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La libreria di piazza delle Erbe
La libreria di piazza delle Erbe
La libreria di piazza delle Erbe
E-book260 pagine3 ore

La libreria di piazza delle Erbe

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Info su questo ebook

«Un vero e proprio gioiello, per sentirsi bene e rilassarsi.»

Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei

Appena Nathalie ha messo piede a Uzès, un piccolo borgo turistico nel Sud della Francia, si è subito innamorata del luogo. La vecchia cattedrale, il castello, le piazze inondate di sole e soprattutto la gente, accogliente e ospitale. E quando ha visto il cartello “vendesi” sulla libreria della piazza centrale, non ha resistito e ha deciso di cambiare vita trasferendosi lì. Così, in breve tempo, la sua libreria è diventata un punto di riferimento per gli abitanti, e Nathalie ha assunto il ruolo di confidente, guida e mediatrice per tutti coloro che vanno a trovarla per una chiacchiera o un consiglio. Da Cloé, un’adolescente in conflitto con la madre, a Bastien, che è alla ricerca del padre, passando per Tarik, il soldato rimasto cieco in guerra, e molti altri ancora. Un buon libro è un rimedio per molti mali, e per ciascuno di loro Nathalie conosce il libro giusto...

C’è un libro adatto a ognuno di noi e la libraia di piazza delle Erbe sa qual è

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Raffinato e delizioso come i suoi personaggi. Tutto il libro è una gioiosa citazione letteraria.» 

«Questa storia mi ha toccato nel profondo e mi ha fatto venire voglia di leggere un sacco di libri.»

«Un vero e proprio gioiello, per sentirsi bene e rilassarsi.»

«Ogni capitolo è dedicato a un personaggio diverso ed è una continua, meravigliosa scoperta.»

Nuova edizione con un capitolo extra!
Éric De Kermel
È giornalista e editore di riviste. Durante la sua giovinezza ha vissuto tra il Marocco e l’America del Sud, per poi rientrare in Francia, dove ha messo radici a Uzès (la stessa cittadina in cui è ambientato il romanzo La libreria di piazza delle Erbe). Ha quattro figli ed è un convinto ambientalista.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2017
ISBN9788822712882
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    Anteprima del libro

    La libreria di piazza delle Erbe - Éric De Kermel

    1730

    Titolo originale: La libraire de la place aux Herbes

    © 2017 Groupe Eyrolles, Paris, France

    Illustrazioni di Camille Penchinat

    Traduzione dal francese di Sofia Buccaro

    Seconda edizione ebook: gennaio 2023

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-1288-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Éric de Kermel

    La libreria di piazza delle Erbe

    Indice

    Prefazione

    Nathalie. O come ho cambiato vita

    Cloé. In uno slancio di libertà

    Jacques. Meditazioni di un passeggiatore solitario

    Philippe. L’instancabile viaggiatore

    Leila. Alla scoperta di sé e delle parole

    Bastien. Il messaggero taciturno

    Tarik. Fratelli di libri

    Suor Veronika. Una felicità semplice

    Arthur. «Diventa ciò che sei»

    Solange. Sull’importanza di curare il proprio giardino segreto

    Philéas

    Epilogo

    Sugli scaffali della libreria di piazza delle Erbe…

    Ringraziamenti

    Prefazione

    C’era una volta…

    Cominciano così le storie che ci ammaliano.

    C’era una volta una libreria.

    Eric de Kermel ci trasporta così in un bellissimo racconto.

    C’era una volta Nathalie, insegnante di lettere parigina.

    Stanca della grande città, vuole cambiare vita a ogni costo, ma non marito. Un doppio desiderio che al giorno d’oggi non manca di originalità.

    La coppia andava spesso a Uzès, gioiello nel dipartimento del Gard, cittadina ricca di arte e storia con 8573 abitanti.

    Perché non trascorrerci tutta la vita e non solamente le ferie?

    «Avanti!», risponde il destino.

    Il caso vuole che all’angolo di piazza delle Erbe sia in vendita una libreria.

    Ed ecco che inizia l’avventura.

    Che cos’è una libreria?

    Un genere particolarissimo di Zecca dove non si coniano monete, se non quelle che fanno sognare e poi desiderare la libertà.

    I clienti si presentano in libreria. In breve tempo diventano amici. E in breve tempo, sulla scia di Nathalie, decidono di cambiare.

    Perché un libro, un libro vero, scombussola. Risveglia in noi il reame dei desideri, il popolo delle possibilità, l’inarrestabile armata dei perché no?.

    E, così come noi esseri umani siamo tutti diversi, nessun libro somiglia a un altro. Quello che sconvolge una persona, ne fa sbadigliare un’altra. I gusti son gusti. Ogni lettura è un viaggio e un amore.

    C’erano una volta nove personaggi in cerca di non si sa cosa. Questa storia racconta cosa ne è stato di loro non appena hanno aperto il proprio libro.

    Che cos’è una libreria?

    Molto altro, molto più di una serie di mensole sulle quali ammuffiscono i libri.

    È un luogo. Un luogo di luce e calore. Uno spazio di confidenze e condivisione. Una topografia di fratellanze.

    Un luogo che unisce.

    Ecco perché questa è innanzitutto una storia di gratitudine.

    Grazie alle librerie e a tutti coloro che le fanno vivere, che fanno vivere noi!

    È stato l’uomo, e con ciò ovviamente intendo anche la donna, a inventare i libri.

    È vero anche il contrario: quanto miseri, quanto noiosi e ripetitivi saremmo senza di loro?

    C’era una volta, nella bella cittadina di Uzès, una libreria nuova di zecca…

    Erik Orsenna

    A Élise, Lucile e Sidonie…

    fate in modo che la vita non divori i vostri sogni.

    Nathalie

    O come ho cambiato vita

    natalie1.tif

    Amnesia globale transitoria.

    Può capitare una o due volte nella vita.

    Da un momento all’altro una persona perde temporaneamente la memoria. Le sue facoltà intellettive rimangono intatte, ma non sa più dove si trova, che cosa ha fatto quel giorno o la sera prima.

    Non è niente di grave, durerà qualche ora.

    I ricercatori non hanno ancora individuato le cause del fenomeno.

    Ipertensione, stress, a volte persino un orgasmo può portare all’amnesia globale transitoria.

    È come se di colpo nel cervello scattasse un salvavita, un po’ sulla falsariga di un cortocircuito nell’impianto elettrico.

    È così che l’ha definita il medico che Nathan ha chiamato d’urgenza, dopo che io gli avevo chiesto più volte con occhi stralunati che cosa ci facesse accanto a me durante la colazione.

    Visto che il motivo non poteva essere un orgasmo né l’ipertensione, ho guardato Nathan e gli ho detto: «Forse è ora di lasciare Parigi… La città mi ha stufata. Mi sento soffocare».

    Non è per essere ingrata verso la capitale. Da studenti io e Nathan adoravamo seguire l’onda delle serate parigine: divoravamo una mostra dietro l’altra, avevamo l’abbonamento al Theâtre de la Ville e bazzicavamo i locali jazz per ascoltare gruppi provenienti dagli Stati Uniti.

    Ci siamo arrabattati per crescere Élise e Guillaume nel nostro quadrilocale in rue de la Roquette.

    Quando i ragazzi sono diventati grandi, più passava il tempo, più avevo la sensazione di vivere in apnea, obbligata a proteggermi per non sentire i rumori e la puzza, per ripararmi dagli sguardi aggressivi, dalla calca nella metro, dalla sporcizia per strada.

    Molte volte resistere significa soffocare la propria sensibilità, indurirsi, fino a quando la corazza non si rompe.

    Abbiamo deciso di lasciare Parigi l’estate dopo, quando Guillaume ha finito il liceo. Aspettavamo solo lui, perché Élise studiava già fotografia all’École nationale supérieure di Arles.

    Nathan è architetto. Ogni volta che rientravamo a Parigi da una vacanza diceva che poteva aprire uno studio ovunque. L’idea del trasferimento però veniva sempre risucchiata dal tran tran quotidiano e, a dirla tutta, sapevo che, se volevo realizzarla, dovevo prendere la situazione in mano io.

    Spesso i suoi slanci di entusiasmo nascevano dopo aver trascorso qualche giorno a Crozon, in Finistère. Il mio amore per Crozon risale all’incontro con Nathan. Seguivamo tutti e due un corso di vela a Glénans quando abbiamo fatto la nostra prima crociera vera e propria intorno alla penisola. Da compagni di bordo siamo diventati compagni di vita.

    Da allora ci siamo tornati spesso perché, pur non avendo neanche la macchina, non appena siamo riusciti a mettere due soldi da parte, abbiamo comprato una casetta di pescatori.

    È circondata da distese di erica, a due passi dalla punta di Dinan, un autentico paesaggio bretone da cartolina.

    Ma siccome sotto sotto io sono una ragazza del Sud, a volte le nostre vacanzine di Pasqua o nel ponte di Ognissanti, quando le ore di luce si contano sulle dita delle mani, frenavano i nostri entusiasmi estivi.

    All’epoca insegnavo lettere all’ultimo anno nel liceo Montaigne.

    Volevo bene ai miei alunni e loro ne volevano a me.

    Gli studenti dell’indirizzo umanistico sono talmente curiosi ed entusiasti che potevo permettermi di spaziare nel programma per far loro scoprire autori che spianavano la strada verso letture meno scolastiche.

    Con le classi a indirizzo scientifico, invece, era sempre una lotta. La letteratura era considerata soltanto una materia facoltativa che permetteva di racimolare qualche credito per la maturità, perciò la mia sfida consisteva nell’abbattere le barriere emotive dei giovani matematici per portarli alla scoperta di un mondo nuovo: esotico, talvolta irrazionale, molto distante dall’universo cartesiano nel quale evolvevano.

    Ogni anno riuscivo a catturare qualche studente e a trasportarlo verso nuovi lidi. E a quel punto scoprivano che il mondo è fatto più di dubbi che di certezze, più di poesia che di equazioni.

    Molto spesso la direzione presa dai ragazzi è il risultato di una scelta obbligata. Quelli bravi in matematica hanno la fortuna di passare all’indirizzo scientifico. Qualsiasi altra scelta sarebbe uno spreco. Quest’imposizione è nata nel secondo dopoguerra, ma ormai viene appoggiata sia dal corpo docente che dai genitori. Un figlio ingegnere inorgoglisce molto di più di uno che intraprende un percorso artistico o letterario.

    La Seconda guerra mondiale non si è limitata ad ammazzare uomini e donne, ha ucciso la letteratura a vantaggio dei numeri, i maestri a vantaggio degli ingegneri.

    Io e Nathan abbiamo scoperto Uzès un giorno di gennaio.

    È facile avere un colpo di fulmine per questa perla in inverno, seduti a un tavolino all’aperto, davanti a un crostino con formaggio di capra e un filo di olio d’oliva.

    Il Sud gode del maestrale che spazza le nubi. Intorno a Uzès il vento fortissimo che soffia nella valle del Rodano si placa, regalando così il privilegio di un cielo azzurro e del calore solare tra le mura di pietra.

    La bellezza della cittadina deriva dalla sua storia. Come primo ducato di Francia ha ospitato principi, signori e prelati, tutti che agognavano un palazzo all’altezza del proprio rango. Tra le antiche porte, le finestre a croce con i terrazzini ornamentali e i cornicioni sormontati da torrette, si ha l’impressione di fare un tuffo nel passato. Grazie alla legge Malraux, mirata alla salvaguardia del patrimonio storico e artistico, e ai bravi architetti del ministero dei Beni culturali francese, Uzès è stata restaurata ed è tornata a essere quello che è: un gioiellino rinascimentale.

    Trasferirsi qui è quella che si suol dire una scelta di vita. Una volta pensavo addirittura che fosse una scelta di vita a due. A dire il vero la nostra è stata una decisione condivisa, ma ben presto io mi sono ritrovata a vivere da sola in base all’andirivieni di Nathan.

    Ho scoperto la vita da casalinga, senza figli e senza lavoro, ma con i soldi per pagarsi un corso di pilates o riarredare casa con i mobili di Les Affaires Étrangères, il negozio etnico-radical chic frequentato dai nuovi abitanti di Uzès che sistemano gli ovili in mezzo alla gariga.

    Noi abitiamo in una bigattiera: una casona in pietra costruita intorno a un bel cortile dove un tempo si allevavano i bachi da seta per le filande della zona. La preziosa materia prima veniva poi portata ai setaioli lionesi, che la trasformavano in stoffe vendute a peso d’oro in tutta Europa.

    Piazza delle Erbe è il cuore di Uzès. Ci si arriva soltanto a piedi, attraverso un dedalo di pittoresche viuzze, e d’estate gode dell’ombra generosa degli alti platani.

    La piazza è cinta di portici che riparano i dehors dei ristoranti.

    Il sabato e il mercoledì c’è un grande mercato.

    Il sabato si trasforma in mercato tutto il paese, perché i viali del circondario ospitano anche i venditori di abbigliamento.

    D’estate ci vanno soltanto i turisti: intasata com’è di bancarelle e chioschetti, è impossibile girare e apprezzare il colpo d’occhio sulla piazza.

    Io vado al mercato il mercoledì. Quel giorno ci sono soltanto i produttori agricoli della zona. Ho riscoperto l’importanza della qualità del cibo quando mi sono trasferita qui. Tra un frutto di stagione che si compra a Parigi e uno a chilometro zero che arriva direttamente dal frutteto non c’è paragone. Lo stesso dicasi per la verdura, i formaggi e il pollame. Anche la vicinanza al mare è un bel vantaggio. Prima conoscevo soltanto le ostriche bretoni, ora invece sono una patita di quelle di Bouzigues, allevate sulle rive del Mediterraneo.

    Sulla vetrina della libreria all’angolo di piazza delle Erbe era appeso un piccolo cartello:

    VENDESI.

    Ho cominciato a fissare la scritta azzurra sulla carta da pacco…

    Perché non io?

    A me piacciono i libri.

    Qualsiasi libro!

    Sia quelli di poche pagine, scritti di getto, sia i volumoni che sono l’opera di una vita; i libri vecchi con la rilegatura a brandelli, ma anche quelli freschi di stampa che ostentano la loro bella fascetta rossa.

    Mi piacciono i romanzi che raccontano grandi storie strappalacrime, ma adoro pure lasciarmi trascinare dalle colte divagazioni intellettuali dei saggi che mi fanno sentire più intelligente.

    Amo i libri d’arte che portano tra le mura di casa i dipinti del Louvre e del Prado o immagini spaesanti dei cinque continenti. Quanti di noi conoscerebbero quelle meraviglie se non esistessero i libri?

    Mi piace il dorso. Quando i libri sono ben ordinati sugli scaffali, li guardiamo con la testa leggermente inclinata, quasi li rispettassimo ancor prima di aprirli.

    Mi piace la carta. Come si fa a parlare di carta al singolare! Mi piace la carta di ogni pagina che si volta e da cui a volte si svolta. Se viene scelta con cura, la carta si consuma assieme alle parole, e le pagine scorrono che è un piacere. Quando stride può spingere il lettore all’abbandono, infastidito dalla stonatura.

    Una carta bianco candido non si addice a una storia d’amore, perché raramente l’amore lo è: a poco a poco sbiadisce col tempo, riporta i segni dei colpi e delle carezze come un lenzuolo dopo un abbraccio.

    La carta goffrata dà profondità alle parole: si imprimono e si accomodano sullo spessore delle fibre come un gatto sui cuscini di un divano.

    Mi piacciono anche le parole sulla pagina. Non intendo il loro significato, ma il ritmo che produce il movimento del grigio tipografico. Tra una parola e l’altra, uno spazio sempre uguale garantisce una distanza di cortesia che permette a ciascuna di non pestare i piedi alla vicina e di respirare a piacimento. Sono sicura che se le persone assomigliassero alle parole su una pagina la gentilezza troverebbe più spazio per sbocciare.

    Un giorno mi sono imbattuta in un libro nel quale avevano dimenticato gli spazi. Ho avuto subito un attacco di claustrofobia, tanto compativo quelle parole-sardine, bistrattate come all’ora di punta nella metro parigina.

    Ho una marea di amici che sognavano di aprire una libreria, come tanti desiderano un bed and breakfast. Sono sogni protettivi, talvolta sotto forma di fuga… Ripararsi tra i libri oppure tra alte mura…

    Penso che i libri siano capaci di aprire nuovi orizzonti rispetto alle mura.

    Quella sera stessa, senza neanche dargli tempo di appoggiare il borsone, ho accolto Nathan con l’entusiasmo di una ragazzina: «È in vendita la libreria di piazza delle Erbe!».

    «E allora?»

    «Allora voglio diventare la nuova libraia!».

    «Ma che dici? E le lezioni, la tua carriera?»

    «Lo sai benissimo che un insegnante non fa carriera. Ci sono soltanto gli scatti di anzianità. E poi chissà dove mi daranno la cattedra. Magari dalla parte opposta del dipartimento!».

    «Ma ti prenderà un sacco di tempo. Hai idea di come si gestisce una libreria? È in primis un’attività commerciale, una piccola impresa! Di sicuro guadagnerai meno che come insegnante!».

    «Non mi importa. Di tempo, poi, ne passo fin troppo da sola. Mi serve un progetto vero, se no divento nevrastenica».

    «Se sfoderi argomenti del genere, non ci vorrà molto a farmi cedere».

    Nathan è un buono. A volte un po’ egocentrico, ma lo sono quasi tutti gli architetti. Si credono indispensabili al buon funzionamento del mondo. Alcuni sono autentici visionari, altri dei pericoli pubblici che progettano per gli altri case in cui loro non vivrebbero mai. I peggiori sono quelli che valutano il proprio lavoro in base alle tonnellate di cemento colato!

    Credo che alla firma dell’atto notarile che mi ha reso proprietaria della libreria io sia stata felice come alla nascita dei miei figli!

    La differenza è che, diventando libraia, invece di mettere al mondo qualcuno, ho avuto la sensazione di rinascere io.

    Devo molto alle mie letture. È grazie a quelle che sono cresciuta e ho trovato la mia strada, è tramite i libri che ho potuto vedere il mondo non soltanto attraverso i miei occhiali ma anche dalla prospettiva di chi mi ha aperto ad altri universi, ad altre epoche.

    Non mi sono mai sentita tanto in sintonia con me stessa come quando leggo le parole degli altri. Si accostano ogni volta alla mia interiorità con garbo, senza giudicare ciò che provo. Sebbene non mi conoscano, è proprio sfogliando le loro pagine che ho scoperto me stessa. Ho pianto e riso assieme a loro.

    Probabilmente ho preso da mio padre. Non ricordo di averlo mai visto senza un libro in mano. Ne leggeva sempre diversi in contemporanea: aveva il libro mattutino e quello serale, quello da poltrona in veranda o quello da leggere a letto.

    I libri non sono gelosi. Se ne vanno per lasciare spazio al nuovo amante e sanno aspettare al loro posto per secoli, fino a quando la mano di un bambino protesa verso una mensola non li riscatta.

    Io sono stata quel bambino davanti alla libreria dei miei genitori.

    I primi a tenermi compagnia la notte sono stati alcuni tascabili dalle pagine ingiallite: Kessel, Giono, Mérimée, Malraux, Saint-Exupéry… Con ognuno ho fatto le ore piccole, per poi addormentarmi raggomitolata tra le braccia di quei grand’uomini.

    Ricordo ancora la prima volta che ho infilato la chiave nella serratura della libreria.

    Come capita spesso il lunedì mattina, a Uzès regnava il silenzio. Il sole autunnale era appena spuntato e cominciava a illuminare

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