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Mille lune blu
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E-book452 pagine5 ore

Mille lune blu

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Info su questo ebook

Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Che sarà mai organizzare il matrimonio del ragazzo di cui sono sempre stata innamorata? In fondo, caro Jordan, tu e io siamo cresciuti come fratello e sorella e queste nozze ci servono per dare lustro al nostro hotel, e la tua fidanzata ricca saprà farci un mucchio di pubblicità tra i suoi amici altolocati del continente! Ma… mettere d'accordo la ragione con i sentimenti, in certi casi, è praticamente impossibile, e questo è uno di quelli, specie se a rendere invivibile una situazione di per sé già ad alto rischio disastro ci si mette quella viziata snob della tua futura moglie. Bella è bella. Avessi il suo conto in banca lo sarei anch'io, ma è una str… strega e non puoi negarlo! Tranquillo, ce la farò, resisterò a questo strazio, per il bene dell'azienda, di tua madre, di mia madre e anche per il tuo, perché nonostante tu mi abbia spezzato il cuore, stavolta in modo definitivo, resterai per sempre il mio ragazzo speciale. Tuttavia devo chiedertelo: dal profondo di quel cuore ridotto in piccolissime schegge confuse e furiose, ripensaci, Jordan. Quella donna è una spina nel fianco, non fa per te! Un bel dilemma per Pennylane Walsh, costretta suo malgrado a scegliere fra le ragioni del cuore e quelle del… vile denaro. Quale delle due prevarrà? Per scoprirlo non vi resta che imbarcarvi in questa avventura che vi porterà dritti a Moon's Island, dove una spassosa famiglia allargata, una bambina con le orecchie da coniglio e un randagio di nome Mister Bingley, complice una straordinaria luna blu, saranno i protagonisti di questa frizzante e per nulla scontata storia d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2021
ISBN9791220368919
Mille lune blu

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    Anteprima del libro

    Mille lune blu - Rhoma G.

    1 Prologo

    «Avreste dovuto vedere la sua faccia, sembrava avesse tra le mani il biglietto vincente della lotteria!» Io, la mamma e Dolores ci scambiammo circospette occhiate d’intesa.

    «Quella spregevole donna.» commentò Dolly a fior di labbra, si versò dell’altro infuso al cardamomo e lo allungò con qualche goccia di Alchermes, a suo dire un vero toccasana per l’artrite.

    Fui tentata di attaccarmi alla bottiglia anch’io, ma l’amorevole voce di mia madre mi dissuase.

    «Ci vuoi la cannella, Zucchino?» Ah. Era da tempo che non tirava fuori quel Zucchino, ma data la circostanza avrei dovuto aspettarmelo.

    «Sì, grazie.»

    Così, con mani esperte, Adaline Mary Elisabeth Walsh, mia madre, sistemò una bella fetta di torta alla zucca sul piatto di fine ceramica con i ghirigori blu, versò a filo una generosa quantità di densa salsa alla vaniglia, infine decorò con una manciata di nocciole tostate e una spolverata di cannella appena frantumata.

    In un’altra situazione, le mie papille gustative sarebbero state in procinto di fare la ola, ma non quel giorno. La grande cucina del Lobster si riempì tuttavia di un delizioso profumo.

    La mamma non aveva mai voluto cambiare una virgola di quello che, da che avessi memoria, era il suo regno, in conseguenza di ciò gli elettrodomestici d’epoca avevano ceduto spazio il meno possibile a robot da cucina, lavastoviglie con consumo ridotto e altre moderne comodità.

    Ai suoi tempi era stata una vera pioniera, ma con l’età aveva scoperto di possedere una vena conservatrice, almeno per quanto riguardava i confini del suo regno.

    Ecco perché le pareti erano ancora rivestite di carta da parati con macinini da caffè, qua e là spuntavano tazze e mazzolini di fresie gialle, i pomoli degli stipetti erano d’ottone temperato e le mensole ricoperte di carta crespa con le ricette di una volta stampate in corsivo, mentre barattoli con le chiusure a clip e piccoli sacchetti di juta custodivano gli ingredienti di squisite torte e budini. Il frigorifero a doppia anta divideva la nicchia che a suo tempo era stata creata apposta con una ghiacciaia anni Sessanta, perfettamente funzionante.

    I piani di lavoro erano tre e giravano a ferro di cavallo per tutta la stanza: due erano in granito, uno in legno di quercia sbiancato. Solo il pavimento a scadenze regolari era stato sistemato e adeguato con sistemi antiscivolo.

    Di fronte ai fuochi in ghisa con doppio forno e piastra per i famosi hamburger di pesce, c’era una grande finestra con le tendine bianche e le margherite gialle, sotto la balaustra la mamma aveva voluto una panca con i cuscini ultraimbottiti e un tavolo da pranzo grande abbastanza per ospitarci tutte e tre. Tutti e quattro quando Jordan era ancora dei nostri.

    Adoravo ogni singolo elemento di quella cucina e mi bastava sorbire una tazza di caffellatte seduta sulla panca, guardando fuori dalla finestra l’animato boschetto in fiore, per sentirmi meglio.

    Quel giorno non funzionò, da rifugio idilliaco per cause di forza maggiore era stato trasformato in quartier generale dove discutere faccende importanti, e a giudicare dalle nostre facce quella volta era serissima.

    La gran pettegola di Millicent Brody, postina di Moon’s Island, era passata di buonora dall’hotel per consegnare una missiva rognosa. Fossero state tasse, la presa visione sarebbe stata meno disturbante.

    Dolores assaggiò l’infuso e lo rabboccò con dell’altro Alchermes.

    «Mi pare che stiamo esagerando adesso.» le fece notare la mamma, mentre la donna in tutta fretta avvitava il tappo.

    Mandò giù una bella sorsata.

    «Ne ho ben donde, sono la madre dello sposo!»

    Auch, che colpo al cuore. Ed io che mi ero illusa di aver immaginato tutto.

    «A quest’ora lo saprà l’intera isola.» Dolores la trafisse con lo sguardo mentre sistemava altre fette di torta sui piatti.

    «"Tante congratulazioni alle mamme del futuro sposo"… Aveva sulle labbra il solito sorrisetto di scherno.»

    «Perché te la prendi, Linny? Sparleranno per qualche giorno, poi passerà.» Questa volta non sarebbero state le consuete chiacchiere di paese, c’era di mezzo uno dei figli della coppia dello scandalo.

    Erano trascorsi oltre trent’anni, ma la gente ancora mormorava quando incontrava per strada qualcuno della nostra famigliola.

    «Parli bene tu, non hai visto quell’insolente.» Dolores sospirò. Di nuovo.

    «Che le hai detto?»

    «Un grazie! Anche se sulla punta della lingua avevo altro. Ho preso la busta e l’ho fatta sparire nella tasca del grembiule, poi le ho offerto una tazza di tè.» A Moon’s Island vigeva la buona regola secondo cui era meglio tenersi vicini gli amici e ancora più stretti i nemici.

    «Magari le hai dato pure una fetta di questa torta.» La mamma tacendo le diede conferma. «Tanto valeva restasse anche a pranzo, no?»

    «Non mi sarei spinta fino a questo punto…» Si leccò un dito sporco di salsa, poi le passò il piatto evitando di guardarla negli occhi.

    «Spero almeno che qualche boccone le sia andato di traverso.» A differenza di mia madre, Dolores non aveva mai amato il politicamente corretto e a me era sempre piaciuta così.

    «Non ci giurerei.» replicai dandole manforte.

    «Non è stato granché come tentativo di corruzione, quella donna è furba come una faina.»

    «Una volpe.» la corresse Dolly.

    «Che cosa?»

    «Si dice furba come una volpe, mamma.» spiegai, la forchetta in mano e nessuna voglia di prendere il primo pezzettino di quella squisitezza.

    «È uguale.» sentenziò lei alla sua maniera, e cioè non dando peso alle mie parole. Dolores mi fece cenno di non replicare, conosceva i nostri temperamenti e la stupida predisposizione a intavolare discussioni su ogni genere di argomento che si sarebbero concluse con improduttivi musi lunghi.

    Per come stavano le cose i malumori non erano che inezie, e poi io avevo già la mia bella faccia da funerale.

    Affondai la forchetta nella torta e insieme al boccone mandai giù il risentimento che non avevo potuto sfogare.

    «Mi ha fatto il terzo grado, io ho tenuto duro e le ho detto che questo matrimonio è una sorpresa anche per noi. Che poi è la verità.» Il termine sorpresa non rendeva giustizia allo stato di sbigottimento generale che aveva causato. «Per tutte le stelle del firmamento, Dolly, tuo figlio avrebbe potuto essere più discreto!» Adaline prese la busta e la sventolò sotto il naso di Dolores. L’invito non passava certo inosservato con la filigrana dorata e il sigillo di ceralacca recante le iniziali dei promessi sposi.

    Dolores scacciò l’aria con la mano.

    Non avevo mai visto nulla di così pacchiano, a parte l’arredamento dell’ufficio a Bar Harbor del nostro fiscalista.

    «Che vuoi che ti dica? L’Isola Grande gli ha fritto il cervello. Oppure è stata la futura moglie.» La mamma fece un sospiro conciliante.

    Moglie.

    Io per poco non svenni.

    «Dobbiamo prepararci a schivare le pallottole!»

    «E come pensi di farlo?» Dolores bevve un sorso del suo infuso alcolico e lo gustò con soddisfazione.

    «Posso avere un po’ del tuo liquore?» Allungai la tazza con le ciliegie stilizzate, dentro c’era il mio tè nero al bergamotto.

    Entrambe mi guardarono allibite.

    «Da quando bevi qualcosa di più alcolico del ginger ale

    «Il ginger ale non è alcolico.»

    «Appunto!» Dolores non fece commenti, prese la bottiglia, svitò il tappo e ne versò una piccola quantità nella mia tazza.

    «Sei a posto.» disse e io bevvi con avidità, ma non trovai la sua stessa soddisfazione, anzi, la gola mi bruciò come se vi avessi acceso un bel fuocherello.

    Allontanai la bevanda.

    Tutto mi sarei aspettata quel giorno, tranne che Jordan ci partecipasse le sue imminenti nozze con tal Mackenzie Fallon.

    «Chi mai chiamerebbe la propria figlia Mackenzie?» domandò poco prudentemente mia madre e la replica non si fece attendere.

    «Disse la donna che ha dato a sua figlia il nome di una canzone dei Beatles…» Come al solito, il mio unico genitore si sentì punto sul vivo.

    «Penny Lane è un brano bellissimo.» Dolores le sorrise amorevolmente. La battuta non era stata cattiva, solo ovvia. «E poi, dovresti sapere il motivo di questa scelta.» Lo sapevamo tutte, era stato un gesto di ringraziamento nei confronti del donatore di sperma e patrimonio genetico. In sostanza, il padre che non avevo mai conosciuto.

    Da parte mia avevo accettato l’imposizione, i Beatles avevano fatto la storia della musica per buona parte del secolo scorso, un po’ meno il non avere idea da chi avessi ereditato la passione per le polpette e i piedi grandi.

    «Certo, Linny, era un modo per smorzare la tensione.» Non ha funzionato, avrei voluto farle notare, invece mi concentrai sul nome e cognome della fidanzata di Jordan.

    Mackenzie Fallon. Gradevolissimo come un calcio sugli stinchi.

    Mackenzie Lewis. Fa schifo.

    Non riuscivo a capacitarmene, anche se era del tutto logico; prima o poi sarebbe accaduto che Jordan si accasasse con un’abitante del luogo in cui era fuggito una decina di anni fa.

    «Tu che ne pensi, Zucchino?» Che cosa avrei dovuto pensare, a parte il fatto che stava per venirmi un infarto?

    Non ero ancora pronta a lasciarlo andare e forse non lo sarei mai stata.

    «Ecco, io…»

    «Avevi idea che si volesse sposare?» Non sapevo neppure che si fosse fidanzato, quel traditore!

    «Veramente…»

    «Deve aver perso la testa per questa ragazza, altrimenti non si spiegherebbe questo repentino cambiamento.» Aveva sempre dichiarato che non avrebbe mai preso moglie.

    Quello fu il temibile colpo di grazia per il mio cuore, che implose frantumandosi in un milione di pezzi.

    Lui non ce l’ha la testa, ha solo un grosso cervello in mezzo alle…

    Riuscii a pronunciare uno striminzito «già», alzai lo sguardo e incrociai quello di Dolores. Nonostante mi fossi premurata di non far trapelare alcun indizio, lei era stata brava a leggere tra le righe, a raccogliere i piccoli segnali e le tracce che inconsapevolmente mi lasciavo dietro.

    «Stai bene, Boogie?» Se per mia madre ero ‘Zucchino’ nei momenti in cui mi serviva una coccola, per Dolores ero ‘Boogie’.

    Il nomignolo me lo ero guadagnato la volta in cui, a tre anni, mi ero scatenata in un rock ’n’ roll, sopra il banchetto di mele candite di mister Matthew sulle note di In the mood.

    Provai a parlare, ma tutto quello che fui in grado di produrre somigliava ai richiami dei cormorani.

    La mamma posò la forchetta e mi osservò. «Sei pallida, ti senti male?» Non stavo male, semplicemente non riuscivo più a gestire la valanga di emozioni che mi aveva investita.

    «Influenza, credo.» Freddo e poi caldo, brividi alternati a ondate di calore.

    Da qualche istante la stanza aveva iniziato a girare o forse ero io che avevo improvvisato un girotondo da seduta.

    «Nel caso ci fosse qualcosa di cui vuoi parlare noi ti ascolteremo, non è vero, Linny?» disse Dolores e Adaline guardò entrambe con smarrimento.

    «Che cosa dovrebbe condividere con noi?» domandò, l’espressione sospettosa.

    «Stai sempre col naso per aria.» Distese le labbra in un sorriso. «Probabilmente sei l’unica in tutta l’isola che non se ne è accorta.»

    La confusione sul viso di mia madre, un vero tesoro di donna ma molto distratta, ben presto si tramutò in allarme.

    «Di che cosa avrei dovuto accorgermi?»

    «La nostra Pennylane nutre dei sentimenti per quello scavezzacollo di Jordan.» Suonò proprio come il grosso grasso errore che era.

    Le mie guance presero fuoco, la gola divenne secca come il Sahara e la lingua parve grattare sul palato.

    «Sono un disastro!» Mi coprii il volto con le mani.

    Se quanto aveva affermato Dolores era vero, e cioè che sull’isola tutti sapevano del mio debole per Jordan, avrei considerato l’idea di non farmi vedere in giro per il resto dei miei giorni.

    «Vorrei ben vedere, sono cresciuti insieme come fratelli.» replicò la mamma e io grugnii come un maiale che si rotola nel fango.

    «Da quando sono nati abbiamo spiegato loro che non hanno una goccia di sangue in comune.»

    «Certo…» convenne Adaline La Sbadata, poi calò un silenzio tale che, se mi fossi concentrata abbastanza, avrei sentito gli ingranaggi girare nella sua testa.

    Una O muta sulle labbra ci suggerì che aveva scoperto l’arcano. Le aprì e le chiuse svariate volte, non riusciva a trovare la frase giusta da dire, forse perché non c’era, era tutto sbagliato, io ero sbagliata e perfino Jordan lo era.

    «Sei innamorata, non è vero, Boogie?» Dolores sbrogliò la matassa nel consueto modo pragmatico. Valutai se mentire, poi considerai che per come stavano le cose non avrei saputo come giustificare il mio funebre stato emotivo da lì in avanti.

    «Sono una tale idiota!» Le lacrime che con stoica ostinazione avevo tenuto prigioniere trovarono una via di fuga.

    «Cosa diavolo ti dice il cervello?» Adaline si alzò in piedi, oltraggiata, proprio non ce la faceva a consolarmi. Da che ricordassi aveva sempre preferito deprimersi insieme a me piuttosto che infondermi coraggio.

    Quello era solo l’inizio.

    «Credi che non ci abbia provato a soffocarlo? Questo stupido amore…» Gli occhi di mia madre si spalancarono come papaveri appena sbocciati, rotondi e iniettati di sangue. «Ma questa non è il genere di situazione che puoi controllare. Tu più di chiunque altro dovresti saperlo, mamma.» Il pianto si fece dirotto, specie dopo che la sua espressione divenne cupa come il cielo di novembre.

    «Con questo che vorresti dire, ragazzina?»

    «Nulla.» Invece c’erano un mucchio di questioni in sospeso.

    «Non puoi tirare in ballo Dolly e me per qualsiasi vicenda!» Quella non era una questione qualsiasi, ma fui ancora dissuasa dal menzionarla dallo sguardo conciliatorio di Dolores.

    «Hai ragione, ti chiedo scusa.» balbettai, asciugandomi le lacrime, inspirando rumorosamente col naso, cancellando ogni traccia di debolezza.

    Avevo ventisei anni, ma venivo ripresa come una bambina che deve imparare a stare al mondo. «Mi scuso anche con te, Dolly.»

    «Andiamo, non c’è nulla di cui scusarsi.» replicò la mia seconda mamma battendomi una mano sulla spalla.

    «Se vengo giudicata, significa che ho qualcosa di cui scusarmi.» Le dita callose affondarono nella maglia come monito a chiudere la dannata bocca, ma io ero colma di frustrazione e risentimento per darle retta.

    «Pensi questo di me, che ti stia giudicando?»

    «Te lo leggo in faccia.»

    «Smetti di dire assurdità!» tuonò mia madre lanciando in aria lo strofinaccio.

    Accusarla di farmi sentire sotto esame era inaccettabile per una che aveva trascorso gran parte della propria vita a essere additata, derisa e tenuta lontana come un’appestata. I primi erano stati i suoi genitori a farla sentire sempre sotto accusa, aveva ricevuto più biasimo che abbracci e il dramma era che, senza volerlo, stava facendo lo stesso con me.

    «Piantatela, tutte e due.» intervenne Dolores, toccava sempre a lei far da paciere. «Abbiamo altre questioni di cui occuparci.» Più importanti della mia stupida cotta per tuo figlio? Se non mi fossi sentita sul punto di esalare l’ultimo respiro avrei riso a crepapelle. «I futuri sposi ci invitano nell’Isola Grande per una settimana.»

    «Bene, ve la spasserete!» esclamai con finto entusiasmo.

    «Ce la spasseremo, hanno invitato anche te.» Il finto entusiasmo si tramutò in sconcerto. «A quanto pare quello di quest’anno sarà un Natale diverso.» Notai il biglietto con la grafia squadrata di Jordan.

    Mac ed io ci terremmo che veniste tutte per trascorrere insieme a noi il Natale…

    Rabbrividii al pensiero, avrei preferito di gran lunga essere ingoiata da un boa constrictor.

    «Non so voi, ma è un’eventualità che potrebbe succedere solo se prima subissi una lobotomia.» Nel caso reperire il serpente fosse stato troppo complicato.

    «Non possiamo rifiutarci.» considerò la mamma con aria ostile. Non era il momento adatto per darmi addosso.

    «Io mi rifiuto, altroché.» Saltai dalla sedia e costringendo le mie gambe a muoversi corsi fuori dalla cucina e dall’hotel, corsi e corsi, a perdifiato, senza una meta precisa, anche se alla fine mi ritrovai nell’unico luogo in cui avrei ricevuto un po’ di conforto.

    La fattoria dei Mitchell.

    «Pepper è in casa, zia Ondine?» chiesi ansimando. L’anziana nonna della mia migliore amica era seduta sul dondolo del portico, intenta a lavorare a maglia l’ennesimo maglione dolcevita di Pep.

    «Sta stendendo i panni nel cortile sul retro. Va tutto bene, piccola?»

    «Certo, ho fatto una corsa fino a qui.» Mi sforzai di sorriderle e lei mi fece un saluto con la mano, dopodiché a passo svelto girai intorno alla casa, dietro la quale trovai Pepper impegnata a spiegare i panni al timido sole del mattino.

    «Pep!» urlai, lei si voltò di scatto, vidi l’espressione mutare da sorpresa in preoccupata, mentre la fila di indumenti sventolava mossa dal vento. La mia amica intuì subito che non stavo bene, lasciò cadere la camicia di flanella dentro il catino e mi venne incontro correndo.

    Non chiese perché stessi piangendo, aprì le braccia ed io mi gettai su di lei a corpo morto, per poco non cademmo sul terreno. «È finita, Pep. È finita per sempre…»

    2 Pennylane

    Ciò di cui avevo bisogno era sopravvivere a quella giornata.

    Facile, no?

    La realtà era più complicata di così.

    Da quando avevo preso in mano le redini dell’hotel, ormai tre mesi prima, nessuno della mia famiglia si era accorto dello strisciante squilibrio che si era insinuato nella mia testa.

    Dormivo poco, mangiavo appena, non ridevo più.

    Tutta colpa dell’imminente matrimonio di Jordan?

    In parte. Una parte rilevante a dire il vero, tuttavia c’era un’altra faccenda, nient’affatto futile e marginale, che aveva calato il suo bel carico da novanta sulla mia precaria stabilità emotiva.

    Ovviamente la notizia che Jordan stesse per mettere una croce sopra la nostra travagliata e segretissima non-relazione era stata una mazzata tra capo e collo, ma per quanto non volessi ammetterlo, avevo sempre saputo che il nome accanto al suo, sulle partecipazioni alle nozze, non sarebbe mai stato il mio.

    Sia la mamma sia Dolores non avevano più toccato l’argomento Penny La Stupida Innamorata, dal canto mio ero consapevole di aver provocato una frattura nei sentimenti della mia genitrice, ben più di quanto lei volesse farmi credere.

    Un po’ per cinismo, un po’ per disillusione, avevo preferito anch’io far cadere la faccenda nel dimenticatoio piuttosto che rimpolpare lo strappo con ulteriori attriti.

    Il prossimo tema che avremmo discusso tutte insieme sarebbe stato Come evitare la bancarotta del Lobster, e non avremmo avuto voglia di tè o fette di torte in accompagnamento.

    Durante la colazione, lo scambio di battute con mia madre mi aveva fatto tremare le vene dei polsi.

    «Altre due disdette!» Strinse fra le mani un povero strofinaccio come se volesse disintegrarlo, l’aveva usato per sfornare la torta di mele che adesso si stava freddando sulla graticola. Poco più in là, un usurato registro delle presenze era aperto sul giorno corrente, mostrando impietoso il numero di camere disponibili. «Nell’ultimo mese solo dieci prenotazioni, per lo più soggiorni mordi e fuggi.» aveva constatato con aria infelice.

    «Hanno detto perché non vengono?» Mi versai dell’altro caffè senza avere il coraggio di sostenere il suo sguardo.

    «Che importanza vuoi che abbia, Pennylane? Se questo sarà l’andazzo dei nostri affari, dove andremo a finire?» In mezzo a una strada! E dovetti morsicarmi la lingua per non affermarlo a gran voce.

    «Vedrai che il prossimo mese andrà meglio.» risposi quieta, mentre i peli del corpo si rizzavano e brividi di terrore gelavano la spina dorsale.

    Pescai un sorriso dalle scorte d’emergenza, poi le passai un braccio intorno alle spalle e mi adagiai sul suo petto, il viso ficcato tra il collo e la clavicola, il luogo magico di tutte le mamme, che odora di qualcosa di buono e consolatorio, a seconda dei momenti.

    Il suo sapeva di borotalco ed estratto di vaniglia.

    «Non è vero, Pennylane, e ne sei consapevole anche tu. In inverno sarà difficilissimo avere più di due o tre camere occupate. Per non parlare dei bungalow!» Era stata un’impresa tenerli occupati in estate, figuriamoci nella stagione fredda.

    Considerai che tacere fosse di gran lunga meglio che mentire.

    Né mia madre né io eravamo mai state brave a nascondere le preoccupazioni o le gioie, chiare e distinguibili sui nostri visi come le illustrazioni dei libri per bambini.

    Il primo pasto della giornata trascorse in un silenzio carico di tensione, cui seguì la notizia che il traghetto mercantile era attraccato al porto senza i nostri rifornimenti.

    Stando a Otis, l’incaricato dello spaccio portuale, non c’era neppure un sacco di farina per il Lobster.

    Avevo inviato personalmente gli ordini alla ditta di stoccaggio, una settimana fa, e l’ufficio logistica mi aveva confermato la data di arrivo delle derrate tramite mail.

    Magari sarebbe stata risolutiva una telefonata… Non appena fossi tornata da Bar Harbor.

    Dolores aveva accusato Otis di incompetenza.

    «Avrà la nostra roba sotto il naso, ma quell’uomo è troppo stupido per notarla.» Otis Berger era un impiegato scrupoloso, ma anche membro di spicco della locale associazione delle Famiglie Tradizionali Americane.

    Ecco spiegato l’astio di Dolores nei suoi confronti.

    «Sicuramente ci sarà un ragione.» dissi per rassicurare entrambe. «Mi occuperò della faccenda nel pomeriggio.» E me ne sarei occupata eccome, a costo di recarmi personalmente nel Rhode Island, dove aveva sede l’Enola Food.

    «Charlene avrà dei problemi al ristorante se quelle derrate non arrivano per tempo.» Charlene Torres era stata il braccio destro della mamma, e per quanto fosse competente e avesse esperienza, non se la sarebbe cavata senza materie prime.

    «Chiedi a Monty di andare al locale, fagli stilare una lista di ingredienti utili a mettere insieme la cena di stasera. Glieli procurerò.» promisi.

    La questione delle forniture mancanti scombussolò il mio stomaco e scompaginò la mia tabella di marcia. Quando varcai la soglia della mia camera per cambiarmi d’abito ero in mostruoso ritardo.

    Avrei fatto carte false pur di non presenziare all’incontro con il fiscalista previsto per quella mattina a Bar Harbor. Reginald Cartwrite aveva tenuto a specificare che ‘la questione era importante’ e doveva parlarmene ‘il prima possibile’.

    In buona sostanza le mie scarse doti imprenditoriali stavano mandando in malora il Lobster, Camping & Village, Moon’s Island, Maine.

    Un giorno di dodici settimane fa, mia madre e Dolores avevano deciso che i tempi per la pensione erano maturi e che dunque avrebbero lasciato nelle mie tremanti mani la gestione del loro gioiellino. Sette giorni dopo, un atto formale aveva stabilito che Jordan ed io eravamo i nuovi proprietari dell’hotel. Da allora Linny e Dolly avevano continuato a ronzare intorno all’attività, una in cucina, l’altra nell’orto, tuttavia la totalità delle responsabilità gravava ormai su di me.

    Se Jordan era rimasto entusiasta dell’acquisizione di metà proprietà non lo aveva dato a vedere, tenendo conto che aveva disertato sia l’appuntamento presso lo studio legale per il passaggio di consegne sia la cena inaugurale che era seguita.

    Non è fantastico?

    Afferrai la stampella con i vestiti che avevo scelto con cura e li indossai, senza neppure buttare un occhio allo specchio. Calzai le scarpe, afferrai la borsa, gettai dentro l’agenda, la pochette con qualche cosmetico e il cellulare. Giunta sotto la pergola che fungeva da garage pregai la mia vecchissima Ford Mondeo di partire al primo giro di chiave.

    Mi ascoltò.

    In più occasioni, durante il tragitto, pigiai il piede sull’acceleratore, ma nonostante ciò riuscii a imbarcarmi sul secondo traghetto in partenza per Mount Desert – che noi gente di Moon’s Island chiamavamo l’Isola Grande – solo per il rotto della cuffia.

    Su Mount Desert sorgevano due cittadine densamente popolate, Tremont e Bar Harbor, dove per l’appunto ero diretta.

    Sistemai l’auto davanti alla linea rossa indicata dall’addetto alle manovre, spensi il motore e mi lasciai cullare dalla lenta serie di operazioni che precedevano la navigazione, fino a quando l’imbarcazione fendette un’onda di traverso e lo scafo s’inclinò.

    Un terribile senso di nausea mi contorse le budella, mi passai una mano sulla faccia e provai, senza riuscirci, ad allargare il colletto della camicetta che avevo scelto per quell’appuntamento.

    Quel travestimento non stava funzionando.

    Light In The Box, in poco più di un mese, mi aveva elargito l’onorificenza di ‘Cliente più Attivo’.

    Avevo ordinato tre completi blu, tre grigi e tre neri, un cappotto nero e un parka verde bosco, da cui negli ultimi tempi mi separavo solo per andare a dormire.

    Giacca/pantalone, giacca/gonna, blazer/gonna.

    Tre camicette bianche, tre maglie grigie, tre top neri.

    Tre paia di décolleté tacco medio, uno blu, uno nero, uno beige, che va su tutto.

    Peccato non possedessi il corpo sinuoso di Olivia Pope, né tantomeno l’incedere risoluto di Annalise Keating.

    La mia aspirazione era non ricordare troppo Bridget Jones.

    Lanciai uno sguardo alla tote con i fiori in stoffa applicati, risultato del mio ultimo periodo creativo. Prima di quella c’erano stati i gioielli in pasta di sale e le saponette biologiche. A stagioni alterne mi piaceva realizzare piccoli oggetti, anche se con scarsi risultati.

    Esiste un campo in cui eccelli?

    Non me ne veniva in mente nessuno.

    Nelle prime occasioni in cui avevo sfoggiato il mio look da donna in carriera mi ero sentita più sicura, poi il direttore della locale Bank of America mi aveva messo in guardia circa i tassi d’interesse dei prestiti a medio termine e l’effetto era evaporato come le gocce di Chanel N. 5 che avevo preso in prestito da mia madre.

    In definitiva avrei anche potuto indossare i miei soliti jeans e non sarebbe cambiato nulla, insicura e pasticciona ero e tale sarei rimasta, anche agghindata e truccata di tutto punto.

    La verità fa male!

    Un’altra onda mi sballottolò un po’ qua un po’ là lasciandomi scombussolata, se avessi rigettato la colazione sulla camicetta quella terribile mattina sarebbe stata davvero perfetta.

    Vivere su un’isola riservava senz’altro dei vantaggi, ma essere costretta a una traversata su una chiatta sgangherata per raggiungere il continente non era fra questi. E quella tremenda giornata aveva tutte le carte in regola per farmi pentire di essere venuta al mondo o, in alternativa, farmi meditare il suicidio.

    Fare parte della risicata comunità di Moon’s Island poteva essere un problema, specie se si aveva dai quattordici ai sedici anni di età, e di recente si era aggiunta la fatidica goccia che rischiava di far traboccare il vaso. Le attività commerciali dell’isola stavano lentamente, ma in modo progressivo, scomparendo, minacciando di farci diventare un luogo fantasma.

    I prossimi saremo noi!

    I tempi si erano fatti difficili da quando l’economia mondiale viveva la più grave crisi del dopoguerra. Il nostro resort era studiato per le famiglie che cercavano relax e divertimento tutto compreso, ma mantenere uno standard accettabile a prezzi ridotti richiedeva uno sforzo estremo, paragonabile al folle che rincorre la coda di una cometa.

    Il complesso era costituito da una struttura principale con un ristorante, una sala da tè, una ludoteca e quindici bungalow sparsi nei luoghi più caratteristici della costa di Long Light.

    I nostri villeggianti potevano usufruire di un’ampia area picnic, un parco giochi per i piccoli, un campo da tennis e di bocce per i grandi, che potevano effettuare escursioni guidate, prenotare lezioni di kayak o di pesca. Da qualche mese, come incentivo, fornivamo un buono acquisto spendibile presso l’emporio sportivo del Village di ben trenta dollari.

    Sei a Moon’s Island ma non possiedi degli stivali per la pesca? Nessun problema, te li regaliamo noi!

    Ora che ci pensavo, il conto allo spaccio di Murray doveva essere saldato.

    Aggrottai la fronte.

    Quell’incubo mi teneva sveglia di notte.

    I negozi, a Moon’s Island, abbassavano le saracinesche, le aziende mandavano a casa i dipendenti e persino i locali e i ristoranti dove si gustavano le famose aragoste del Maine avevano cominciato a passarsela male.

    Il nostro commercio, in ogni sua sfaccettatura, stava subendo una graduale ma inarrestabile recessione a causa di un morbo che aveva iniziato ad ammalare il globo: il suo nome era Crisi Economica.

    Ed io, che non ero neppure lontanamente una esperta imprenditrice, avevo cominciato a sentirmi come quegli insetti che si lasciano attrarre dalla luce abbagliante di una lampadina e che poi finiscono per essere rosolati dal vetro incandescente.

    Fin da piccola, il pensiero che un giorno sarei stata io a occuparmi dell’azienda che mia madre e Dolores avevano messo in piedi dal nulla e con le loro uniche forze, mi aveva reso entusiasta e orgogliosa, quasi certamente perché non avevo la minima idea di cosa significasse essere al comando dell’intera baracca, fornire gli input alla truppa, dirigere la brigata, fare in modo, cioè, che tutto girasse alla perfezione e senza tirare fuori dalle casse dell’attività un centesimo in più del necessario.

    Era ciò di cui mi sentivo terribilmente responsabile.

    Avevo acquistato delle attrezzature, un mucchio di attrezzature, a conti fatti di dubbia utilità, e solo perché mi ero lasciata abbindolare dalla capacità persuasiva del rappresentante della ditta, giunto a Moon’s Island niente meno che dal continente. Il classico tipo capace di vendere frigoriferi agli eschimesi.

    Sospettavo di aver sperperato i fondi dell’azienda causando una voragine nelle nostre esigue risorse. Era questa la questione urgente di cui voleva parlarmi Cartwrite?

    Non potevo esserne sicura…

    Il fantomatico buco avrebbe potuto essere lì già da prima che subentrassi io al comando.

    Era assodato, però, che da sola non sarei riuscita a evitare il disastro, saremmo stati risucchiati. La mamma e Dolores non lo avrebbero mai permesso…

    Era ciò che garantiva il capo, limitare i danni, non provocarne di irreparabili.

    Beh, ormai era ovvio che non fossi un capo, non ero un’imprenditrice, non ero neppure una donna in carriera. Ero, in buona sostanza, fregata, l’azienda era fregata, dopo soli tre mesi di gestione approssimativa e inadeguata.

    Accesi la radio mangianastri, un po’ di musica mi avrebbe aiutato a tenere sotto controllo il livello di stress.

    Nell’ordine mi capitò di ascoltare: I’ll Never Love Again - Lady Gaga/Bradley Cooper, Supermarket Flowers - Ed Sheeran e Someone Like You - Adele.

    La voglia di gettarmi tra i flutti gelati dell’oceano Atlantico crebbe senza freni, mi trattenne il pensiero che il mio gesto avrebbe causato più dolore di quanto avrebbe fatto una eventuale bancarotta.

    Che diavolo ti passa per la testa?

    Un mucchio di stronzate, ecco cosa mi passava.

    Se analizzavo il mio presente – il matrimonio di

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