingari sono i clienti migliori.

    «Come ti è andata oggi?». Vasile schiaccia la cicca sotto la suola delle All Star, modello cinese da dieci euro, che si stanno già scollando dopo dieci giorni. Scarpe di merda. Come tutto il resto. Salsiccia sbuffa, contrariato.

    «A cazzo. Come al solito. Ho cercato di castigare un vecchio sull’autobus, quello mi ha svagato e m’ha allungato una cinquina…». Gira la guancia paffuta per mostrare a Vasile un invisibile segno della sberla. «Tutti si sono messi a strillare e per poco non chiamavano le guardie».

    «T’è andata bene… Ti potevano blindare».

    «Mi sono messo a frignare, gli ho fatto pena, alla fine mi hanno mollato».

    «Secondo me gli hai fatto schifo».

    «Può essere, comunque l’ho sfangata. Quando sono tornato senza niente Omar mi ha fatto il culo».

    «Sempre la stessa merda…».

    «Già. Se continuo così mi sa che mi ridanno indietro e rivogliono i soldi dai miei».

    «E non ti sta bene?».

    Salsiccia guarda l’amico in tralice, non capisce se sta scherzando o no. Ma Vasile gli fa un cenno col mento, non scherza affatto.

    «Non è meglio dai tuoi che in questa merda?», lo incalza.

    «No. A casa ci torno col cazzo. Perfino qui si sta meglio».

    Vasile annuisce cupo. Anche coi suoi, merda pura. Scenate, sbronze, freddo, miseria e tutto il resto. Coi rom, se non altro, ha pranzo e cena assicurati e il tetto della roulotte sopra la testa. Il problema sono le mazzate. Peggio che a casa: nel campo tutti menano tutti in continuazione. I mariti picchiano le mogli che si sfogano coi figli. I ragazzi più grandi mettono sotto i piccoli a forza di legnate, le donne si accapigliano tra loro graffiandosi e tirandosi i capelli, rancori vecchi o recenti esplodono all’improvviso in risse, pestaggi, aggressioni, qualche coltellata. La violenza è sempre nell’aria, onnipresente, regola i rapporti, definisce le gerarchie. Vasile è tosto, viene dalla strada, si fa rispettare a capocciate e zampate nei coglioni dai coetanei ma le prende regolarmente dagli adulti. Calci, schiaffi e cinghiate quasi ogni sera al minimo pretesto: un lavoro andato male, un colpo sfigato, una risposta sbagliata oppure soltanto perché Omar ha la sbronza storta o gli rode il culo. A volte non c’è neanche bisogno di un pretesto. Una fracca di legnate per buonanotte e basta.

    «Prima o poi me ne vado da qui», promette più a se stesso che a Salsiccia.

    «Sicuro… Quando finisce il contratto».

    «No, prima, mi sono rotto le palle…».

    «Anche io, se per questo, ma dove cazzo andiamo?»

    «Boh… Lontano da ’sta fogna».

    «E come?». Salsiccia lo guarda con aspettativa. Si è sempre fidato di Vasile, non è uno che parla a vanvera.

    «Non lo so, Salcì, ma un’idea intanto m’è venuta». Il ciccione gli fa cenno col mento di proseguire.

    «Uno scavalco. Villa all’Infernetto, roba di lusso. È vuota fino al venti settembre, stanno tutti in vacanza».

    «Cazzo come l’hai sgamato?».

    Vasile tace, con aria saputa, come se avesse chissà quali misteriose fonti. In realtà è stata una botta di culo: uno scalatore gagè, uno di quelli che lavorano da soli e si arrampicano come ragni tra grondaie e balconi, lo conosce e gli ha chiesto di fare il palo. Hanno fissato per il diciotto, ma Vasile vuole anticipare il colpo, prendersi tutto e steccare, al massimo, con quell’imbecille di Salsiccia, anziché beccarsi solo le briciole come al solito. Lo scalatore gli darebbe si è no il dieci per cento del bottino ma lui ne ha abbastanza di quelle merdate.

    «Com’è il posto?», esita Salsiccia.

    «Preciso. Perfetto».

    «Ci sono i cani?»

    «No, niente cani di merda».

    «Avranno l’allarme, le grate…». Vasile lo guarda con disprezzo: piantagrane, cacadubbi, fifone fino in fondo. Ma ha bisogno di qualcuno che non glielo butti nel didietro alla prima occasione, non tenti di fotterlo, non lo venda ai rom: per una cosa simile lo gonfierebbero come una zampogna.

    «Senti, dell’allarme chi se ne fotte. Anche se è collegato alla questura col cazzo che le guardie arrivano prima di un’ora… E le grate, ’sti cazzi, le sfondiamo».

    «Dici?»

    «Che palle che sei. Lascia stare, trovo qualcun altro».

    «No, davvero, dicevo così. Ci sto».

    «Sicuro?»

    «Sicuro».

    «Oggi è il dieci… Lo facciamo dopodomani».

    «Andata». Si sputano sulla mano destra, se le stringono e la portano al cuore. È fatta.

    «Bella Ma».

    «Bella Fla».

    Si danno il cinque, più diversi non potrebbero essere. Flavio fa un cenno col mento, Mario annuisce.

    «Ci facciamo un aperitivo?».

    Flavio sbircia il Daytona. Sono le 13:30, gli studenti del Tasso sono già sciamati in via Sicilia, il solito casino di chiacchiere, sigarette, motorini. I suoi l’aspettano a pranzo, visto che viene zio Francesco e sua madre s’incazzerà come una biscia se fa tardi anche oggi, ma non può fare la figura del pidocchio. Non con un tamarro come Mario che per incontrarlo è arrivato fino dalla borgata in Culonia, dove abita.

    «Sicuro, offro io», acconsente. I due si avviano a piedi verso piazza Fiume. Visti da dietro sembrano una coppia di comici: il coatto di mezza età, basso e quadrato, gilet di pelle Hells Angels, calzoni extralarge coi tasconi rigonfi, la barba a punta alla Mefistofele, il codino che comincia a striarsi di grigio e il ragazzo snello, biondo, bello come un arcangelo, fico come un tronista: 1,79 di muscoli, jeans a sigaretta, giubbino Polo, Adidas Stan Smith immacolate. Entrando, per riflesso condizionato, Flavio cede il passo all’altro e gli lancia un’occhiata di spregio puro. Con quello che fa, che cazzo di bisogno c’è di conciarsi come un buffone, pensa e tace.

    «Un Negroni», ordina Mario tuffando le mani tozze nella ciotola dei salatini e ignorando il cucchiaino nonostante l’occhiataccia del barista. «Anche per me», gli fa eco l’altro. L’alcol gli fa schifo ma ordinare un Crodino davanti a quello scimmione è fuori questione.

    «Allora, come butta?»

    «Solito».

    «Ancora non ti sei rotto?». Mario fa un gesto col pollice, in direzione del liceo. Flavio sbuffa.

    «Ultimo anno. Prendo la maturità e mi sparo tre mesi negli States, i miei me l’hanno promesso».

    «Grande Fla… Io, tre anni fa, sono stato in America, a Sturgis, per il ritrovo degli Hog. Da paura».

    Flavio immagina la ressa di motociclette, ciccioni pieni di birra, pelle nera, catene, zoccole in hot pants e tutto quell’armamentario da anni Settanta, reprime la smorfia, scola il cocktail in tre sorsi e pensa che i convenevoli sono durati abbastanza. Il solo farsi vedere assieme a Mario gli pesa parecchio, ma se lo deve curare.

    «Ce l’hai?»

    «Sicuro».

    «Com’è?»

    «Buono».

    «E l’altra cosa?»

    «Tra dieci giorni, due settimane al massimo. Gira male, da questa estate».

    «Vabbè. Mi fai sapere».

    Con un gesto distratto e furtivo, Flavio caccia dalla tasca i due pezzi da cento e glieli allunga. Mario intasca e finisce di bere. Uscendo, passa a Flavio un pacchetto di Marlboro che sparisce all’istante nel giubbotto blu.

    «Dove c’hai la moto?»

    «Dal meccanico. Sto in macchina». Mario indica una C1 sgarrupata lasciata alla chissenefrega nello spazio dei taxi. Altro batti il cinque, altri saluti.

    «La prossima volta offro io però».

    «Come te pare. T’aspetto per quella cosa».

    Andando a riprendere l’SH125 appena ritirato da Siromoto, Flavio tasta furtivamente il contenuto del pacchetto. Il solito puzzone marocchino che sa di suola, di sicuro, ma tanto in giro non si trova di meglio e Mario, almeno, non è uno che stecca pesante.

    «Signorino, i suoi sono già a tavola col signor Francesco».

    Felipe ha una vaga aria di rimprovero stampata su quel grugno da babbuino. Flavio lo ignora, si toglie il giubbotto e lo lancia verso una sedia nel vestibolo. Solo quando atterra si rende conto che il fumo è nella tasca e si precipita a raccoglierlo.

    «Lasci, faccio io…», interviene Felipe, premuroso, da vero servo qual è, ma Flavio l’ha già raccolto, ha palpato il pacchetto per assicurarsi che ci sia e ha appeso ordinatamente il giubbino all’attaccapanni, cosa che non fa mai, con grandi incazzature di sua madre.

    «Era ora… Stavamo per chiamare gli ospedali».

    Il tono gioioso di suo padre è smentito dallo sguardo al vetriolo e dalla furia con cui arrotola gli ultimi spaghetti ai quattro formaggi dal piatto ormai quasi vuoto. Sua madre, al solito, ha l’aria di una che ha inghiottito un manico di scopa tutto intero, neanche l’ultimo lifting di due mesi fa riesce a nascondere le rughe di rabbia attorno agli occhi, agli angoli della bocca che piegano pericolosamente in basso. Il suo piatto, come sempre, è stato appena sporcato e smaltirà le calorie di quell’unico boccone di pasta con almeno due ore di cardiofitness, GAG, body sculpture o qualche altra cazzata del centro benessere.

    Zio Francesco straborda sulla sedia, dilaga sulla tavola ed è l’unico che sembra rilassato.

    «Allora, nipote? È un secolo che non ti vedo, sei cresciuto ancora… Come va la scuola?», farfuglia senza smettere di masticare. A Felipe, che aspetta impalato in giacca e guanti bianchi, dev’essere venuto il gomito del tennista a forza di versargli il vino e deve ancora servire il secondo. Una bottiglia di Amarone è già agli sgoccioli.

    «Tutto regolare, zì», mugugna Flavio. La madre inarca un sopracciglio.

    «Ti spiacerebbe non esprimerti come uno scaricatore?», stride. Flavio nemmeno risponde e si rovescia nel piatto almeno due etti di pasta. Lui non ha problemi di peso, basta la muay boran a tenerlo in forma.

    «Mi piace invece, sintetico, efficace… I ragazzi parlano così», gorgheggia zio Francesco che non ha mai avuto figli e, secondo Flavio, è anche mezzo frocio.

    «E allora? Come ti va al Tasso? Ti trovi bene?»

    «Così. Appena ripreso l’anno, non facciamo un c… niente», si trattiene a stento Flavio.

    «Be’ comunque è il miglior liceo classico di Roma… Non per niente ci sono stato io», approva lo zio, che evidentemente è in vena di ciance prima di chiudersi col fratello in studio per elaborare chissà quali strategie finanziarie d’altissimo livello.

    «E dopo la maturità? Hai qualche idea?», insiste Dupalle.

    «Be’, intanto voglio andare tre mesi negli States per l’inglese…».

    «Se prenderai sessanta agli esami», interviene il padre, acido. Il ritardo proprio non gli è andato giù.

    «Ah pà sei antico… Oggi il voto si calcola in centesimi».

    «M’ero scordato… Allora se vuoi farti il viaggetto porta a casa 100 e lode», ghigna l’ingegner Alfredo Gambari, che non gradisce essere colto in fallo neanche sulle stronzate. La madre si pulisce gli angoli della bocca col tovagliolo e fa cenno a Felipe di portare via le scodelle. Straccetti della macelleria Feroci ai carciofi, insalata mista, carrello dei formaggi, gelato di Giolitti, caffè, ammazzacaffè. Quando Flavio riesce finalmente a rintanarsi in camera sua è passata un’ora e mezzo. Con un sospiro di sollievo chiude a chiave, scarta la piccola mattonella di marocchino che, tutto sommato, sembra meno secca e svaporata di quella di un mese fa, spacca una sigaretta su una rivista, sbriciola un po’ di roba sotto la fiamma di un accendino e comincia a rollarsi un bombardone.

    «Ciao, zì».

    «Ma come cazzo ti sei ridotto?».

    Bruno Pelizzi guarda con un misto di disgusto e compassione il nipote steso su un lettino dell’astanteria del Policlinico. Flebo, mano fasciata fino al gomito, occhio pesto, una grossa benda insanguinata sulla fronte che gli copre metà faccia, criniera di capelli impastati e luridi. Quello che non vede può solo immaginarlo, coperto pietosamente dal lenzuolo grigiastro tirato su fino al collo. Tutt’intorno, la solita bolgia dolente e incazzata dei pronto soccorso romani: gemiti, imprecazioni, richiami, camici bianchi e divise verdi che corrono avanti e indietro evitando accuratamente di rispondere alle richieste dei pazienti, gente che aspetta da tre, quattro, cinque ore una visita o una radiografia, ambulanze che scaricano lettighe e ripartono immediatamente in sirena, un gatto obeso accoccolato tranquillamente nel corridoio, indifferente a tutto quel casino insensato.

    «Ho sclerato, zì…», mugola Giorgio, scoprendo il buco dove prima c’era un incisivo.

    «Lo vedo…».

    «M’era presa brutta… Non lo so», il ragazzo alza le spalle come per dire ormai è passata. Bruno trattiene a fatica lo sganassone, gli prudono le mani.

    «Quel tizio a cui hai sfasciato la macchina… Ti ha denunciato. Lesioni, aggressione, danneggiamento, stavolta ti fanno un culo così».

    «Ma se è lui che ha menato me…». Giorgio accenna alla mascella gonfia e alla benda sul viso. «E poi, ’sti cazzi… Che mi fanno? Peggio di così».

    Le labbra dell’ispettore Bruno Pelizzi sono un taglio. Pallido di rabbia, siede con cautela sul bordo del letto ignorando il sorriso di quel nipote fuori di testa.

    «Eri fatto? Di’ la verità porca troia… Ancora quella merda», sibila.

    Giorgio tace con aria colpevole.

    «Di’ ’sta cazzo di verità… Eri drogato o sei semplicemente matto? A forza di calarti quello schifo ti si è squagliato il cervello?»

    «Solo due chicche zì… M’ha preso male… Ero pulito da due settimane giuro».

    Bruno si alza, smania, guarda il soffitto, stringe i pugni cercando di calmarsi, poi torna a sedere.

    «Io non ce la faccio più con te Giò. Sull’anima di mio fratello, giuro che non ce la faccio. Non ti posso coprire in eterno, ho il mio lavoro, ho i cazzi miei… Guarda, ascolta, parlo sul serio…».

    «Appena mi lasciano uscire smetto, giuro zì», lo interrompe il nipote, supplichevole.

    «Sicuro. Come la volta prima e quella prima ancora… Mi sono rotto i coglioni, basta, io mi arrendo. Ti vuoi ammazzare? Vuoi ammazzare qualcuno e farti vent’anni di gabbio? Cazzi tuoi. Io ci ho provato, mio fratello dal cielo lo sa quanto ci ho provato… Adesso basta, ci rinuncio, io…».

    Un russare sommesso l’avverte che sta parlando a vuoto. Il nipote s’è appisolato stringendogli l’avambraccio. Con delicatezza, Bruno Pelizzi si libera, depone un bacio leggero sulla fronte di quel ragazzo allo sbando, dà un’occhiata disgustata alle lenzuola luride e incrostate di sangue secco e si incammina verso l’uscita. Sulla porta, quasi si scontra con un infermiere massiccio dall’aria truce, con una sigaretta dietro l’orecchio e i capelli unti di gel.

    «Scu…». La parola gli resta in gola. Bruno lo ha afferrato per il bavero e sbattuto contro il muro.

    «Lo vedi quel ragazzo sulla branda al centro?», gorgoglia.

    «Er matto? Si ma…».

    «È mio nipote… Perché nessuno gli cambia le lenzuola? Fanno cacare».

    L’infermiere soffoca il risolino di scherno. La stretta incrudelisce.

    «Che… Lenzuo… Io…».

    «Come ti chiami?»

    «Chi, cioè, io?»

    «Come cazzo ti chiami, ci senti?»

    «Pantarella Alfonso», squittisce l’infermiere, semisoffocato.

    «Stammi a sentire, Pantarella Alfonso. Sono l’ispettore Bruno Pelizzi, squadra mobile e il matto è mio nipote. Domani torno, giuro su Dio che se non lo trovo lavato, pulito e con le lenzuola fresche di bucato me la prendo con te. Scopro dove abiti, vengo a casa tua e ti faccio il culo, qualcosa di sicuro la trovo e se non la trovo me la invento. Sono stato chiaro?».

    L’infermiere gorgoglia qualcosa di indistinto.

    «SONO STATO CHIARO?»

    «Sì».

    Bruno allenta la stretta, prende il portafogli, sgancia cinquanta euro all’infermiere, costernato. Se qualcuno ha assistito alla scena si guarda bene dal commentare.

    Capitolo 2

    «Facciamo stanotte».

    Salsiccia guarda Vasile con la sua aria idiota. Le sette ore al semaforo a lavare vetri gli pesano come macigni nelle spalle, nelle braccia, soprattutto sul fianco ciccioso dove, a forza di sporgersi per passare la spazzola sui parabrezza, in un movimento continuo, faticoso e asimmetrico, a poco a poco si forma una fitta che diventa una lama e punge, taglia, squarcia. È tutto sbilenco, mal paciato, frullato come un frappè e vorrebbe solo mettere qualcosa sotto i denti, schiantarsi sulla sua branda, morire.

    «Sto a pezzi, Vasì», traccheggia. Ma si è già arreso. Gli occhi dell’amico sono due frecce.

    «’Sti cazzi… Vatti a riposare. Ci vediamo qui alle undici e andiamo a prendere l’autobus».

    «Ma proprio stasera? Cioè, dico, magari domani è meglio. È domenica e…».

    «Stammi a sentire palla di lardo. Ho organizzato tutto. Ferri, tubo, ciò pure uno spray per i cani tante volte…».

    «I cani? Cazzo, mica m’avevi detto che…». Lo schiaffetto doloroso sull’orecchio gli tappa la fogna.

    «Non ho detto che ci stanno i cani. Sono passato tre volte in due giorni e non ho visto un cazzo di cane, e comunque io ci so fare, non mi mordono. Piantala di cacarti sotto».

    «Non mi caco sotto», sbotta Salsiccia, umiliato.

    «Invece sì. Sei un cacone di merda. Non so perché ho deciso di farla con te, ’sta cosa… E adesso non ti puoi tirare indietro… La dritta è buona, i padroni sono fuori per il weekend ma forse tornano domani, quindi è stanotte, ci siamo capiti?».

    Salsiccia annuisce sconfitto. Quando Vasile fa quella faccia non c’è ma che tenga.

    «Bravo… Vatti a sdraiare. Ti voglio in forma. Alle undici, preciso. Se mi fai aspettare cinque minuti ti sfondo».

    «Alle undici, capito».

    Salsiccia si avvia verso la roulotte trascinando i piedi e Vasile si domanda ancora una volta perché ha scelto proprio un coglione come lui. Ma ormai è fatta e, almeno, è sicuro che Salsiccia non lo tradirebbe mai, più per paura che per amicizia o lealtà. La lealtà, nel campo, è merce di scarto. Vasile guarda le donne avvizzite e affaccendate, gli uomini tracotanti, sinistri, pericolosi, i bambini laceri e schiamazzanti, gli adolescenti gasati in perenne attesa di diventare adulti e contare anche loro qualcosa come i padri e gli zii, nei consigli degli anziani, la melma, la merda, i rifiuti, i cani scheletrici aggressivi come belve, le macchine tirate a lustro, le roulotte fatiscenti, i gabinetti chimici sfondati che rigurgitano escrementi, i fili elettrici penzolanti, i lampioni rotti, lugubri come forche, il brulichio invisibile ma perenne di topi, parassiti, scarafaggi, cimici, pidocchi, formiche, i panni lavati al secchio e stesi ad asciugare… Basta con tutta questa merda. Basta. Da domani cambia tutto. Sorride sghembo, immagina, pregusta. Finito. Tutto finito. Solo poche ore.

    «Super Pill? Che cazzo è?»

    «Una bomba. Ecstasy, mefedrina e Viagra. Non solo ti sballa ma stai a cazzo duro una notte sana».

    «Fattela tu… Io non ne ho bisogno. Mi tira già abbastanza, grazie».

    «Anche a me, cazzo credi? Mica ho bisogno di steccarmelo».

    «E allora a che ti serve il Viagra?»

    «Aumenta l’effetto… Non so bene che c’entri ma è una specie di amplificatore dell’ecstasy. Dilata i vasi sanguigni, fa scorrere meglio l’anfetamina in vena, qualcosa del genere. Pensa che qualche giorno fa hanno blindato tre tizi che facevano i colpi in banca e, prima delle rapine, si calavano due Viagra a cranio per darsi la carica».

    «La gang dei cazzi duri… Li avranno riconosciuti dal rigonfio sotto i calzoni».

    «Bella stronzata di battuta…».

    «Già perché la storia della Super Pill invece…».

    «Ti dico che è vero, ’tacci tua, non mi credi mai…».

    «Infatti mi sembra una bufala. Chi te l’ha detto?»

    «Uno che le fabbrica. Lavora in una casa farmaceutica. I laboratori devono essere sorvegliati ventiquattro ore al giorno, no? È per via delle culture, dei funghi, di tutte quelle merdate lì, insomma. Ci sono ’sti chimici, quasi tutti giovani assunti da poco, che fanno i turni di notte a sorvegliare le provette, si rompono le palle e passano il tempo a inventarsi nuove molecole da sballo. Molte chicche da discoteca vengono da lì».

    «Lo vedi che cazzeggi? Le importano da Amsterdam, lo sanno tutti».

    «Sei tu che cazzeggi… La polvere d’angelo e l’ecstasy sono importate, e qui hai ragione, ma poi ci sono ’sti chimici che le studiano, le modificano, le cambiano e le mettono in commercio… Guarda che non dico stronzate, ne conosco un paio. È tutta una gara con gli sbirri perché molte sostanze non rientrano nelle tabelle di legge e quindi, ufficialmente, non sono delle droghe e possono essere vendute liberamente, perciò se ti dico…».

    «Questa l’hai vista al cinema. O in quella serie tivù».

    «Non è vero: è il film che ha ripreso la realtà, mica il contrario. Cazzo sei veramente di coccio, Flavio».

    «E tu de teck, Matteo…».

    «Sì, nelle mutande. Anzi, di cemento, vuoi provare?»

    «’Fanculo. E comunque chi la spinge, ’sta Super Pill? Il tuo amico?»

    «No. Lui e gli altri la producono solo. Per questo non li beccano. Vedi che non è come nel film?»

    «E allora?»

    «Vendono all’ingrosso. A quanto ne so la smerciano a certa gente di Torbella che ha messo su tutta una rete di spacciatori al dettaglio».

    «Meraviglioso. Proprio quello che ci mancava, comprare dai malavitosi di merda. A proposito, passa ’sto cannone, te lo stai a fumà tutto da solo».

    «Scusa, m’ero distratto. Oh, tra l’altro mica male ’sto fumo…».

    «Grazie al cazzo, io ho i contatti veri, mica le stronzate che dici tu».

    «Non dico stronzate… E comunque, se non ti interessa chi se ne frega… Vorrà dire che sabato notte la prendo solo per me, poi ti faccio sapere».

    «E dove?»

    «Dove cosa?»

    «Dove la trovi no? Sei proprio strafatto…».

    «In effetti sto bello sballato. Comunque pensavo di farmi un giro in quei posti tamarri… Sai tipo Goa, Le Terrazze, Spazio 900… Di sicuro trovo qualcuno che la spinge, stanno sommergendo Roma, la gente non vuole altro».

    «Bei postacci del cazzo. L’unica cosa che si rimedia è una saccagnata».

    «Hai strizza?»

    «Ce l’avrai tu… Solo che non mi va di farmi lamare il culo dal primo boro sbronzo che si fa rodere… E poi ’sto weekend sto incasinato, mi tocca andare all’Argentario coi miei».

    «E tu di’ che non puoi… Inventati qualcosa, no? Dài che se hai casa libera magari becchiamo un paio di tipe e ce le scopiamo da te».

    «E che gli dico a quei rompicazzo? Mi stanno appresso col fucile…».

    «Cazzo ne so? Che stai male…».

    «Non funziona. Sono capaci di chiamare il medico».

    «Fa’ una sega al termometro».

    «Nuova come idea, complimenti… M’hanno svagato a quattordici anni. T’ho detto, i miei sono due nazisti».

    «E digli che devi studiare… Lunedì ti interrogano, hai un compito in classe, qualche stronzata così. Ti devi preparare bene, non ti puoi distrarre, hai bisogno di tranquillità per ripassare, bla bla. Vedrai

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1