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Amore sotto lo stesso tetto
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E-book216 pagine2 ore

Amore sotto lo stesso tetto

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Info su questo ebook

Sai chi è più sexy di un cattivo ragazzo? Un uomo adulto che ha imparato a stare al mondo.

Max Alexander ha quasi trentacinque anni. Ha messo in piedi da solo una compagnia di successo e si è affermato nel mondo imprenditoriale, ma non è mai stato fortunato in amore. Le sue priorità sono sempre state il lavoro e sua figlia, e così si è ritrovato a trascurare la vita sentimentale.
È introverso, poco paziente e irruento. E l'ultima cosa di cui ha bisogno è lasciarsi coinvolgere dalla bellezza mozzafiato della ragazza che ha appena assunto per badare a sua figlia. Addison è la distrazione che non può assolutamente permettersi. Ma vivere sotto lo stesso tetto senza cominciare a provare dei sentimenti potrebbe rivelarsi ogni giorno più difficile...
Kendall Ryan
è autrice di romanzi bestseller. I suoi libri hanno dominato le classifiche di «New York Times», «usa Today» e «Wall Street Journal» e hanno venduto più di due milioni di copie in tutto il mondo. Dopo il grande successo della serie Filthy Beautiful Lies (Maledette bellissime bugie, Maledetto bellissimo amore, Maledetta bellissima passione, Maledetto bellissimo bastardo), torna a pubblicare con la serie Roommates, di cui fanno parte Il fratello della mia migliore amica, L'amico di mio fratello e Amore sotto lo stesso tetto.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2019
ISBN9788822734716
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    Anteprima del libro

    Amore sotto lo stesso tetto - Kendall Ryan

    Capitolo uno

    Max

    In trentaquattro anni non avevo ancora trovato una donna capace di tenermi testa.

    I miei amici mi prendevano in giro, dicevano che avevo lo stesso livello di attenzione di un moscerino. Non era affatto vero – per dieci anni ero stato nell’Esercito degli Stati Uniti dove avevo fatto carriera come ranger, e negli ultimi tempi mi ero messo in proprio, raggiungendo risultati di cui andavo orgoglioso – ma glielo lasciavo pensare. No, quanto a capacità di concentrazione o d’impegno ero a posto. Una volta che decidevo una cosa, mi ci buttavo a capofitto.

    Solo che l’idea di rimanere legato alla stessa donna giorno dopo giorno… be’, diciamo che non valeva la mia libertà. Le cose mi andavano bene così com’erano. Ero libero di andare e venire come mi pareva, di lavorare fino a tardi se era necessario, e di decidere di partire per un weekend se mi girava. Mi piaceva la mia vita e cambiarla non era nei miei programmi.

    «Da quanto tempo è che non ti fai una scopata?», mi chiese Matt sorridendo sornione con la birra in mano. Matt era un mio dipendente nonché un caro amico.

    La mia vita era semplice e mi stava bene. Le complicazioni non facevano per me. E tantomeno le relazioni incasinate o le emozioni contorte. Ero io il centro del mio mondo. Forse era un atteggiamento egoista, ma così stavano le cose.

    Quando mi accorsi che Matt stava ancora aspettando una risposta, mi limitai a borbottare una bestemmia continuando a sorseggiare la mia birra.

    «Ultimamente al lavoro te ne stai sempre per i cazzi tuoi», aggiunse per calcare la mano.

    Cristo, ha la stessa discrezione di un cocainomane in astinenza. «Sai che sono il tuo capo, vero?», lo fulminai, ma lui si limitò a mostrarmi il dito medio. Coglione.

    Eravamo seduti al bancone del nostro locale preferito e ci stavamo concedendo una pausa dopo una lunga settimana di lavoro. Il Fireside Lodge serviva i cheeseburger migliori e la birra più fredda della città, e quasi tutti i venerdì ci ritrovavamo lì a bivaccare. Mi sarei quasi aspettato che il proprietario scrivesse il nostro nome sugli sgabelli, visto il tempo che ci passavamo sopra.

    «Che cazzo, finalmente qualcuno ha trovato le palle per tirar fuori il discorso», mormorò Zach.

    «Hai pescato la cannuccia più corta?», chiesi a Matt. Di solito non ficcavano il naso nella mia vita privata ma quando ero di cattivo umore non mancavano di farmelo notare.

    Interrogatori a parte, erano dei bravi ragazzi. Lavoravano per me da quando avevo fondato la mia impresa di costruzioni, tre anni prima. Mi erano sempre rimasti accanto, anche quando non potevo permettermi di pagarli quanto meritavano, finché non ero riuscito ad aumentare gli stipendi. In quel momento le cose andavano piuttosto bene, ma poi capitava di doversi fare il culo di nuovo. Non c’erano certezze.

    «Sul serio, amico. Ci vuole una donna nella tua vita», disse Matt guardando il bicchiere mezzo vuoto.

    «O almeno nel tuo letto», aggiunse Zach.

    Nella mia vita? No grazie, non se ne parla per un cazzo. Nel mio letto? Non era una cattiva idea. Cercai di ricordare l’ultima volta in cui avevo avuto il piacere di stare in compagnia di una donna. A essere onesti, era passato un bel po’ di tempo, forse un paio di mesi. Cavolo, non l’avrei mai ammesso, ma forse avevano ragione loro.

    «Prenderò in seria considerazione il vostro suggerimento», borbottai cercando di non pompare troppo il loro ego.

    «Bene, perché c’è un bel tipetto laggiù che ti sta spogliando con gli occhi», disse Matt dandomi di gomito.

    Seguii il suo sguardo che puntava i tavoli da biliardo alle spalle del bancone. Una bionda mi stava fissando con insistenza: gli occhi pesantemente segnati dall’eye-liner, indossava un paio di pantaloncini tagliati e una canotta rossa dalla scollatura pericolosamente profonda che rivelava un reggiseno push-up in pizzo. Non era esattamente il mio tipo, ma il mio uccello non era schizzinoso. Solo l’idea di affondare dentro una fica calda e bagnata l’aveva già messo in allerta.

    Feci un respiro profondo e distolsi lo sguardo, appena in tempo per cogliere il sorriso complice che si scambiarono i miei compagni. Cazzoni.

    Mezz’ora dopo ero nell’abitacolo del mio pick-up insieme alla bionda, direzione casa mia. Quando arrivammo, vidi una berlina piuttosto ammaccata parcheggiata nel mio vialetto. Stamattina, quando sono uscito, non c’era. Mi fermai sull’altro lato del viale e scesi dal pick-up.

    «Resta qui un secondo», dissi alla bionda. Lei annuì, aprendo in un sorriso le labbra dipinte di un rosso acceso.

    Mi avvicinai alla berlina per dare un’occhiata e vidi una donna scendere dall’auto. I capelli biondo cenere le nascondevano il viso ma avrei riconosciuto quei riccioli ovunque.

    Mi fermai di botto. «Jenn?». Eravamo usciti insieme per qualche mese un paio di anni prima, ma non la vedevo da allora.

    La conclusione imbarazzante della nostra storia era una delle ragioni per cui avevo deciso di evitare le relazioni.

    Lei era pronta per qualcosa di più: impegno, stabilità… matrimonio. Io no. Il ricordo della nostra ultima conversazione mi bruciava ancora. Poche parole brusche erano bastate a cancellare tre mesi spensierati.

    «Non avrai mai voglia di sistemarti?», mi aveva chiesto.

    «Probabilmente no».

    Ero stato freddo ma onesto.

    «Ehi, Max». La sua voce era piatta e incolore.

    Non sapevo cosa aspettarmi, ma se si era fatta viva così all’improvviso doveva esserci una ragione.

    «Che succede? È tutto a posto?». Lanciai una rapida occhiata alla ragazza che mi aspettava oltre il parabrezza del pick-up. Il suo sorriso era svanito e sembrava osservarci con interesse.

    Jenn aprì lo sportello posteriore e tirò fuori un seggiolino da neonato, con dentro una bambina addormentata.

    Che cazzo?

    Sentii lo stomaco attorcigliarsi e i battiti del cuore accelerare di colpo.

    «Jenn?», dissi stridulo.

    «È tua». Jenn depose il seggiolino ai miei piedi e si allontanò di un passo.

    Io non lo guardai neanche. Non avevo il coraggio di guardare la bambina per paura di ciò che avrei potuto vedere. Era davvero mia? Mi somigliava? Non poteva essere… o forse sì? Fissavo Jenn, cercando di capire cosa cazzo stesse succedendo.

    Imbarazzato, mi girai di nuovo verso il pick-up: la bionda ci stava guardando a bocca aperta, gli occhi incollati alla scena che si stava svolgendo davanti a lei.

    «Puoi fare un test di paternità, se credi, ma è tua». Jenn si asciugò una lacrima solitaria sulla guancia, poi tirò fuori dall’auto un borsone che posò accanto al seggiolino. «Mi dispiace. Non posso più occuparmene».

    Sentivo le sue parole ma non riuscivo a registrarne il significato. «Cosa stai dicendo? Di cosa parli?»

    «Non ce la faccio, Max. Pensavo di sì, ma mi sono sbagliata. È tua, perciò prendila». Si chinò sulla bambina, ancora placidamente addormentata, e le sussurrò qualcosa con voce tremante. Poi risalì in fretta in macchina, inserì la retromarcia e partì.

    «Jenn!», urlai agitando le braccia. Lei uscì in strada e premette l’acceleratore a tavoletta, facendo stridere le ruote. Un momento dopo era scomparsa.

    Feci un respiro profondo ma non servì. Mi sembrava di avere un’incudine sul petto. Rimasi immobile nel vialetto, senza sapere che fare. Come ero potuto finire in quel casino?

    La bionda scese dal pick-up e mi raggiunse. Guardò la neonata che, per tutto il tempo, aveva continuato a dormire tranquilla.

    «Che bambina adorabile. È tua nipote?».

    Per la prima volta ebbi il coraggio di guardare la bambina. La vidi muovere le minuscole palpebre, stendere una gamba infilata in una tutina intera, e poi lasciarla ricadere. Provai l’impulso improvviso di portarla dentro casa, al riparo dall’aria fredda della notte.

    «No. È mia». Sollevai il seggiolino e lo strinsi a me con fare protettivo. Mia. Quella parola suscitò in me un piccolo moto di panico. «Cosa faccio adesso?», dissi, parlando più con me stesso che con lei. O forse era una domanda rivolta all’Universo, perché la mia vita di colpo non sarebbe più stata la stessa.

    La bionda alzò le spalle. «Devo pisciare».

    Entrammo in casa tutti e tre. Poggiai il seggiolino sul pavimento del soggiorno e indicai alla ragazza il bagno degli ospiti.

    Quando ebbe finito tornò da me e, sollevandosi sulle punte, mi stampò un bacio sulla guancia. «Quindi stasera mi dai buca».

    Annuii. «Più o meno».

    «Prendo un Uber. Tu farai meglio a portarla dritta a letto», mi suggerì tirando fuori il cellulare dalla tasca dei suoi minuscoli pantaloncini jeans.

    Imprecai tra me e me. Fino a cinque minuti prima il mio unico pensiero era trascorrere una bella nottata di sesso insieme a lei. Ma non sarebbe successo. Forse non sarebbe successo mai più. Imprecai un’altra volta.

    «Fatto», disse premendo un paio di pulsanti sul telefono. «Sarò fuori dai piedi fra cinque minuti».

    La bionda mi diede un altro bacio sulla guancia e uscì ad aspettare l’auto sul portico, mentre io cercavo di non farmi venire un attacco di panico. Cosa cazzo avrei dovuto fare adesso?

    Allestii una specie di fortino di cuscini sul mio letto, sbarrando tutte le sponde, quindi tentai di tirar fuori la bambina dal seggiolino. Quell’imbracatura piena di fibbie era una faccenda seria. Stava dormendo, non doveva mica fare skydiving. Comunque. Quando riuscii finalmente a liberarla, la presi e la adagiai al centro del letto. Io avrei dormito nella camera degli ospiti. Non volevo che la bambina dormisse su lenzuola impolverate. Non ne sapevo granché di neonati, ma sapevo che avevano la pelle e i polmoni più delicati rispetto a quelli di un adulto.

    Dopo averla sistemata, aprii il borsone che mi aveva lasciato Jenn. Dentro c’erano una copertina pelosa rosa, dei vestitini, una tazza per l’acqua, pannolini, salviette e un lenzuolo di carta ripiegato. Aprii il biglietto e mi trovai davanti la calligrafia ordinata di Jenn.

    Max,

    so che sarà una sorpresa per te. Mi dispiace mollartela in questo modo, ma sono sicura che puoi farcela. Anche se pensi di no. O forse è la responsabilità che non vuoi. Ma tu sei l’uomo più forte che conosco e sarai molto più bravo di quanto non lo sia stata io. Di questo sono certa.

    Si chiama Dylan. Ha appena compiuto un anno, il suo compleanno è stato domenica scorsa. Dopo pranzo fa un sonnellino e adora fare il bagnetto. Grazie.

    Con affetto

    Jenn

    Voltai il foglio. Tutto qui? Non c’erano istruzioni? Un manuale, qualcosa? Si dice sempre che gli uomini non leggano mai i manuali di istruzioni, ma credetemi, questa volta avrei dato almeno un’occhiata.

    Il fatto che Jenn l’avesse chiamata Dylan mi diede una stretta al cuore. Bob Dylan era il mio cantautore preferito e Jenn lo sapeva. Spesso mi prendeva in giro, diceva che i miei gusti musicali risalivano al secolo scorso. Mi resi conto che, scegliendo quel nome, aveva voluto farmi una specie di omaggio. Ma allora perché mi aveva nascosto la gravidanza? Perché tenermi all’oscuro del fatto che aspettava la mia bambina?

    I miei occhi si posarono di nuovo su di lei… mia figlia. Mi ci sarebbe voluto un po’ per abituarmi.

    Non sapevo cosa avrei fatto, ma speravo tanto che il giorno dopo avrei avuto le idee più chiare.

    * * *

    Sentii le ruote di un’auto scricchiolare sulla ghiaia del vialetto e guardai fuori dalla finestra. Grazie a Dio Tiffany è qui.

    Dopo aver passato mezz’ora a camminare avanti e indietro per il soggiorno e aver bevuto tre tazze di caffè non ne potevo più.

    Tiffany era la mia assistente personale da quasi tre anni. Si occupava di pagare puntualmente tutte le fatture, di ordinare i materiali e, soprattutto, di farmi rigare dritto. Era quella che risolveva i problemi, così, anche se era il suo giorno libero, avevo deciso che mi serviva il suo aiuto.

    Tiffany entrò senza bussare, come faceva sempre. «Che succede?», chiese togliendosi le scarpe all’ingresso. Avevamo lavorato a stretto contatto in quegli ultimi anni, e per me Tiffany era diventata praticamente una di famiglia. O perlomeno, era così che vedevo il nostro rapporto.

    Prima che potessi rispondere il suo sguardo cadde su Dylan, che se ne stava seduta sul pavimento del mio soggiorno guardando i cartoni animati del sabato mattina, proprio come facevo io da piccolo. Solo che i cartoni erano diversi. Avevano un umorismo un po’ troppo crudo. Avremmo dovuto cercare qualcosa di più adatto a lei.

    «Max?», disse Tiffany modulando la voce come se il mio nome fosse una domanda.

    «Sì, lo so. Forse è meglio se ti siedi».

    Lei si sedette sul divano inarcando le sopracciglia, lo sguardo ancora fisso sulla bambina. «È… è tua?»

    «Sì».

    Tiffany deglutì. «Jenn?».

    Sapeva tutto delle mie relazioni fallite. In realtà, una volta avevo rischiato di usarla come ripiego. Con Jenn era finita da poco e, durante la festa di Natale della società, Tiffany mi aveva baciato. Mi aveva afferrato i jeans, o meglio, quello che c’era sotto, e per i novanta secondi successivi avevo lasciato che il mio uccello prendesse il controllo. Me l’ero caricata in braccio e l’avevo portata nel mio ufficio, ricambiando i suoi baci. Ma poi ero tornato in me. L’avevo messa giù lentamente, scegliendo di salvare il nostro rapporto lavorativo.

    Mi grattai il collo. «Me l’ha portata ieri notte. Ha detto che non ce la faceva più».

    Tiffany si portò una mano al petto. «Uau. Credo di aver bisogno di qualcosa di più forte del caffè stamattina», scherzò.

    Mi sedetti accanto a lei. «Sai che non sono bravo a chiedere aiuto».

    «Sì, lo so. Ma penso che ne avrai bisogno».

    Annuii di nuovo.

    «Tutto quello che vuoi, Max. Io ci sono».

    Mi passai una mano sulla faccia. Il mio sguardo cadde su Dylan, ancora tutta presa dal suo cartone. Quella mattina le avevo cambiato il pannolino e le avevo dato dei Cheerios per colazione, riempiendo di latte la sua tazzina. Lei mi aveva guardato con curiosità mentre bevevo il caffè, ma non aveva pianto e non aveva chiesto della mamma, cosa che mi aveva sollevato e rattristato allo stesso tempo. Non sapevo cosa avrei fatto, ma fin lì era andato tutto bene.

    «Sai che non mi piace ammettere di aver bisogno di aiuto, ma non ce la farò mai a lavorare e a occuparmi di tutto il resto. Ci ho pensato su e non ho voglia di ficcarla in un asilo nido dove non conosce nessuno».

    Tiffany annuì.

    La verità era che mi dispiaceva per lei: era stata abbandonata dalla sua mamma, e in più mi sentivo in colpa perché mi ero perso tutto il suo primo anno di vita.

    «Quindi la terrai… qui?»

    «Già».

    Tiffany sorrise e mi diede un colpetto sulla mano. «Forse è il momento di cominciare una nuova vita, Max. Magari è l’Universo che ha deciso di intervenire. Potrebbe essere l’inizio di qualcosa di fantastico».

    «Hai ragione».

    «Davvero?», sorrise.

    «Certo. Andrà tutto bene, giusto? Prenderò una tata. Non baderò a spese, voglio il meglio del meglio. È la soluzione perfetta. Qualche volta potrei anche lavorare da casa, così Dylan mi vedrà un po’ di più e non dovrà essere trascinata da un posto all’altro».

    Lei sembrò pensierosa. «Oh,

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