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Omicidi senza traccia
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E-book362 pagine5 ore

Omicidi senza traccia

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Info su questo ebook

«Vi lascerà senza fiato.»
Lisa Gardner

«Un adrenalinico racconto dalla penna di un esperto analista.»
The Boston Globe

Magnus “Steps” Craig è un esperto dell’FBI, specializzato nella ricerca di serial killer e di persone scomparse. I giornali lo hanno soprannominato il “Segugio umano” per la sua capacità di seguire tracce invisibili a chiunque altro. Ma questa sua abilità nasconde un segreto, un dono speciale di cui sono a conoscenza solo poche persone: suo padre, il direttore dell’FBI e Jimmy Donovan, suo collega. Quando viene ritrovato il cadavere di una donna, Steps riesce incredibilmente a ricollegare l’omicidio a un altro caso e scopre la “firma” che lega i due delitti: l’emoticon di una faccina triste. E appena una nuova vittima viene rapita, Magnus si lancia subito all’inseguimento del misterioso assassino...

«Craig è un personaggio straordinario, una magnifica novità nel panorama degli eroi della letteratura del crimine.»
Publishers Weekly

«Kope riesce a consegnare un inedito punto di vista alla storia e al suo protagonista, e ci regala un personaggio unico, talentuoso, simpatico e dotato di grande umanità.»
Kirkus Reviews
Spencer Kope
criminologo che lavora con la polizia della Contea di Whatcom (Washington), si occupa di delitti di ogni tipo, inclusi numerosi “cold case” che ha contribuito a risolvere. Collabora anche con l’FBI, la DEA e altre agenzie governative americane, nonché con la polizia federale.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2017
ISBN9788822710000
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    Anteprima del libro

    Omicidi senza traccia - Spencer Kope

    1683

    Tutti i personaggi e gli eventi descritti in questo libro, tranne quelli di pubblico dominio, sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, è puramente casuale.

    Titolo originale: Collecting the Dead

    © 2016 Spencer Kope

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Alessandra Di Dio

    Prima edizione ebook: agosto 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1000-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    Spencer Kope

    Omicidi senza traccia

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Questo libro è dedicato alle persone più speciali

    tra noi, gli uomini e le donne che affrontano minacce costanti, che vengono insultati, ricoperti di sputi,

    condannati e aggrediti, e che ne accettano

    di buon grado le conseguenze.

    Loro sono i guardiani della società civile, che affrontano le paure cosicché gli altri non debbano farlo, che

    accorrono quando gli altri scappano, e che troppo

    spesso si immolano affinché gli altri possano

    semplicemente vivere.

    Difendono beni che non sono di loro proprietà, cercano dispersi, consolano persone distrutte dal dolore,

    recuperano corpi, fanno da scudo ai maltrattati e

    pretendono giustizia per le vittime di omicidi e stupri.

    La loro opera li porta nel cuore della miseria,

    a camminare tra gli abietti; eppure, in qualche modo, hanno sempre un sorriso per il proprio coniuge

    e i propri bambini quando tornano a casa.

    A coloro che danno il massimo.

    A coloro che proteggono e servono.

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Epilogo

    Ringraziamenti

    CAPITOLO 1

    15 giugno, ore 10:12

    Aveva i piedi piccoli.

    Dico aveva perché affermare che ha i piedi piccoli implicherebbe che è ancora viva. Ma non lo è. Lo so. Lo so sempre. È la mia abilità speciale, il mio fardello, la mia maledizione. Gli altri credono che stiamo cercando una runner scomparsa, forse ferita o dispersa, ma di certo viva. A loro non posso dire che è troppo tardi; come potrei spiegare una simile informazione?

    Non mi crederebbero comunque.

    La gente è riluttante a dare qualcuno per morto.

    Mi rigiro la scarpa che ho in mano, osservandola da ogni angolazione. È una selezione casuale dal suo armadio, fatta precedentemente al mio arrivo, procedura standard per una pista come questa. Esamino l’usura sulla suola, le ammaccature sul cuoio, i segni di cedimento sul cinturino, come se facendolo si dissipasse e rivelasse il mistero della sua camminata, del suo portamento, del modo in cui talvolta strascicava appena il piede sinistro, quasi impercettibilmente.

    Si impara a conoscere le scarpe, nel mio ambito di lavoro: scarpe da donna, scarpe da uomo e, purtroppo, scarpe da bambino. Questa è una décolleté con cinturino alla caviglia, tacco sette e tomaia in pelle. Non di fascia alta, ma nondimeno bella. So che l’ha indossata per l’ultima volta all’incirca due settimane fa… ma questa informazione non troverà posto nel mio rapporto.

    «Puoi rintracciarla?», chiede il sergente Anderson.

    Io annuisco, ma non dico nulla, fingendo di analizzare ulteriormente la scarpa per il bene del mio pubblico, che ora include quattro agenti, una decina di volontari della squadra di ricerca e soccorso, e il mio partner, l’agente speciale FBI Jimmy Donovan. La verità è che non ho bisogno di sapere come camminava, qual era la sua andatura, o se appoggiava il peso sull’avampiede o sul tallone. Ma le illusioni vanno mantenute.

    Newsweek una volta mi ha definito il Segugio umano. Sono certo che abbia evocato l’immagine che volevano, per quanto quell’immagine fosse sbagliata. Se solo sapessero. Se solo potessero vedere che impostore sono.

    «Hai detto che suo marito ne ha denunciato la scomparsa?», dico al sergente.

    «Ieri notte», risponde Anderson. «Ha detto che era andata a fare una corsa dopo il lavoro, come fa sempre, e non è mai tornata. Erano circa le cinque di pomeriggio».

    «E non c’è nessun altro posto dove potrebbe essere andata? Nessun altro percorso su cui corre?»

    «Che sappia il marito, nessuno. Perlopiù restava vicina a casa».

    «Dov’è lui? Il marito?»

    «È in casa, a riposare».

    «A riposare?»

    «La notte scorsa ha percorso il tracciato quattro volte per cercarla, prima di chiamare aiuto».

    «Quattro volte, eh?»

    «Sì. E l’ha percorso di nuovo con noi stamattina».

    Togliendomi gli occhiali e mettendoli al sicuro nel loro astuccio di pelle, resto lì per un momento a studiare il retro della modesta casa a due piani di Ann Buerger. Con gli occhi seguo i suoi passi fuori dalla porta di servizio, attraverso il prato e fino allo sterrato e al sentiero di ghiaia ai miei piedi. I passi portano a nord, subito si dilatano da una camminata a una corsetta regolare entro i primi diciotto metri.

    «Il tracciato è un circuito di cinque chilometri», dice Anderson, «sebbene si possa svoltare dopo il primo chilometro e mezzo e prendere la scorciatoia per tornare indietro, appena prima che il sentiero cominci a salire verso Bowman Summit. La squadra SAR l’ha percorso tutto tre volte». Solleva il mento in direzione del team di ricerca e soccorso. «Hanno controllato anche la scorciatoia. Non c’è traccia di lei».

    Io annuisco. «Facciamolo allora, step by step».

    Il sentiero inizia in piano quando costeggia il confine occidentale di Crest View, un comune di novantasette case unifamiliari quarantotto chilometri a ovest di Portland e appena a nord-ovest dell’Henry Hagg Lake. Le abitazioni sono un miscuglio di villette, case coloniali e sporadici edifici a più piani. È considerato un quartiere esclusivo in questa parte di Oregon, i prati sono ben curati e i marciapiedi puliti; un bel quartiere sotto ogni punto di vista.

    Io e Jimmy facciamo da apripista e andiamo a passo svelto. Il delicato sentiero attorno a Crest View presto si trasforma in un pendio costante che mozza il respiro. Dopo il primo chilometro e mezzo in pendenza dieci, sono affannato e mi incavolo con Jimmy, che sta fischiettando il motivetto di Mission Impossible e sembra vivere il momento più bello della sua vita. Non che io sia fuori forma, riesco a correre per sedici chilometri bene quanto loro; solo che preferisco farlo un chilometro per volta con, in mezzo, pause di ventiquattro ore.

    Voltandomi, saluto il sergente Anderson nelle retrovie. Sembra aver speso un bel po’ di tempo in ufficio a tuffarsi tra le ciambelle, e io ho proprio bisogno di una scusa per rallentare Jimmy. Il sergente ansima piuttosto pesantemente quando ci raggiunge, e io mi fermo per permettergli di riprendere fiato. Mission Impossible farfuglia e poi smette.

    «Che succede?», chiede Jimmy.

    «Prendo soltanto un attimo fiato», dico io con naturalezza, inclinando appena la testa verso la faccia sudata di Anderson, mentre cerco di non apparire affaticato dalla camminata.

    Jimmy annuisce e beve un sorso d’acqua dal suo zaino idrico, poi chiede ad Anderson: «Com’è la vetta?».

    «So cosa stai pensando», sbuffa il sergente, annuendo con la testa come se avesse aspettato questa domanda. «Abbiamo ispezionato il versante ma non siamo riusciti a trovare nessuna prova di qualche persona che sia caduta». Deglutisce in cerca di fiato per aver parlato troppo velocemente. «Non è nemmeno un dislivello diritto, quindi se avesse perso l’appoggio e fosse finita giù», glu, «avrebbe lasciato solchi nella terra, piante sradicate, quel genere di cose». Glu, glu, gasp. «Inoltre, il sentiero è largo abbastanza da permettere di non avvicinarsi al bordo».

    «Quindi, se non scende dritto, presumo che non si riesca a vedere molto bene l’avvallamento dalla cima?»

    «No, ma se leghi una corda e ti sporgi un po’…»

    «Qualcuno l’ha fatto?». Jimmy beve un altro sorso dallo zaino, questa volta uno lungo, e poi lo chiude.

    «Scott Johnson e Marty Horvath», replica Anderson, asciugandosi la fronte e il collo con un fazzoletto color avorio sporco. Ficcandoselo umido nella tasca posteriore, si gira e scruta rapidamente i volti di quelli dietro di noi, poi indica, verso il fondo, due dei membri SAR più giovani e atletici. «Eccoli. Scott è lo smilzo a destra. Loro due sanno come calarsi e non vedono l’ora di farlo. Quei pazzi volevano iniziare con il buio, ma li ho convinti ad aspettare fino alle prime luci di questa mattina. Hanno dato una bella occhiata ma non hanno visto nulla. Ovvio, la vetta copre quattrocento metri buoni».

    «Quanto è alta?», chiede Jimmy, ma non sembra interessato alla risposta, non guarda la pista, me o il sergente Anderson; i suoi occhi stanno vagando dal tronco contorto di un albero deforme, a uno scoiattolo chiacchierone che lancia un grido d’allarme da un ramo vicino, a una poiana della Giamaica che volteggia alta, profilata contro il cielo celeste con il sole che si muove lentamente verso il mezzogiorno.

    Jimmy è un escursionista. È anche un segugio piuttosto bravo, nel suo piccolo. Non so che cosa ci sia tra lui e le terre selvagge: le colline, i sentieri di caccia, i laghi isolati in vallate difficili da raggiungere. Credo che neanche lui lo sappia, non per davvero, ma glielo si legge negli occhi e lo si sente nella sua voce ogni volta che ci mettiamo in marcia: lui ama il bosco.

    Io lo odio.

    Ogni volta che finiamo nella selva, sembra che ci sia un corpo coinvolto. È iniziata con cacciatori dispersi che soccombevano agli agenti atmosferici, ed escursionisti fuori forma che esigevano troppo dal proprio cuore. Di questi tempi, si tratta più di vittime di omicidi e morti sospette. Non è questo che mi preoccupa, comunque. Io e il bosco abbiamo dei trascorsi, e non positivi.

    Spesso mi sono chiesto se fossi il bersaglio di qualche scherzo cosmico. Perché mai Dio avrebbe dovuto prendere un ragazzino il cui motto preferito era Amico, non accamparti, e l’avrebbe reso il migliore segugio al mondo, neanche uno di quelli veri, ma una persona che deve fingere?

    Jimmy dice che non l’avrebbe fatto.

    Ma viviamo di bugie, io e Jimmy. La verità è un grande segreto custodito soltanto perché sarebbe troppo difficile, per i più, da credere. È la mia vita e crea problemi persino a me.

    Dio mi odiama.

    È la parola che mi sono inventato quando avevo quindici anni, mentre mi sforzavo di decidere se Dio mi amasse o mi odiasse, e ho optato per entrambi. Odiamare. Mi piace, è schizofrenica. Con il tempo, comunque, mi sono reso conto che Dio non mi odia davvero… così tanto… e che la mia speciale abilità di localizzazione è un dono vero e proprio, come quando i greci lasciarono quel bel cavallo ai troiani.

    Perciò eccomi qua, ancora una volta nei boschi. È la terza pista questa settimana. Le altre due erano facili, siamo andati e tornati nel giro di poche ore. Una era tra i sobborghi di Atlanta. Il corpo accoltellato e picchiato di un maschio di ventitré anni è stato ritrovato tra i cespugli vicino a un parco giochi. La traccia era valida e ci ha portati al covo di una gang a tre isolati di distanza. È stata sorprendente la velocità con la quale i membri della banda si sono accusati l’un l’altro quando i detective hanno cominciato a parlare di omicidio.

    L’altra pista era tra le rovine fatiscenti della vecchia Detroit. Il Dipartimento di polizia pensava che il ragazzo fosse stato picchiato a morte, ma è venuto fuori che era caduto dal tetto di un deposito abbandonato, colpendo svariati ostacoli nella discesa e atterrando in mezzo al vicolo. Un caro prezzo da pagare per un paio di dollari di rame rubato.

    Tutto sommato, è stata una settimana facile. Niente alberi. Niente foreste. Niente furia devastante di zanzare, zecche, mosche, ragni e moscerini.

    Non sarò così fortunato stavolta.

    Quando ripartiamo, il sergente Anderson dice: «Quindi… Steps, eh? Come mai hai un soprannome del genere?».

    Mi vengono subito in mente un paio di risposte, ma Jimmy mi dice sempre che divento scontroso quando sono nei boschi e che devo rilassarmi ed essere gentile. Mi ricorda di pensare a quel che sto per dire prima di dirlo… che è ciò che credevo di fare.

    Ha conseguito un master in psicologia prima di entrare a far parte del Bureau.

    Che cavolo ne sa?

    «Il mio vero nome è Magnus Craig», dico ad Anderson, «ma tutti mi chiamano Steps da quando avevo quattordici anni, persino mamma. Dall’estate in cui ho fatto la mia prima operazione di ricerca e soccorso».

    «Escursionista disperso?»

    «Peggio. Due bambini, di cinque e otto anni. Si erano allontanati da un campeggio e si stava già facendo notte quando sono arrivato io. Qualcuno ha detto: Come hai intenzione di rintracciarli nel buio?, e io ho risposto semplicemente: Step by step. Trenta minuti più tardi, ho trovato i bambini rannicchiati nell’incavo di un vecchio ceppo muschioso, spaventati a morte, ma illesi».

    Mi fermo e mi accovaccio sul percorso, portando l’intero corteo ad arrestarsi. I miei occhi danzano su una prova inesistente per terra, fingendo curiosità per immaginari segni di passaggio. Le apparenze, ricordo a me stesso, bisogna sempre salvare le apparenze. È semplice, davvero: una pausa qui e là, una saltuaria espressione perplessa, dita che svolazzano in aria mentre cercano di aiutare a leggere la traccia. Apparenze. L’ho imparato a mie spese.

    Rialzandomi, mi incammino ancora una volta, il corteo barcolla dietro di me. «Quando abbiamo raggiunto il campeggio quella notte», continuo a dire ad Anderson, «tutti sostenevano che pareva che io potessi vedere le impronte dei bambini dipinte per terra. Folle, vero? In seguito, uno degli agenti mi ha lanciato una bottiglia d’acqua e ha detto: Step by step, eh? Be’, un brindisi per Steps. Come puoi immaginare, in un gruppo come quello, è bastato poco perché tutti mi chiamassero Steps».

    Tralascio di raccontare al sergente Anderson che, a quel tempo, io non ero un membro della squadra di ricerca e soccorso e che era stato mio padre a portarmi al campeggio, quando aveva sentito dei ragazzi scomparsi. Sapeva della mia particolare abilità e che potevo essere d’aiuto. Adesso, anni dopo, solo tre persone conoscono il mio segreto: papà, Jimmy e il direttore dell’FBI Robert Carlson.

    «Da quanto sei con l’Unità Speciale di localizzazione dell’FBI?», chiede Anderson.

    «Da cinque anni ormai, da quando è stata fondata».

    «Scommetto che aiuti molte persone», dice lui, e noto ammirazione nelle sue parole. Ma non rispondo. In media, totalizzo circa due chiamate e mezzo a settimana, e, di questi tempi, non mi mandano casi facili. C’è di mezzo sempre qualcosa di insolito, inspiegato o sinistro, il che significa che i corpi si accumulano piuttosto in fretta.

    Una carrellata di volti di morti comincia a scorrermi nella mente, spontanea e sgradita. Le impongo di interrompersi e la sostituisco con sorrisi di vivi… ma sono in inferiorità numerica e presto si torna a visi di cadaveri, occhi vitrei, bocche spalancate e morte.

    Aiuto?, penso. Non tanto di questi tempi. Sono soltanto un prestanome del becchino.

    Bowman Summit è proprio come me l’ero figurata: una cresta alta, sporca, fiancheggiata da un dolce declivio di alberi a est, generosamente mescolati a rocce sedimentarie, e a ovest una scarpata a forma di mezzaluna che scende fino alla foresta sessanta metri più giù. Assolutamente tremendo!

    «Ora, questa sì che è una vista mozzafiato», dice Jimmy, mettendosi accanto a me.

    Imbecille.

    Gli voglio bene come a un fratello, davvero: ha la risata facile ed è sempre il primo a trovare il lato migliore di una situazione terribile, ma a volte…

    «Dai, Steps», dice Jimmy, facendo finta di tirarmi un pugno alle reni, «devi ammettere anche tu che è una vista magnifica. Il modo in cui la foschia rimane sospesa sugli alberi…».

    Alzo l’indice della mano destra in aria, e Jimmy ne conosce il senso. Abbiamo una regola sacra: quando siamo nel bosco, non parliamo del bosco.

    Nega che io abbia la dendrofobia, l’assurda paura delle foreste. Io sostengo che, tra tutti, sono l’unico ad aver voce in capitolo su questa assurda paura delle foreste. Ma, a quanto pare, siccome non ho crolli nervosi sui sentieri, in un modo o nell’altro questo dimostra che non ce l’ho.

    Specializzati in psicologia.

    «Aspe’, Jimmy!», urlo, bloccandomi di colpo sul sentiero, con le braccia alzate e tese come per fermare quelli dietro.

    Il sentiero tracciato davanti a me è poco diverso dal resto della vetta, ma inciso su di esso per l’eternità c’è l’ultimo paragrafo dell’ultima pagina dell’ultimo capitolo della vita di Ann Buerger. Lo vedo distintamente, così come vedo Jimmy in piedi accanto a me, sebbene ci siano scarse prove materiali.

    Un segugio eccezionale ne vedrebbe alcune.

    Io le vedo tutte.

    Un brivido mi attraversa il corpo mentre una calda brezza arriva da sud.

    Non ci si perde su un percorso di cinque chilometri che attraversa il proprio cortile, un circuito su cui si è camminato o corso centinaia di volte. Non succede e basta. Non conoscevo i dettagli dell’ispezione quando stamattina alle 6:23 è arrivata la chiamata, ma prima delle 7:30 avevamo già decollato dall’Hangar 7 dell’aeroporto internazionale di Bellingham diretti a sud, verso Portland, sul jet aziendale dell’Unità Speciale, un Gulfstream G100.

    L’Hangar 7 è sia un ricovero per il jet sia una struttura sicura e innocua da cui opera l’Unità Speciale. Il passaggio è sufficientemente largo per l’apertura alare di quasi diciassette metri del Gulfstream, e c’è abbastanza spazio sul retro per una fila di uffici su due piani.

    Al piano di sotto, sulla sinistra, c’è una comoda sala con una TV da sessanta pollici alla parete, svariate sedie e un divano ideale per dormire, cosa che io posso garantire in prima persona. Al centro c’è una zona cucina con un frigo all’americana (dispenser di ghiaccio e acqua inclusi), un lavello, una lavastoviglie e un mucchio di mensole e armadietti. A destra c’è la nostra sala riunioni: una stanza di vetro, insonorizzata, con un tavolo in mogano lungo e senza dubbio costoso che si estende al centro. Il tavolo è circondato da una scorta di sedie straimbottite e stracomode.

    La stanza non viene usata granché.

    Però le sedie sono ben oliate, e a me e a Jimmy piace girarci sopra il più veloce possibile per vedere chi si sente male per primo. Siamo professionisti.

    Il secondo piano ha una struttura meno complessa: ufficio di Jimmy sulla destra, il mio sulla sinistra e quello di Diane Parker proprio in mezzo, povera donna.

    Diane è la nostra analista d’intelligence, il che in sostanza significa che è un’enciclopedia ambulante di informazioni sia utili sia inutili, una segretaria, un’archivista, un tecnico informatico, un’agente di viaggi, ed è l’unica a saper sturare il tritarifiuti della cucina.

    Diane è una maestra dei puzzle, la sola che scava nei database e trova i pezzi mancanti, allineandoli per raccontare una storia. Per questa, non ci servirà, perché è facile da leggere.

    «Si è nascosto là», dico io, indicando a destra del sentiero, «nella nicchia, dietro quei cespugli. Ha aspettato, il bastardo! Aspettato finché lei non gli è passata accanto e poi l’ha aggredita. Lei potrebbe averlo visto di sfuggita, oppure no. Sapeva che la donna avrebbe portato le cuffie, quindi non l’avrebbe sentito avvicinarsi fino a quando non fosse stato troppo tardi». Mi fermo sulla pista. «Le sue orme finiscono qui».

    «Co… L’ha presa lui?», sussurra il sergente Anderson.

    Jimmy lo sa. I suoi occhi stanno già esaminando il bordo della vetta.

    «L’ha spinta», dico io. «Abbastanza forte da farla volare per almeno due metri, due metri e mezzo prima di cadere. In quel momento era sul bordo». Cammino verso Jimmy e punto il dito. «La sua mano sinistra è atterrata per prima e ha cercato di aggrapparsi a quella radice, ma aveva troppo slancio». Mi scrollo di dosso un brivido e continuo, ora con voce calma. «Ha lottato duramente, aggrappandosi, artigliando, puntando i talloni...». La mia voce si affievolisce mentre seguo con gli occhi la traccia di Ann, finché non scompare oltre il margine, e sussulto flebilmente, involontariamente, tristemente. Non la conoscevo, ma si meritava di meglio. Non questo.

    La base di Bowman Summit è un ammasso di detriti staccatosi dalla montagna nel corso delle generazioni, dei secoli e dei millenni, principalmente il risultato di frane ed erosione. Lo scarto è profondo due metri e mezzo, tre metri attorno alla base e scende bruscamente dal fondovalle cominciando approssimativamente a sei metri dalla parete rocciosa.

    Una schiera di alberi popola la gola, bagnata da una rete di ruscelletti e torrenti che, senza ombra di dubbio, si riversano nell’Henry Hagg Lake a vari chilometri di distanza. Il ruscello più largo passa a una trentina di metri dalla vetta, fornendo acqua limpida, fresca, da spruzzare sulle facce sudate. Il bosco oggi è calmo. Ci sono in giro gli uccelli, ma si odono pochi canti e persino il mormorio del fiume pare ammutolito.

    Lei ci sta aspettando lì, recisa e quieta, distesa sul terreno, occhi vuoti che guardano verso il cielo, gambe contorte in maniera innaturale dietro di sé: Ann Buerger. Due ore di sentieri impervi, guidati dal GPS, e questo è il nostro trofeo.

    Sono stufo di collezionare cadaveri.

    I loro volti mi osservano in sequenza nella mia testa, come per chiedere: "Perché non mi hai salvato?". Anche se erano morti già da tempo, ricordavo i loro nomi.

    Sento la mano di Jimmy sulla spalla mentre mi inginocchio accanto al corpo. «Salviamo i salvabili», dice sommessamente. Il nostro motto. Dopo anni a farlo, è quasi uno slogan. L’intento originario era ricordare a noi stessi che abbiamo un lavoro da fare, per riportarci al nostro compito anche nelle circostanze più disgustose.

    Salviamo i salvabili.

    Poi la sua mano si solleva e si torna al lavoro. Jimmy inizia a repertare la scena: fotografie, coordinate GPS, misurazioni. È un omicidio e, nel rapporto, deve comparire tutto... o quasi. Ciò che non esisterà nel verbale ufficiale saranno le fotografie delle tracce sull’avambraccio destro e sulla parte alta a destra della schiena dove lui l’ha spintonata. Non c’è modo di immortalare queste informazioni, nessuna fotocamera o pellicola che veda quel che vedo io. Mi fa male la testa mentre osservo e mi sento gli occhi serrati e pieni, come acini su una vite pronti a spaccarsi per la troppa pioggia.

    I segni stanno lì come un faro, una luce nel buio, un’insegna al neon. Così nitidi da sembrare parole su un foglio bianco. Riesco quasi a sentire la forza del colpo, Ann che vola in aria, il vuoto della caduta.

    Dalla tasca della mia giacca a vento recupero la custodia di pelle con dentro gli occhiali. Aprendo le astine, le faccio scorrere sul viso. Provo un istantaneo sollievo quando la compressione devastante nella testa molla la presa e scorre via. Riesco quasi a sentirla colare fuori dai piedi mentre agito le dita.

    È una strana sensazione. Non mi ci sono mai abituato.

    La mia vista è di dieci decimi; gli occhiali hanno a che fare più con la mia sanità mentale che con la vista. Sono occhiali molto speciali con lenti sottili di cristallo al piombo. Li ho fatti fare su misura a Seattle, e non è costato poco. Ne ho anche un paio con lenti fumé che vengono scambiati per occhiali da sole, ma li ho lasciati a casa stavolta.

    La Canon PowerShot S95 è sepolta in fondo al mio zaino e devo scavare oltre un paio di calzini di scorta, una cartina dell’Oregon, una bottiglia d’acqua, una confezione di barrette ai cereali, una coperta termica e lo spazzolino da denti prima di trovarla. Accendendo la fotocamera, porto a termine il rito. Questa foto non è per il rapporto. Clicco il pulsante solo una volta, e dopo controllo l’immagine per accertarmi che non sia sfocata o stinta dal sole. Fisso Ann per un momento.

    Non mi lascerà in pace.

    Come le altre, tormenterà i miei ricordi. In un mese, ho a che fare con più omicidi di quanti ne veda la maggior parte dei poliziotti in un decennio. Sta iniziando a essere un peso.

    «Dobbiamo trovare il responsabile», dice il sergente Anderson, spezzando la mia trance. Non l’ho sentito avvicinarsi, ma ora sta in piedi accanto a me, a fissare verso la scarpata e basta, con gli occhi che cercano… cosa? Un indizio? Una spiegazione?

    Lo osservo un attimo. Ho già visto quell’espressione: rabbia, angoscia, senso di impotenza. L’ho vista su migliaia di facce su centinaia di scene del crimine. L’ho vista allo specchio.

    Metto la mano sulla sua spalla, non so perché. «Salviamo i salvabili», mi sento dire. Le parole non significano nulla per lui. Come potrebbero? È solo che non so che altro dire.

    Non sono bravo con la gente, per niente.

    Mollando la presa, aggiungo: «Non preoccuparti, già so chi è stato». Ripongo la fotocamera, do un’ultima occhiata ad Ann Buerger e mi allontano.

    La porta è color giallo zafferano con inserti di vetro smerigliato e una maniglia di nichel lavorato. Il campanello trilla una seconda volta, un allegro coro di cinque note che è fuori sincrono rispetto alla tremenda notizia che sta per essere recapitata.

    I passi felpati si muovono fino all’ingresso della casa e un’ombra confusa si arresta immobile dall’altro lato del vetro. Un chiavistello si apre scorrendo, una maniglia gira, dopodiché arriva una faccia che si stringe nell’apertura della porta: occhi rossi, naso rosso, una bocca all’ingiù e nervosa; tutte le qualità più amare del dolore. Vedendo il sergente Anderson, Jimmy e me, Matt Buerger spalanca la porta e fa qualche passo avanti.

    Quando mi sfilo gli occhiali di pochi centimetri e sbircio da sopra le lenti, i miei occhi consumano Matt in un istante, raccontandomi tutto quello che mi serve sapere. Nel campo della ricerca dei dispersi, il termine shine si riferisce a un’impronta difficile da vedere, lasciata tra la vegetazione o su una superficie ostica, di solito provocata da uno schiacciamento o una pressione, come un piede su una foglia. L’unico modo di evidenziare la traccia è illuminandola. Si può usare la luce del sole, anche se la maggior parte dei segugi usa

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