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La maledizione della peste nera
La maledizione della peste nera
La maledizione della peste nera
E-book411 pagine5 ore

La maledizione della peste nera

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Info su questo ebook

«I suoi thriller non finiscono mai di stupire.» Lee Child

Michael Crichton ha trovato il suo erede

Alana Vaughn, esperta di malattie infettive presso la NATO, viene convocata d’urgenza a Genova per esaminare una paziente gravemente malata. Dopo le prime analisi il referto è scioccante: la malattia presenta segni che la ricollegano in modo inquietante alla piaga che ha afflitto l’Europa secoli prima, la cosiddetta Morte Nera. Nel XIV secolo una gravissima epidemia di peste uccise almeno un terzo della popolazione del continente. Alana sospetta che si tratti di bioterrorismo, ma il suo omologo presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Byron Menke, non è d’accordo. Nella loro disperata caccia al Paziente Zero, si imbattono in un monastero costruito ottocento anni prima e in un antico diario medievale che potrebbe contenere il segreto dell’attuale epidemia. Mentre la malattia si diffonde velocemente, parte la corsa contro il tempo per scoprire la verità prima che moltissime persone muoiano. E questa volta, invece che milioni, potrebbero essere miliardi.

Un autore tradotto in 11 lingue

La piaga ha colpito 
Nessuno sarà risparmiato 
La morte si sta diffondendo

«I suoi thriller non finiscono mai di stupire.»
Lee Child

«Sa far salire l’adrenalina con un medical thriller che mette i brividi.»
Don Winslow

«Uno scrittore che sa come si costruisce un intreccio. Combina perfettamente verità e finzione.»
Booklist

Daniel Kalla
è nato e cresciuto a Vancouver, dove vive tutt’ora. Lavora nel pronto soccorso di un ospedale e la sua esperienza clinica gli ha fornito l’ispirazione per i suoi medical thriller.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2019
ISBN9788822729248
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    Anteprima del libro

    La maledizione della peste nera - Daniel Kalla

    Capitolo uno

    Eccolo di nuovo. Osserva, osserva continuamente. Non ha niente di meglio da fare quel vecchio bastardo?, si chiede Vittoria Fornero arrotolando il progetto e infilandoselo sotto il braccio.

    Il piccolo monaco si presenta al cantiere tutti i giorni, fin da quando è arrivata la prima squadra per buttare giù l’antico monastero. Come sempre, indossa la tradizionale tonaca nera benedettina con il cappuccio abbassato che lascia in bella vista un sottile anello di capelli bianchi su un cranio altrimenti calvo. Ogni mattina, verso le nove circa, compare con una consunta tracolla nera a un braccio e una sedia pieghevole arrugginita sotto l’altro. A volte sorseggia qualcosa da un thermos o legge un libro di preghiere in pelle logorato dall’uso. Ma di solito, come adesso, se ne sta semplicemente seduto accanto al ciglio della fossa a osservare, come un piccione appollaiato sulla grondaia di un palazzo.

    Quasi sempre il monaco si fonde con il paesaggio, un semplice elemento di contorno al pari delle gigantesche ruspe gialle, le pile di legname e i cumuli di detriti e rocce. Ma questa mattina Vittoria non tollera spettatori non invitati.

    «Se n’è andato!», gli grida in italiano, mentre si stringe nella sua sottile giacca a vento per reprimere un altro violento brivido. «Il tuo rudere se n’è andato, vecchio, non c’è più. E il funerale è finito!».

    In verità, l’immagine dell’antico monastero di pietra e mattoni è ancora nitida nella sua mente: una semplice struttura romanica che si stava già sgretolando nell’ala sud, dove una parte del soffitto a volta del porticato era crollata anni prima. Per quanto il monastero fosse decrepito, Vittoria ne aveva apprezzato il fascino cadente. E sebbene sia un’atea impenitente, i ricordi infantili di suore minacciose che si porta dietro bastano e avanzano per farla sentire un po’ a disagio, ogni volta che ripensa al ruolo che ha svolto nel tirare giù l’antica dimora di culto.

    Il vecchio monaco risponde con un amichevole saluto alla studiata aggressività di Vittoria, cosa che la spinge a chiedersi se non sia anche sordo, oltre che un po’ pazzo. Ma non accetta di essere ignorata, non questa mattina: quella visita inopportuna le ha appesantito il carico di lavoro e aggravato il mal di testa lancinante.

    Vittoria aveva già sprecato quindici minuti in quell’angusta roulotte surriscaldata che le avevano affibbiato al posto di un ufficio vero per cercare di calmare uno degli operai, un apprendista brufoloso di nome Emilio.

    «Stammi a sentire, Emilio!», l’aveva interrotto Vittoria nel mezzo della frase, incapace di tollerare il suo allarmismo anche solo un secondo in più. «Quel monaco scroccone è amareggiato per aver perso un tetto sopra la testa! Niente di più».

    «Ma, Vittoria», aveva borbottato Emilio. «Fratello Silvio… Lui dice che non si tratta solo del monastero».

    «E di cosa, allora?»

    «Fratello Silvio dice che il monastero… è costruito su un terreno consacrato».

    «Per un monaco, forse. Ma per noi è solo un cantiere. Identico a qualsiasi altro». Anche se la cripta sotto il monastero era stata una sorpresa, come aveva ammesso silenziosamente. Non si aspettavano certo che gli escavatori portassero alla luce un seminterrato così complesso, con la sua intricata rete di passaggi. E tutte quelle minuscole ossa. Quando Vittoria le aveva intraviste, d’istinto aveva pensato ai suoi due figli. Ma non era affatto dell’umore di discutere di architettura medievale.

    «E Yas?», aveva chiesto Emilio.

    «E Yas, cosa?». Vittoria si era messa sulla difensiva, e la cosa non le era piaciuta affatto.

    «L’altro ieri, Yas non si sentiva bene», aveva detto Emilio. «E poi ieri non si è presentato. Io non l’ho più visto».

    «E quindi? Probabilmente si sta solo riprendendo da una sbronza».

    «Yas non beve. E non risponde ai miei messaggi o alle mie chiamate. Fratello Silvio dice…».

    «Basta, Emilio! Per l’amor di Dio!». Vittoria aveva alzato le mani. «Non dire un’altra parola se non vuoi perdere il posto! Altrimenti presto ti ritroverai a pulire i pescherecci al porto. Che poi è il destino che toccherà a Yas!».

    Vittoria si massaggia le tempie, si stritola la fronte per scacciare sia il dolore pulsante che il ricordo della conversazione. Quel ragazzo era davvero nel panico. Se solo Emilio non avesse menzionato Yas…

    Le tremano le gambe e un altro brivido la scuote. La meteorologa in TV aveva annunciato con entusiasmo eccessivo temperature da record a Genova per questa mattina. Il sole di aprile splende già sulle colline ondeggianti alle spalle della città, dove ha luogo lo scavo, ma Vittoria non si gode il suo calore.

    Maria le aveva consigliato di non andare al lavoro, era troppo malata. Ovvio, è fatta così: i gemelli tirano su con il naso e lei li chiude in casa. Vittoria non riesce a trattenere un sorriso. La vita non è sempre stata facile per loro due, in una città all’antica come Genova, ma Maria rimane la cosa migliore che le sia mai capitata. E, come sempre, aveva ragione. Le sembra di non essere mai stata peggio. Il respiro è inspiegabilmente pesante. Ogni passo, un’impresa. Ha la testa in fiamme. Ma è l’ascella che la preoccupa di più. La protuberanza bluastra sotto il braccio è diventata grande come un uovo di tordo e pulsa come un mal di denti. Anche il minimo contatto contro la salopette è una vera agonia.

    Ma in vent’anni di carriera Vittoria non ha mai saltato un giorno di lavoro. E di certo non resterà a casa proprio ora, con la squadra che è indietro sulla tabella di marcia e il capo così preoccupato per i fondi. La prima cosa da fare è sbarazzarsi una volta per tutte di questo monaco impiccione – non sia mai che spaventi e rallenti ulteriormente gli operai. Avrebbe dovuto chiedere alla sicurezza di occuparsene settimane fa, ma ora dovrà pensarci da sola. Così raddrizza la schiena e marcia verso fratello Silvio.

    Quando è così vicina da sentire il profumo del suo caffè, Vittoria è costretta a fermarsi per riprendere fiato. Un fuoco invisibile le divampa dentro, dalla punta dei piedi fino alla nuca. Le ginocchia le tremano così forte che è un miracolo che non si senta il rumore.

    Il vecchio monaco chiude il tappo del thermos e si piega in avanti sulla sedia. Gli brillano gli occhi. «C’è qualcosa che non va, mia cara?», chiede. «Posso esserti d’aiuto?»

    «Sì! Puoi levarti dalle…». Un improvviso accesso di tosse la zittisce.

    Vittoria sente il catarro arrampicarsi su per la trachea e si porta la mano alla bocca in un lampo. Per qualche attimo, non riesce proprio a respirare. Quando la tosse secca finalmente si placa, percepisce qualcosa di caldo e appiccicoso nel suo pugno. Il panico si impadronisce di lei, perfino prima di aprire il palmo e vedere il grumo di sangue.

    Capitolo due

    Questa povera donna sembra un morto che cammina, pensa Sonia Poletti mentre con una mano guantata cerca una vena sull’avambraccio della paziente. È mostruosamente fredda e respira a fatica, nonostante l’ingombrante maschera che le nebulizza l’ossigeno concentrato nella bocca e nel naso. L’esperienza le dice che la donna finirà presto attaccata a un respiratore in terapia intensiva, ma non spetta a lei pronunciarsi in merito.

    Sul lettino, accanto al gomito della paziente, Sonia assembla un arcobaleno di provette dai tappi colorati. Una volta riempite, saranno tutte sottoposte ad analisi differenti. Passeranno per un sofisticatissimo spettrometro di massa fino ad arrivare al vetrino del patologo, che le esaminerà al microscopio.

    La paziente solleva la testa dal cuscino, ma la tiene su solo per pochi secondi prima di crollare di nuovo. «Sei una dottoressa?», chiede con una voce roca, affamata d’aria.

    «Vengo dal laboratorio. Devo prelevare altri campioni di sangue».

    «Altro sangue? Me ne lascerete un po’, spero».

    «Sì». Sotto la mascherina chirurgica, Sonia sorride. «Quel che basta».

    La paziente tossisce così violentemente da far tintinnare le provette. «Non hanno ancora capito che cosa ho?».

    Le infermiere fuori dalla stanza le hanno parlato di una possibile tubercolosi, ma Sonia non ha fatto domande. Deve assolutamente uscire in tempo dal lavoro, soprattutto oggi. Tocca il braccio della donna. «Qui ci sono dei medici eccezionali. Se non sono ancora arrivati a una diagnosi, lo faranno presto». Fa una pausa. «Tu sei Vittoria Fornero?».

    La paziente annuisce.

    Sonia si china sul letto. Come al solito, ruota il braccialetto ospedaliero sul polso della paziente, controllando il nome. Applica il laccio emostatico sopra il gomito, stringendolo quanto basta per far spuntare la vena. Senza alcuno sforzo, fa scivolare l’ago a farfalla sotto la pelle. Il sangue fluisce nella siringa. E Sonia lo svuota nella prima provetta.

    «Hai figli?», gracchia Vittoria.

    «Una». Sonia reprime un sorriso. «Floriana. Flori. Ha cinque anni».

    «Io ne ho due. Gemelli. Otto anni. Un maschio e una femmina».

    «Buon per te, il set completo», dice Sonia. Le probabilità che lei dia alla luce un maschio o un’altra femmina sono poche. Il padre di Flori l’ha lasciata quando non aveva ancora tre mesi. Sonia ha solo trentun anni e, come continua a ripeterle sua madre, potrebbe avere altri figli. Ma non succederà. Flori le dà già tutta la gioia di cui ha bisogno.

    Vittoria ha un altro attacco di tosse grassa. «Mi piacerebbe poterli riabbracciare».

    «Presto», borbotta Sonia, ma la sua mente è già altrove: al saggio di danza di Flori, più tardi quella sera. Deve tornare a casa in tempo per finire di cucire la coda sul tutù della figlia.

    Il corpo di Vittoria è scosso da un nuovo colpo di tosse. Il suono è terribile, come quello del motore di un vecchio furgone che fatica ad accendersi. La donna si strofina gli occhi. Schizzi di catarro e sangue sono usciti dalla maschera dell’ossigeno, finendole sulla fronte.

    Sonia prende subito un fazzoletto dalla confezione nel cestello. Si avvicina e le strofina via il muco. Vittoria le sorride debolmente. I loro sguardi si incrociano e Sonia vede con chiarezza la paura nei suoi occhi.

    All’improvviso Vittoria è scossa dalle convulsioni. E da nuovi attacchi di tosse. Qualcosa di bagnato cola sulla guancia di Sonia, al di sopra della mascherina. Si ritrae di scatto.

    Maledizione! Tremando, fa un passo indietro e afferra una salvietta disinfettante – una di quelle destinate alla pulizia dell’attrezzatura – e si strofina con forza la pelle.

    Vittoria ormai non riesce più a smettere di tossire. Il letto si scuote a ogni attacco. Sonia si rassicura, ripetendosi che i test cutanei le hanno dato risultati positivi alla tubercolosi: è già stata esposta alla malattia, non la può contrarre di nuovo. Sa che dovrebbe comunque mettere al corrente dell’incidente il suo capo e tutto il reparto, per la sicurezza dei dipendenti. Ma non ha tempo. Deve mandare un video del saggio di Flori a sua madre, gliel’ha giurato, e non ha ancora messo in carica la telecamera. Così, invece di denunciare l’accaduto, Sonia si pulisce il viso con un’altra salvietta, sistema la provetta ed esce di corsa.

    Capitolo tre

    Otto anni. Erano otto anni che Alana Vaughn non lo vedeva. È cambiato così poco. A dire il vero, le guance sono più piene, e anche più rosse. Ma il sorriso – con quelle fossette infinite e gli occhi blu che ti fanno sciogliere, come lo aveva descritto una volta un’incantata infermiera inglese – è lo stesso.

    «Ah, Alana. Ciao, bella…», la saluta in italiano il dottor Nico Oliva. «Ancora più splendida di quanto ricordassi!».

    La sua voce familiare, profonda e piena di allegria, le innesca una sensazione a lungo sopita: le farfalle nello stomaco. «E tu sei ancora più italiano di quanto ricordassi io, Nico».

    Nico alza le spalle, come a dire e che ci posso fare. Altra cosa che le ricorda perché si era innamorata di lui fin da subito.

    L’ufficio ha un arredo minimal, come ci si poteva aspettare. Sulle pareti ci sono solo degli attestati professionali e tre foto in bianco e nero di paesaggi africani. Alana ne riconosce una, scattata ai tempi della loro missione in Angola. Nico lascia la scrivania e fa un passo verso di lei. La bacia sulle guance, lasciandosi alle spalle un profumo di agrumi. «Non c’era bisogno che venissi di persona».

    «Sì. Sì, invece». Il suo messaggio era stato così inaspettato, e così apprezzato.

    «Hai avuto problemi a trovare il mio ufficio?»

    «Per niente». E invece li ha avuti, eccome.

    Alana ha attraversato i corridoi di alcuni degli ospedali più importanti del mondo, come il Johns Hopkins e la Mayo Clinic, ma l’ospedale San Martino è tra quelli più vasti, costruito e allargato in diverse riprese nell’arco di decenni. La segnaletica non le è stata certo d’aiuto. Avendo vissuto a Heidelberg per un anno da adolescente, insieme ai suoi genitori, parla un tedesco passabile, ma il suo italiano è quasi inesistente. Raggiungere l’ufficio di Nico presso il dipartimento di malattie infettive, avventurandosi in quel labirinto di corridoi intricati e scale nascoste, non è stata affatto un’impresa facile.

    Nico la osserva a lungo. «Abbiamo così tante cose da raccontarci. Andiamo a cena, presto. Insisto». Sorride di nuovo. «Ma ora vorrai vedere la paziente, no?»

    «Sì, certo».

    «Vieni. Ti accompagno». Allunga la mano e la prende sottobraccio, un contatto familiare e rassicurante. Forse anche troppo rassicurante.

    Nei corridoi splendono neon fluorescenti e c’è un forte odore di ammoniaca. Una calca di medici e pazienti assorti nelle loro conversazioni, fatte tanto di parole quanto di gesti. Sembra che nessuno presti la minima attenzione a queste due persone che camminano a braccetto, una delle quali porta un camice da laboratorio. Alana sorride tra sé e sé. Solo in Italia.

    «Dove alloggi?», chiede Nico.

    «Al Grand Hotel Savoia».

    «Ah, vicino alla stazione». Lo sguardo di Nico si perde lontano. «Avrei voluto ospitarti, ma Isabella… e i bambini… non avresti avuto pace».

    Ovviamente c’è una Isabella. Non si aspettava nulla di diverso, d’altronde, ma allontana comunque il braccio. «Bambini? Più di uno? Non ne avevo idea, Nico».

    «Sì. Enzo ha tre anni adesso, e Simona solo quattro mesi. Te lo immagini? Io, padre». Ride e distoglie momentaneamente lo sguardo. «Un noioso padre di famiglia».

    «No, non me lo immagino proprio».

    Nico incrocia di nuovo il suo sguardo. «E tu? Hai…».

    «Non rimango mai a lungo nello stesso posto. Non riesco a prendermi un criceto, figuriamoci a metter su famiglia».

    Ma Nico non si lascia ingannare dalla sua nonchalance. «Mi manca l’azione, Alana. Quello che facevamo. Quello che tu fai ancora».

    Alana ripensa alle missioni di contenimento delle epidemie: la febbre gialla in Guyana, le tubercolosi farmaco-resistenti in Asia centrale e ovviamente l’ebola nell’Africa occidentale. Tutti quei volti di morti e moribondi, in particolare i bambini – sono sempre loro i soggetti più a rischio. «Certe cose sarebbe meglio non vederle, Nico».

    Il medico non risponde, ma Alana si accorge di non averlo convinto. Svoltando all’ennesimo angolo, Nico cambia discorso: «Dimmi una cosa, all’inizio ho provato a scriverti all’indirizzo dell’OMS, ma l’e-mail mi è tornata indietro. Ovviamente, non avrei mai usato il tuo numero privato se…».

    Alana ripensa al messaggio inaspettato e all’emozione che aveva provato – tutto il dolore della loro separazione era stato subito dimenticato. Avrebbe potuto trovare una scusa per incontrarlo di persona in qualunque circostanza, ma quelle due parole nel messaggio di Nico – la peste – l’avevano spinta a fare le valigie per Genova senza un attimo di esitazione. «Non faccio più parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Nico».

    «Oh, pensavo che ormai fossi una veterana anche tu, come dicevamo all’epoca».

    Lo pensavo anch’io, un tempo. Per un attimo è tentata di raccontargli tutto dell’ultima disastrosa missione in Liberia, all’apice della crisi di ebola. Anche Nico ha lavorato per l’OMS: se c’è una persona in grado di capire, è lui. Ma si limita soltanto a dire: «Avevo bisogno di cambiare aria».

    «Eri a Ginevra, giusto?»

    «Non troppo lontano da qui», è la sua vaga risposta.

    «Alana», solleva un sopracciglio. «Non sarai tornata nell’esercito, vero?»

    «Più tardi avremo il tempo di rimetterci in pari. Magari con un bel bicchiere di vino», dice, pentendosi di quelle parole nell’attimo stesso in cui le pronuncia. «Ora, Nico, parlami della paziente per favore».

    «Vittoria Fornero, impiegata nel campo dell’edilizia, quarantadue anni, precedentemente in salute», dice. «È arrivata in ospedale due giorni fa. Aveva la febbre e tossiva sangue. In meno di ventiquattro ore è stata attaccata al respiratore».

    Alana sente la tensione crescere e irrigidirle spalle. «L’avete isolata immediatamente, spero».

    «Certo», sbuffa Nico. «All’inizio, gli altri medici hanno pensato si trattasse di tubercolosi».

    «Cosa ti ha fatto sospettare che non lo fosse?»

    «Ho visto l’escrescenza sotto l’ascella destra. Impossibile sbagliare. Un bubbone da manuale».

    «Hai effettuato la biopsia?»

    «Non ce n’è stato bisogno, Alana. Coltura dell’espettorato. Si tratta di peste, non ci sono dubbi. Nelle piastre da coltura, gli Yersinia pestis, i batteri che la causano, si sono moltiplicati più in fretta dei ratti in una favela».

    Un paragone ironico, pensa Alana, ma tiene a freno la lingua mentre entrano in ascensore, insieme a due inservienti assorti in una conversazione in russo, o forse ucraino.

    Lei e Nico scendono al sesto piano. Anche se sono soli, Alana parla sottovoce. «Hai iniziato subito la copertura antibiotica?».

    Nico fa una smorfia. «Appena l’ho vista! Anche prima di avere i risultati della coltura. Antibiotici ad ampio spettro, incluse levofloxacina e doxiciclina».

    «Eppure la tenete in vita artificialmente».

    «C’è stato un piccolo ritardo quando la diagnosi provvisoria era ancora di tubercolosi», ammette lui. «È peggiorata così tanto e così in fretta. Non ho mai visto nulla del genere, Alana».

    «A quando risale l’ultimo caso di peste in Italia?».

    Nico si ferma, e anche Alana. «Sei o sette anni fa. Due missionari se la sono portata a Milano dal Madagascar».

    «Quindi come se l’è presa una lavoratrice edile a Genova?»

    «Vittoria è stata in Africa con la famiglia tre settimane fa. Ad Addis Abeba, dove la sorella minore ha sposato un etiope. Ci sono stati casi recenti documentati nell’Africa orientale».

    I pensieri di Alana corrono. «È passato troppo tempo. Il periodo di incubazione dei batteri della peste di solito varia tra i due e i sei giorni. Avrebbe dovuto ammalarsi settimane fa».

    «Può volerci di più. Inoltre, quale altra spiegazione potrebbe esserci?».

    Alana riflette sulle diverse possibilità, ma non le condivide con lui. «Nico, questa non è solo peste bubbonica…».

    «Certo che no. Ce l’ha nei polmoni. È peste polmonare».

    «E a quando risale l’ultimo caso di peste polmonare in Italia?»

    «A tre… forse quattrocento anni fa? Chi lo sa. Forse al medioevo».

    Per qualche secondo fra i due cala il silenzio, interrotto solo da un altoparlante che inizia a crepitare sopra le loro teste. Una voce carica di urgenza ripete la stessa frase tre volte. Alana non ha bisogno di capire le parole per riconoscere il tono.

    Nico ruota su se stesso e inizia a correre. Lei gli si precipita dietro, riuscendo appena in tempo ad attraversare una serie di porte automatiche. L’insegna sopra il banco d’accettazione recita: CENTRO DI RIANIMAZIONE. È il reparto di terapia intensiva, lo riconosce subito.

    Gli allarmi urlano. All’angolo opposto, infermieri e medici sono raggruppati di fronte alle vetrate che circondano una stanza. Da qualche parte una donna piange, ma Alana non riesce a scorgerla tra la gente.

    Attraverso la folla, Nico le fa segno di seguirlo e Alana gli è subito dietro. Una donna pienotta di mezza età gli stringe il braccio. «Dottor Oliva! La mia Vittoria!», grida, farfugliando tra i singhiozzi.

    Nico cerca di consolarla, posandole un braccio intorno alle spalle. Ma ottiene l’effetto contrario: la donna piange ancora più disperatamente.

    Gli occhi di Alana volano verso la finestra della stanza. La scena che si spiega all’interno è una reminiscenza dei suoi giorni peggiori durante la crisi di ebola. Quattro membri dello staff indossano i più completi dispositivi di protezione individuale – meglio conosciuti con la sigla DPI – ovvero un copricapo con una maschera trasparente per il viso e stivali impermeabili, tra le altre cose. Gravitano intorno a una donna stesa sul letto, la loro frenesia è palpabile anche attraverso il vetro. La paziente, attaccata a una fitta rete di tubi e cavi, non riesce a stare ferma: si rivolta nel letto scossa da una crisi incontrollata.

    Nico incrocia lo sguardo di Alana: ha l’espressione impotente di un bagnino che vede affogare qualcuno in acque troppo agitare per poter fare qualcosa.

    Il tubo trasparente che dalla bocca della paziente arriva al respiratore diventa rosso, come se l’avessero improvvisamente collegato a un’arteria invece che ai polmoni. «CID», mormora Alana senza rivolgersi a nessuno in particolare. Coagulazione intravascolare disseminata. La capacità di coagulazione del sangue sta abbandonando la paziente così come la sta abbandonando il suo cuore.

    «Vittoria! Vittoria!». La donna si libera dall’abbraccio di Nico e si scaglia contro la vetrata. Sbatte le mani sul vetro finché due infermieri la allontanano a forza.

    La schiena della paziente si inarca, tutto il suo corpo si solleva sul lettino, a eccezione della testa e dei piedi, come se stesse cercando di levitare. Rimane in quella posa innaturale per un tempo che sembra infinito, ma poi collassa, immobile.

    Ma non è un’immobilità positiva. Alana lo sa, perfino prima che il sangue cominci a colare dal naso e dagli occhi di Vittoria.

    Capitolo quattro

    Oggi è il ventitreesimo giorno del mese di gennaio, Anno Domini 1348.

    Io, Rafael Pasqua, figlio di Domenico, sono nato qui a Genova nell’anno 1311. E senza alcun dubbio, qui morirò.

    Mai in passato affidai le mie memorie alla pergamena, ma ora mi trovo costretto a farlo. Perdonatemi, non sono uomo di lettere. Sono un cerusico, non uno dei medici eruditi che all’università devono la loro istruzione. Ho avuto però l’immensa fortuna di essere apprendista presso il grande Antonio Calvi. Egli ha praticato il nostro mestiere a un livello che pochi raggiungeranno e che ancora meno sorpasseranno.

    Oggi ho seppellito la mia amata moglie, Camilla. Le mani mi tremano a scrivere il suo nome! Aveva ventinove anni, ed era bella come un lillà di primavera. Posso ancora sentire la sua voce. Potrei riempire la sua tomba con le mie lacrime.

    In questo terribile vuoto, tuttavia, un pensiero mi è di conforto. Ciò che io e Camilla un tempo consideravamo una maledizione, il fatto che non avrebbe mai potuto portare in grembo un figlio nostro, si è rivelata una piccola benedizione. È morta, come io morirò, senza conoscere mai il dolore di seppellire la propria prole. Vorrei poter dire la stessa cosa per tante altre persone a Genova. Oberto, il gestore della taverna della zona, ha già seppellito due figli e quattro figlie. Ho vegliato la moglie di Oberto durante le sue ultime ore, e sono incline a credere che sia morta non di pestilenza, ma di crepacuore.

    Non è il caso di Camilla. Lei si è coricata in ottima salute e si è risvegliata soffocando nel suo stesso catarro. L’ennesima vittima della peste che prende al petto.

    Oggi ho scavato la tomba di Camilla con l’aiuto del mio collega, Jacob ben Moses. A differenza di tanti altri medici, Jacob non ha mai guardato dall’alto in basso il mio mestiere. Insieme abbiamo istituito una sorta di collaborazione. Per legge, gli è concesso di prendersi cura solo degli ebrei suoi simili, ma io mi rivolgo a lui per un consiglio quando le circostanze mi rendono particolarmente perplesso. In cambio, opero i suoi pazienti quando ne fanno richiesta. Jacob ha superato da tempo i sessant’anni ma continua a lavorare duramente. E oggi ho imparato che il vecchio ebreo ha una schiena straordinariamente forte per un uomo d’età così avanzata.

    Perché, potreste chiedervi, due uomini che hanno dedicato la vita allo studio della medicina dovrebbero scavare una tomba con le loro mani? Per quanto debba sembrare assurdo, io non posso permettermi un becchino. E inoltre, benedetto sia l’uomo che riesce a trovare un becchino ancora vivo che non abbia timore di assumersi il compito.

    Temo che non vivrò tanto a lungo da riempire molte pagine di questo diario. Forse esso si ridurrà a questo unico contributo. Tuttavia, finché sarò in grado di respirare, ho un dovere da compiere, per i posteri, così come per tutte le vite perse e sprecate, specialmente quella della mia preziosa Camilla. Ho l’obbligo di documentare come questa pestilenza abbia abbattuto la mia città un tempo grande.

    Forse, come pontificano molti preti e vescovi, l’apocalisse è già arrivata, evocata dai nostri stessi peccati. Ma io devo dare testimonianza di ciò che vedo. Ho dedicato la mia vita lavorativa alla scienza, e cosa c’è di più scientifico che osservare e documentare con cura?

    Come ogni cosa che raggiunge Genova, questa peste è arrivata dal mare, da sud ovest. Non è stato un demone a trasportare la malattia. Sono stati i mercanti e i marinai genovesi. Hanno portato con loro questa maledizione dall’oriente, esattamente da Caffa, oltre l’Asia Minore.

    La prima nave infestata dalla peste è apparsa all’orizzonte a fine autunno. I commercianti napoletani ci avevano avvisati del loro arrivo, e i nostri soldati sono riusciti a rimandare indietro le imbarcazioni con frecce infuocate e altri mezzi. Alla fine di dicembre, pochi giorni dopo la celebrazione in onore della nascita di nostro Signore, un’altra nave di infetti è penetrata nel porto. L’infido capitano ha nascosto i morti e i moribondi sottocoperta. Mosso da cupidigia, ha venduto le mercanzie infette agli ignari commercianti del porto, avvelenando la nostra nobile città. Una volta che il danno è stato fatto, è salpato con la sua nave maledetta, e si dice che abbia propagato la pestilenza per tutta la Sicilia e la Grecia.

    I decessi sono iniziati qualche giorno dopo. Le carcasse di maiali, capre, ratti, gatti e cani in decomposizione sono state foriere della pestilenza.

    Ora che la malattia ci ha raggiunti tutti, nessun ceto sociale ha modo di sfuggire alla morte. Non sono solo i becchini a correre un terribile pericolo. I medici che si occupano dei malati, i preti che somministrano l’estrema unzione, gli avvocati che redigono le volontà: anche loro periscono.

    Oggi, mentre io e Jacob scavavamo la tomba di mia moglie, lui ha mormorato qualcosa tra sé e sé, nella sua lingua incomprensibile. Gli ho chiesto cosa fosse quella cantilena, e lui mi ha risposto che si tratta di una preghiera ebraica per i morti. Quando gli ho suggerito che sarebbe più saggio conservare le preghiere per i vivi, ha riso. E mi ha fatto notare che i morti sono gli unici ad avere ancora una speranza.

    Gli ho domandato perché continua a lavorare se crede che sia così. Mi ha risposto che è vecchio e che sarebbe dovuto morire diversi inverni fa. La medicina è tutto ciò che abbia mai conosciuto ed è troppo tardi per smettere ora, nonostante la futilità del lavoro.

    Jacob ha abbassato la vanga. Mi ha detto che comprende cosa significhi seppellire la propria moglie, poiché anch’egli ha perso la sua Miriam dieci inverni fa. Mi ha assicurato che il dolore affievolisce, ma la solitudine persiste. Mi ha chiesto perché intendo rimanere a Genova dopo aver sepolto Camilla. Perché rischio un’infezione quando potrei scappare in Francia o nel nord del Sacro Romano Impero, dove così tanti nostri colleghi si sono già diretti.

    «Non credete che la pestilenza mi inseguirebbe?», ho chiesto.

    «Senza dubbio», ha concordato. «Ma potrete trovare rifugio nelle piccole aree che saranno risparmiate».

    «E cosa ne sarebbe dei malati qui a Genova?», ho voluto sapere. «Non abbiamo verso di loro un obbligo morale?».

    Jacob ha indicato i tumuli tutto attorno a noi e ha chiesto: «Cosa può esserci mai rimasto da offrire agli infermi?».

    Ho insistito, forse mosso solo dallo stesso caparbio orgoglio che una volta ha portato Camilla a paragonarmi a un cieco somaro. Ho detto a Jacob che il nostro ruolo è fondamentale, dato che dreniamo le pustole dei pazienti, dissanguandoli quando gli umori sono sbilanciati, e applicando loro altri rimedi onorati da lungo tempo.

    Jacob mi ha

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