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La chimica dell'amore
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E-book277 pagine3 ore

La chimica dell'amore

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Info su questo ebook

«Un’autrice che sa emozionare.» Kirkus Reviews

Maya ha solo diciassette anni ma crede di aver trovato la formula perfetta per la felicità: un tirocinio estivo al MIT, la più prestigiosa università scientifica degli Stati Uniti, due nuovi amici, appassionati di scienze almeno quanto lei, e un ragazzo perfetto. L’estate si annuncia come  indimenticabile. Ma quando Whit, il suo ragazzo, la lascia all’improvviso, tutte le sue certezze vacillano. E se la soluzione alle sue pene d’amore risiedesse in una ricerca lasciata incompiuta da sua madre? Era una famosa scienziata che, attraverso la manipolazione dei feromoni, si proponeva di attivare l’attrazione tra due persone. Maya è convinta che, riuscendo a concludere lo studio su cui era impegnata la madre, riuscirà a riavere Whit indietro. Il destino, però, sembra avere altri piani e il suo esperimento non farà che complicare le cose. Forse Maya capirà che l’amore non può essere manovrato, né spiegato con formule scientifiche…

Esiste la formula perfetta per la felicità?

«Maya è una protagonista intelligente, spiritosa e adorabile.»
Booklist

«È l’ironia a dare a questo romanzo una marcia in più.»
Kirkus Reviews

«Una lettura imprescindibile per tutti i lettori di rosa, specialmente quelli che adorano Sarah Dessen.»
School Library Journal

Meredith Goldstein
autrice di numerosi romanzi, è una redattrice del Boston Globe. La sua rubrica Love Letters è attiva dal 2009 ed è diventata un punto di riferimento per tutte le questioni amorose che affliggono i cuori infranti.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2019
ISBN9788822729316
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    Anteprima del libro

    La chimica dell'amore - Meredith Goldstein

    A Leslie Goldstein e ai suoi allievi di pianoforte.

    1

    Il mio cellulare si illuminò; era un messaggio da Yael.

    Ce la filiamo prima oggi. Giro sniffata, diceva sul gruppo formato con me e Kyle.

    Controllai l’ora. Non erano nemmeno le cinque.

    Io finisco alle sei, risposi, poi posai il cellulare a faccia in giù e lo misi in modalità silenziosa, per evitare che mi allettasse con promesse di divertimento facendomi così trascurare la mia unica responsabilità.

    Ero solo una stagista part time in uno dei laboratori di biologia del Massachusetts Institute of Technology – assunta dal collega ricercatore di mia madre, il dottor Araghi, che aveva collaborato a lungo con lei, per trascrivere i suoi appunti – ma avevo intenzione di comportarmi come una professionista. Sarei entrata come matricola al MIT quell’autunno e volevo dimostrare che non ero solo figlia di mia madre e prendevo la mia presenza lì molto sul serio.

    A volte, però, era difficile concentrarsi.

    Soprattutto a causa di Kyle e Yael.

    «Maya!», sbottò Yael. Mi girai e la trovai ferma dietro la mia postazione, con Kyle a fianco. I suoi boccoli erano raccolti in uno chignon stretto, da cui qualche ciocca era riuscita a sfuggire e ora rimbalzava sulla fronte lentigginosa mentre parlava.

    «Non ignorarmi, ragazza. Prendi la tua roba».

    «Ho detto che lavoro fino alle sei», ripetei.

    «A nessuno importa quello che fai. Sei solo una stagista».

    Mi accigliai. «Recupererai», disse Kyle. «E poi, il dottor Araghi è andato via prima perché aveva una lezione. Su, ci sono quasi ventisette gradi là fuori. Se ne vanno tutti prima».

    Mi avvicinai alla finestra accanto ai nostri tavoli, che erano ammucchiati in un angolo in fondo al laboratorio di Araghi, al terzo piano dell’edificio 68B del MIT, una costruzione grigia popolata soprattutto da ricercatori di biologia con e senza camice.

    Per giorni il cielo sopra Boston era stato piovoso e coperto, ma finalmente sembrava estate. Scorsi due ragazze bionde che attraversavano il cortile in pantaloncini e infradito, e le loro code di cavallo si muovevano all’unisono come due nuotatrici sincronizzate.

    Mi arresi. «Okay, datemi dieci minuti per prendere le mie cose».

    «Tre», disse Yael. «Ti concedo tre minuti».

    Misi nel mio cassetto il minuscolo e antiquato registratore del dottor Araghi, afferrai lo zaino e seguii Kyle e Yael nel labirinto di tavoli e poi fuori, lungo il corridoio affollato. Una volta scese le scale e usciti nel cortile, Kyle si tolse la felpa, perché faceva caldo, e io notai la nuova maglia con la scritta I LOVE MIT; solo che al posto di love – o di un cuore – c’era disegnato un castoro. Kyle non riusciva a capacitarsi che quell’animale fosse la mascotte dell’università. Gran parte del suo guardaroba gli rendeva omaggio e non per spirito di corpo studentesco.

    «Tu castori il MIT?», domandai, seguendolo fuori dal campus.

    «Eccome. E castoro anche gli spiedini di pollo. Andiamo a mangiare, dopo. Muoio di fame».

    Superammo l’enorme Koch Center e rallentammo di fronte all’ultima opera d’arte a tema biologia, fluorescente, nell’atrio dell’edificio; poi accelerammo verso la nostra vera meta, più giù lungo Main Street.

    «Come with me, and you’ll be, in a world of pure imagination», canticchiava Kyle, stonato, mentre percorrevamo la strada.

    «Era nel film originale di Willy Wonka», spiegai a Yael, che lo guardava confusa: Kyle stava camminando all’indietro con le lunghe braccia tese in un gesto di invito. A volte i riferimenti alla cultura americana le sfuggivano. Avevo imparato che non tutti i film famosi lo erano da dove veniva lei, in Israele.

    «Conosco questa canzone». Sogghignò. «Ma non riesco a credere che canti così male».

    Sentendola, Kyle alzò il volume e sollevò il dito medio nella nostra direzione. Yael fu rapida a rispondere con lo stesso gesto.

    Abitavo a Cambridge da quando ero nata, quindi conoscevo ogni piazzetta e angolo di strada, ma devo riconoscere a Kyle e Yael il merito di avere scoperto la magica nube di cioccolato su Main Street. Il secondo giorno di stage, Kyle si era avvicinato al mio tavolo – che era proprio dietro al suo –, aveva inclinato la testa su una spalla come per misurarmi con lo sguardo, poi mi aveva chiesto se volessi unirmi a lui e Yael per un giro sniffata.

    «Fai sul serio?», aveva esclamato lei, all’altro capo della stanza, prima che potessi rispondere. «Non la conosciamo nemmeno».

    «Sì, faccio sul serio. È degna, me lo sento. Iniziamola al culto».

    «A che vuoi iniziarmi?», avevo domandato. «Cos’è un giro sniffata?».

    Yael aveva emesso un gran sospiro ben udibile, ma aveva ceduto, almeno all’apparenza.

    Li avevo seguiti fuori dal laboratorio, quel giorno, poi in una zona industriale di Main Street, a Cambridge, dove all’improvviso mi ero ritrovata in un intero quartiere che profumava di vapore al cioccolato.

    «È un mistero», aveva detto Kyle, con il naso che fremeva. «In questo isolato, c’è sempre profumo di cioccolata. Ne siamo ossessionati».

    «Penso che dipenda dalla Cambridge Foods», avevo spiegato, inalando e indicando l’edificio bianco senza insegne davanti a noi. «È una fabbrica di dolci. Il padre di un mio compagno delle medie lavorava lì».

    Kyle e Yael erano rimasti in silenzio, sbalorditi, come se avessi appena risolto un grande enigma scientifico.

    «Fanno il ripieno delle barrette di cioccolato. Tipo il torrone che trovate, che so, in un Three Musketeers. Questa zona di Cambridge una volta era il distretto dolciario. Avete visto la vecchia sede della Necco, vero? Penso che lì facessero i wafer».

    Kyle mi aveva afferrato per le spalle, cogliendomi alla sprovvista.

    «Perché lo dici come se fosse tutto normale?», aveva sbottato, la voce più bassa di mezza ottava. Aveva alzato le sopracciglia e spalancato gli occhi scuri, quasi neri, della stessa tonalità dei capelli corti e folti. «Dici fanno il ripieno delle barrette di cioccolato come se non fosse la cosa più bella del mondo. Yael e io scherzavamo tra noi, dicendo che Willy Wonka abitava di sicuro qui, ma adesso, insomma, è come se fosse vero».

    Si era fermato e aveva guardato per un attimo in alto, come se stesse sognando.

    «Cioè, fanno il torrone. Proprio lassù». Aveva indicato una delle poche finestre dell’edificio, pronunciando la parola torrone come per dire oro purissimo.

    «Penso di averlo sempre dato per scontato, sai? Sono nata qui, quindi passo davanti a questo posto da anni. Quando abiti tutta la vita nello stesso posto, smetti di notare i particolari. Immagino che sia fico».

    «Non mi pare di aver mai mangiato un Three Musketeers». Yael aveva inspirato a fondo e annuito con aria di approvazione. «Non è molto popolare in Israele. E poi la cioccolata americana fa schifo».

    «Non hai mai mangiato un Three Musketeers?». Kyle era inorridito. «Dobbiamo rimediare subito. Al 7-Eleven!».

    Da quel giorno, partecipavo sempre ai giri sniffata ed ero più che felice di starmene con loro fuori dalla fabbrica a respirare a pieni polmoni e ad ascoltare Kyle che inventava storie su cosa capitasse all’interno. Secondo la sua ricostruzione, lo stabilimento principale di Willy Wonka non riusciva a soddisfare tutti gli ordini e quindi lui aveva aperto una succursale a Cambridge, in Massachusetts, chiamandola semplicemente Cambridge Foods per non incuriosire troppo la gente del posto. Questa teoria era supportata dal fatto che non si vedeva mai nessuno entrare o venire dall’edificio.

    «Abitano lì dentro, quindi non c’è ragione di uscire», ci diceva. «Ci sono Willy Wonka, che ormai sarà molto vecchio, gli Umpa Lumpa e Charlie. Charlie adesso in pratica fa l’imprenditore e non si è mai sposato. In realtà, è molto triste. Se ne sta lì seduto da solo, riflettendo sulla metafora dei Confetti senza confini…».

    Una volta, durante una di quelle spedizioni, Yael gli aveva permesso di prendersela in spalla, per sbirciare in una delle poche finestre in cima alla fabbrica e confermare il suo racconto. Nel suo metro e cinquantacinque, era troppo bassa per riuscire a guardare dentro, persino con Kyle come scaletta di uno e ottantadue, ma continuarono a provarci, nella speranza di intravedere anche solo per un momento qualcosa di magico. Io non gli avrei mai permesso di tirarmi su, per paura di cadere e rompermi una gamba.

    «Ecco». Kyle si fermò di fronte a una sezione di mattoni bianchi della Cambridge Foods. «Mettetevi proprio qui. Stasera è qui la tasca di profumo. Proprio in questo punto. Vi colpirà dritto in faccia».

    Mi misi davanti a Kyle, così vicina che con i talloni delle scarpe da ginnastica toccavo la punta delle sue. Yael arretrò e mi pestò i piedi; dei riccioli mi colpirono il mento quando inclinò la testa verso le bocchette di ventilazione che facevano uscire l’aroma dalla fabbrica.

    «Ora», disse Kyle. «Inspirate. Ci siamo proprio in mezzo».

    Sentii i loro petti espandersi, dietro e davanti a me.

    «È perfetto», sussurrai, mentre il profumo di torrone ci investiva.

    Dopo di che andammo a cena, fermandoci per degli spiedini di pollo al ristorante vicino al campus, con il menu a tavola periodica (Hb per gli hamburger, Qs per le quesadillas). Poi mandai un messaggio al mio ragazzo, Whit, per vedere se avesse voglia di passare a casa mia. Erano appena le otto.

    Sono già qui. Ti aspetto, rispose pochi secondi dopo. Gli mandai l’emoji delle mani che applaudono. Lui rispose con il pollice alto.

    Quasi corsi verso casa, passando accanto ai ristoranti rumorosi e ai rock club coperti di graffiti di Central Square; attraversai gli affollati quartieri residenziali tra il MIT e Harvard e raggiunsi la mia abitazione su Gardenwood Lane, una breve strada bordata di casette a tre piani piene di attività, occupate da professori universitari, e alcuni palazzi di cemento destinati ai laureati di passaggio che a quanto pareva non mettevano mai fuori la spazzatura la sera giusta.

    La mia casa era quella piccola e gialla con la porta rossa. Di fronte c’era Whit, seduto sui gradini a rigirarsi il telefonino tra le mani, i gomiti sulle ginocchia.

    «Eeehi!», esclamai appena lo vidi. Avevo un tono di voce troppo alto, troppo impaziente.

    Sin da quando avevamo deciso che avremmo fatto sesso di lì a quattro settimane – non appena Whit si fosse trasferito in un appartamento fuori dal campus, dove avrebbe avuto una camera tutta sua – non riuscivo a pensare ad altro. Mi sembrava di combattere contro un imperativo biologico ogni volta che non gli tenevo le mani addosso.

    «Ehi». Whit alzò lo sguardo.

    «Non sapevo che saremmo usciti stasera».

    «Avevo bisogno di vederti», rispose, sottovoce. Il mio stomaco fece una capriola.

    Mi avvicinai, gli posai le mani sulle spalle e mi chinai a baciarlo, ma prima che riuscissi a incollare la faccia alla sua lui mi tirò giù a sedere. L’edera che ricopriva i gradini d’ingresso mi solleticò i polpacci.

    Whit si girò verso di me e mi toccò la punta del naso con il suo, un gesto che faceva sempre.

    «Com’è andata in laboratorio?», domandò.

    «Benissimo», risposi e sperai che il mio alito non sapesse troppo di spiedini di pollo. «Sto diventando più svelta a trascrivere gli appunti e stamattina il dottor Araghi mi ha presentato una donna che studia la diatesi cancerogena nei pesci zebra. Ha una borsa di ricerca al MIT quest’anno. Ha detto che anche se sono una matricola, in autunno mi lascerà assistere a qualche lezione».

    «Mmm. Pesci zebra». Whit mi scostò una ciocca di capelli ondulati castani dal viso. «Stai bene».

    «Anche tu». Gli appoggiai una mano sul petto; non riuscivo a evitare di immaginare quel che sarebbe successo in meno di un mese. Avevo già deciso cosa indossare – una camicia da notte di seta viola comprata alla Galleria. Bryan, il mio migliore amico e consigliere in tutte le faccende importanti, diceva che assomigliava al pigiama di Rizzo in Grease. Lo prendevo come un complimento.

    «Ti va di vedere un film?», domandai, di nuovo toccando il naso di Whit. «È presto. Se cominciamo subito, stasera potremmo riuscire a guardare due film».

    Parlavo in codice. Vedere un film significava un po’ di intimità al buio.

    Whit prese un respiro profondo e appoggiò la fronte alla mia. Osservai i suoi occhi azzurri e i folti capelli rossi, la combinazione genetica che faceva di lui un quadrato di Punnett molto insolito.

    «Ti amerò sempre, Maya», bisbigliò. «Sempre».

    «Che melodrammatico», scherzai, poi chiusi gli occhi, pronta al primo bacio di quella serata.

    Si tirò indietro, mi prese le mani e le strinse forte. «Devi ascoltarmi». Aveva un tono più cupo, quello che gli veniva quando leggeva una battuta. «Ho una cosa da dirti».

    Aveva gli occhi vitrei e mi accorsi che i capelli erano tutti in disordine, spinti da una parte, in alto, come se l’avessero calpestato.

    «Whit, che succede?»

    «Ho conosciuto qualcun altro». Teneva lo sguardo fisso sul mio collo.

    «Qualcun altro per cosa?». Abbassai la testa, in cerca del suo viso.

    Probabilmente mi ci vollero tre secondi interi per processare ciò che aveva detto.

    Avevo già sperimentato quella reazione ritardata, quando era morta mamma. Ora credo che sia la maniera in cui gli esseri umani metabolizzano le notizie traumatiche inattese: una parola alla volta, al rallentatore. Un attimo infinito – il millisecondo esatto in cui registri il significato di quei termini elementari concatenati insieme, come quando papà aveva detto: «Maya, mamma non ce la farà».

    «A fare cosa?», avevo domandato, stupidamente; poi avevo sentito le gambe paralizzarsi e compreso che non ce l’avrebbe fatta a continuare la sua vita.

    Con Whit, che aveva abbassato così tanto gli occhi da guardarmi le scarpe, sussurrai a mio personale beneficio: «Ho. Conosciuto. Qualcun altro».

    Come frase suonava sciocca, un dialogo trito e ritrito da soap opera, che Whit avrebbe ridicolizzato sentendolo in TV. È una sceneggiatura pigra. Nella realtà nessuno dice ‘Ho conosciuto qualcun altro’.

    Cercai di trovare un significato diverso a quell’affermazione. Forse aveva trovato un’altra persona con cui scrivere. Un coautore. Mi aveva detto che a Hollywood quasi tutti scrivevano a quattro mani. Era quello che voleva fare dopo il college – trasferirsi sulla West Coast e scrivere sceneggiature per film indipendenti.

    «Non vorrai dire un’altra ragazza con cui stare». Presi dell’edera ai miei piedi e la sradicai. Papà aveva cercato di domare quella pianta, eppure aveva invaso la facciata di casa nostra; cresceva al doppio della velocità normale, come sapesse che non c’era più mamma a sorvegliarla.

    Whit alzò lo sguardo inespressivo e si passò una mano tra i capelli. «Sì, un’altra ragazza».

    Guardò verso casa e sussultò alla vista di mio padre che passava davanti alla finestra del soggiorno.

    «Dobbiamo lasciarci». Adesso guardava ovunque tranne che verso di me. «Cioè, non vorrei, ma c’è qualcun altro e penso di doverlo a me stesso, e a te. Devo capire che cosa significa. Lo sai che ti amo, ma questo significa anche essere sincero con te».

    L’ultima frase sembrava imparata a memoria, ogni parola preparata in anticipo.

    «È uno scherzo, vero?». La mia voce mi riecheggiò nelle orecchie. Sentivo una stretta al cuore. «Abbiamo superato il tuo primo anno al college. Doveva essere la parte più difficile – tu lì e io ancora alle superiori. Però ce l’abbiamo fatta. E perderò la verginità con te fra meno di un mese».

    Whit si guardò intorno, sconcertato dalla mia voce troppo alta; probabilmente temeva che papà ci sentisse dalla finestra aperta.

    «No». La rabbia prese il sopravvento su di me. «Fregatene se qualcuno ci sente. Abbiamo aspettato fino a questo momento. Hai detto che dovevamo rimandare finché non fossi andato via dal dormitorio, in un appartamento tutto tuo. Succederà tra pochissimo. Hai detto che contavi i giorni».

    Esitò per quella che parve un’ora, poi aprì la bocca.

    «Aspetta». Lo interruppi prima che potesse cominciare. «Da quanto?»

    «Cosa?». Ebbe la faccia tosta di assumere un’aria irritata.

    «Hai detto che hai conosciuto un’altra persona: da quanto? Da quanto c’è, questa altra persona? Facciamo progetti per il 10 luglio nel tuo appartamento da due mesi. Il giorno in cui avrai una camera tutta tua. In cui i tuoi coinquilini partiranno per il fine settimana. Quand’è che hai incontrato qualcun altro?».

    Whit si sfregò dietro il collo come mio padre quando pagava le bollette.

    «Tecnicamente, l’ho conosciuta un anno fa, è una compagna di corso, un’amica. Non è successo niente; lo sa che ho una ragazza che va ancora alle superiori. Piano piano, però, ci siamo avvicinati e ho cercato di stabilire dei limiti, ma… non è qualcosa che puoi forzare. Adesso frequentiamo le stesse lezioni estive e saremo sempre insieme. È più difficile ignorare tutto».

    Rabbrividii, senza sapere se fosse per via della temperatura che calava insieme al sole o perché lo shock mi stava causando una specie di aritmia.

    Due ragazze che sembravano un po’ più piccole di noi passarono davanti casa, cantando una canzone che avevo sentito in radio. Parlava del cuore che vuole quello che vuole, o qualcosa del genere.

    «Ci hai fatto sesso?», domandai, abbastanza forte da farmi sentire dalle ragazze. Volevo dei testimoni, per dimostrare che stava succedendo davvero. Le due si fermarono, tacquero e si girarono a guardare Whit, in attesa di una risposta, contente di far parte della scena.

    «Ma insomma, Maya. No. Te l’ho appena detto – non è successo niente».

    «Non è successo niente!», urlò di nuovo, in direzione delle ragazze, una delle quali rispose a voce alta: «Okay, come vuoi»; poi se ne andarono.

    Pensai alle ultime settimane insieme e mi chiesi se mi fosse sfuggito qualche segnale. Sembrava impossibile non accorgersi che stava per accadere una cosa del genere.

    «Ci amiamo», sussurrai, più a me stessa che a lui. «Non ci sono prove che sia cambiato qualcosa».

    «Prove», ripeté Whit e scosse la testa. «Anche questo è il problema, Maya. Penso che una parte di me finalmente ammetta che tu e io siamo troppo diversi. Hai superato l’esame di calcolo come se niente fosse, anche se eri la più giovane della classe. Sai con esattezza che percentuale di probabilità ho di avere figli con i capelli rossi. Ti importa dei tumori metastatici e dei… pesci zebra o quello che sono. Ed è qualcosa che amo in te. Sei un genio, Maya; ma devo ammettere che stare con Andrea – l’altra persona – è… semplice. È piacevole passare del tempo con qualcuno che capisce quello che faccio. Possiamo stare ore a parlare di sceneggiature. Cioè, tu non vuoi stare con qualcuno che capisca quello che fai? Qualcuno più simile a te?»

    «No». Avevo di nuovo una voce decisa. «Voglio solo te».

    «Non hai nemmeno cominciato il college, Maya. Non lo sai quello che vuoi».

    Mi ritrassi di colpo. Non aveva mai assunto un tono così paternalistico.

    Rimasi seduta, ferma e zitta, concentrata sul mio respiro, mentre Whit mi spiegava di essersi invaghito di una studentessa di cinema di nome Andrea Berger. Come lui, doveva iniziare il secondo anno all’università di Boston. Si erano iscritti allo stesso corso di scrittura estivo e la stava aiutando con un cortometraggio. Che lo entusiasmava.

    «Dovresti andartene», dissi quando si fermò, il tono piatto, le gambe troppo molli per alzarmi.

    «Sei sicura? Possiamo parlare un altro po’, se vuoi. So che c’è ancora molto da dire».

    «No, invece».

    Annuì e si alzò, torreggiando su di me, che stringevo le dita sulla ringhiera di metallo arrugginito in cerca di sostegno.

    Non cercò di aiutarmi ad alzarmi.

    2

    Ancora in cima alle scale, telefonai a Bryan.

    «Parla la madre dei draghi», rispose.

    «Mi ha lasciato».

    «Mmm?». Ascoltava con un orecchio solo. Sentivo Hamilton in sottofondo. «Aspetta, abbasso il volume. Che hai detto?»

    «Mi ha lasciato», ripetei.

    «Chi?»

    «Whit», sbottai. «Chi se no?»

    «Giusto. Hai ragione». A quel

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