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La moglie silenziosa: Un nuovo caso per Will Trent
La moglie silenziosa: Un nuovo caso per Will Trent
La moglie silenziosa: Un nuovo caso per Will Trent
E-book717 pagine10 ore

La moglie silenziosa: Un nuovo caso per Will Trent

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Info su questo ebook

I personaggi, la trama, il ritmo sono impareggiabili.Michael Connelly

Un romanzo non può essere meglio di così.Jeffery Deaver

Passione, intensità e umanità.Lee Child

Con cuore e tecnica Karin Slaughter sa coinvolgerti dalla prima all’ultima pagina.Camilla Läckberg

Tutti i libri di Slaughter sono sorprendenti e realistici, ma a farla spiccare tra i più grandi scrittori thriller è il suo prodigioso dono per la caratterizzazione dei personaggi.Washington Post

Slaughter è come un’atleta professionista che si esibisce sul campo da gioco per mostrare ai ragazzini come si gioca davvero.RT Book Reviews

LUI DESIDERAVA SOLTANTO AVERE QUALCUNO DA AMARE...

Una ragazza corre sola nella foresta. È convinta che non ci sia ragione di avere paura, ma si sbaglia. Un silenzioso predatore sta perseguitando le donne della contea di Grant. Si nasconde nell’ombra, aspetta fino a quando non arriva il momento giusto per aggredire le sue vittime. Ed è così anche stavolta.
Dieci anni dopo, il caso è ormai stato chiuso. Il killer, Daryl Nesbitt, è dietro le sbarre. Ma poi, all’improvviso, un’altra giovane donna viene aggredita e uccisa con lo stesso, brutale modus operandi. È soltanto una coincidenza, oppure la polizia potrebbe essersi sbagliata? Nesbitt viene interrogato in carcere, e si professa per l’ennesima volta innocente: dice di essere stato incastrato da una squadra di poliziotti corrotti guidata da Jeffrey Tolliver, l’ex capo del dipartimento. Riaprire il caso significherebbe disturbare la memoria di Tolliver, morto anni prima e considerato da tutti un eroe. Ma i giorni passano, e lì fuori c’è un serial killer alla ricerca di nuove vittime.
L’agente speciale del GBI Will Trent deve riuscire a fermarlo, e in fretta. Rimettersi sulla pista dopo molti anni non è semplice: il tempo fa svanire i ricordi, scomparire i testimoni, perdere le prove... Il tempo trasforma le bugie in verità. E poi, Will non potrà risolvere il mistero senza chiedere aiuto all’unica persona che non vorrebbe coinvolgere nell’indagine: la sua fidanzata e vedova di Jeffrey Tolliver, la dottoressa Sara Linton.
Quando il passato e il presente iniziano a sovrapporsi, Will capisce che tutto ciò che ama è in grande pericolo...

Questo ebook contiene un estratto di La ragazza dimenticata, il nuovo romanzo di Karin Slaughter.

LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2020
ISBN9788830519831
La moglie silenziosa: Un nuovo caso per Will Trent
Autore

Karin Slaughter

Autrice regolarmente ai primi posti nelle classifiche di tutto il mondo, è considerata una delle regine del crime internazionale. I suoi quindici romanzi, che sono stati tradotti in trentatré lingue e hanno venduto più di 30 milioni di copie, comprendono la fortunata serie che per protagonista Wil Trent, L'orlo del baratro, che ha ricevuto una nomination al prestigioso Edgar Award, e Quelle belle ragazze, il suo primo thriller psicologico. Nata in Georgia, attualmente vive ad Atalanta.

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    Anteprima del libro

    La moglie silenziosa - Karin Slaughter

    1

    Atlanta

    Will Trent spostò il suo metro e novantatré, cercando di trovare una posizione comoda per le gambe nella Mini della sua collega. La sommità della testa stava alla perfezione nel vano del tettuccio apribile, ma il seggiolino della bambina sistemato dietro riduceva parecchio il suo spazio davanti. Doveva tenersi le ginocchia per non urtare accidentalmente il cambio e metterlo in folle. Sembrava con molta probabilità un contorsionista, benché lui si ritenesse più un nuotatore che si immergeva ed emergeva dalla conversazione che Faith Mitchell aveva con se stessa. Al posto di bracciata-bracciata-respira, era estraniati-estraniati-cos’hai detto?.

    «Allora, alle tre del mattino sto postando una recensione feroce da una stella per questa spatola chiaramente difettosa.» Faith tolse entrambe le mani dal volante per imitare il gesto della scrittura al pc. «E mi rendo conto di aver messo un detersivo monodose per lavatrice nella lavastoviglie, il che è assurdo perché la lavanderia è di sopra, e dieci minuti dopo sto guardando dalla finestra e penso: La maionese è davvero uno strumento musicale?

    Will sentì l’intonazione salire alla fine, ma non capì se volesse o no una risposta. Cercò di riavvolgere fino all’inizio il nastro del discorso nella sua testa. L’operazione non fece maggiore chiarezza. Erano in macchina da quasi un’ora e Faith aveva già accennato, senza alcun ordine specifico, al prezzo esorbitante della colla in stick, al Chuck E. Cheese Industrial Birthday Complex e a quella che definiva la tortura pornografica dei genitori che postavano le foto dei figli che tornavano a scuola mentre la sua era ancora a casa.

    Will piegò la testa immergendosi di nuovo nel discorso.

    «E arriviamo alla parte in cui Mufasa precipita verso la morte.» Adesso Faith a quanto pareva stava parlando di un film. «Emma si mette a piangere a dirotto come faceva Jeremy alla sua età, e mi sono resa conto di aver messo al mondo due bambini esattamente tra un Re Leone e l’altro.»

    Will si astrasse dalla conversazione. Udendo il nome di Emma provò una fitta al ventre. Il senso di colpa gli si propagò nel petto come una scarica di pallini da caccia.

    Aveva quasi ucciso la figlia di due anni di Faith.

    Era andata così: lui e la sua fidanzata le stavano facendo da baby-sitter. Sara stava sistemando alcune carte in cucina. Lui era seduto per terra in soggiorno con Emma. Le stava mostrando come sostituire la minuscola batteria a bottone in un HexBug. Il giocattolo era smontato sul tavolino. Will stava tenendo la batteria, grande quanto una mentina per l’alito, sulla punta del dito in modo che la bambina potesse vedere. Le stava spiegando che avrebbero dovuto fare molta attenzione a non lasciarla in giro perché Betty, il suo cane, avrebbe potuto mangiarla per sbaglio, quando d’un tratto, senza alcun preavviso, Emma si era allungata e se l’era infilata in bocca.

    Will era un agente del Georgia Bureau of Investigation. Si era trovato in emergenze reali, in bilico tra la vita e la morte, e l’unica cosa che allora aveva fatto inclinare il piatto della bilancia era stata la sua capacità di agire in fretta.

    Eppure, quando la batteria era scomparsa, era rimasto paralizzato.

    Il suo dito era restato inutilmente puntato a mezz’aria. Il suo cuore si era ripiegato come una bici attorno a un palo. Era riuscito solo a guardare al rallentatore Emma che si raddrizzava con un sorrisetto sul volto angelico e si preparava a deglutirla.

    Era stato allora che Sara li aveva salvati tutti. Con la stessa rapidità con cui la bambina aveva aspirato la batteria, le era piombata addosso come un rapace, le aveva cacciato un dito in bocca e l’aveva estratta.

    «Comunque sia, guardo al di sopra della spalla di questa ragazza in coda alla cassa, e lei sta messaggiando con il fidanzato, dicendogliene di tutti i colori.» Faith era passata a un’altra storia. «Poi se ne va, e a me resterà sempre il dubbio se il suo fidanzato sia stato davvero o no con sua sorella.»

    La spalla di Will si piantò nel finestrino quando la Mini fece una curva brusca. Erano quasi alla prigione statale. Sara sarebbe stata là, fatto che trasformò a poco a poco il senso di colpa di Will per Emma in trepidazione per Sara.

    Si mosse di nuovo sul sedile. La camicia gli si staccò dalla schiena. Per una volta non stava sudando per il caldo. Stava sudando per il suo rapporto con Sara.

    Andava alla grande ma per qualche motivo anche molto, molto male.

    In apparenza non era cambiato niente. Passavano ancora più notti insieme che separati. Nel fine settimana avevano condiviso il pasto preferito di lei, la colazione domenicale nudi, e anche quello di lui, la seconda colazione nudi. Sara lo baciava nello stesso modo. La sensazione era che lo amasse nello stesso modo. Lasciava ancora i vestiti sporchi a pochi centimetri dal cesto della biancheria, ordinava ancora un’insalata mangiando metà delle sue patatine, eppure c’era qualcosa di terribilmente sbagliato.

    La donna che negli ultimi due anni lo aveva praticamente costretto, a forza di botte in testa, a parlare di cose di cui non voleva parlare aveva d’un tratto dichiarato che uno specifico argomento di conversazione era proibito.

    Era andata così: sei settimane prima era tornato a casa dopo aver svolto alcune commissioni. Sara era seduta al tavolo della cucina. All’improvviso si era messa a parlare di ristrutturare casa di Will. Non solo di ristrutturarla, ma di demolirla per avere più spazio per sé, il che era un modo indiretto per dirgli che avrebbero dovuto convivere, perciò Will aveva deciso di farle la proposta in modo indiretto, spiegando che si sarebbero dovuti sposare in chiesa per accontentare sua madre.

    Dopodiché aveva sentito uno schiocco, mentre la terra gli si gelava sotto i piedi, il ghiaccio ricopriva ogni superficie e il respiro di Sara si condensava, quando, anziché rispondere: «Sì, amore mio, sarei felicissima di sposarti», aveva detto con una voce più fredda dei ghiaccioli sul soffitto: «Che cavolo c’entra mia madre?».

    Avevano discusso, e Will si era trovato in una posizione difficile dato che non aveva capito con precisione di che cosa stessero discutendo. Si era preso un paio di stoccate perché la sua casa non era abbastanza bella per lei, quindi il discorso si era spostato sui soldi, il che lo aveva messo in una posizione migliore perché lui era un povero dipendente governativo e Sara… be’, anche Sara era attualmente una povera dipendente governativa, ma prima era stata una ricca dottoressa.

    Erano andati avanti fino al momento di incontrare i genitori di lei per il brunch. Dopo, Sara aveva imposto una moratoria di tre ore sul discorso del matrimonio o della convivenza, e quelle tre ore erano diventate il resto della giornata, quindi il resto della settimana e adesso era passato un mese e mezzo, e Will stava in pratica vivendo con una coinquilina molto sexy che continuava a voler fare sesso con lui ma che parlava solo di cosa ordinare per cena, della determinazione di sua sorella minore a incasinarle la vita e di quanto fosse facile imparare i venti algoritmi che risolvevano il cubo di Rubik.

    Faith entrò nel posteggio della prigione dicendo: «Ovviamente, perché sono io, in quel momento esatto mi è venuto il ciclo».

    Restò in silenzio entrando in uno stallo. L’ultima frase non pareva affatto conclusiva. Si aspettava una risposta? Certo che sì.

    Will optò per: «È un bello schifo».

    Faith sembrò sorpresa, come se si fosse appena accorta che Will era in macchina. «Cosa è un bello schifo?»

    Ora lui capiva chiaramente che non si aspettava una risposta.

    «Gesù, Will.» Inserì bruscamente il cambio nella modalità parcheggio. «Perché non mi avverti la prossima volta che hai davvero intenzione di ascoltare?»

    Scese e si allontanò furiosa verso l’ingresso dei dipendenti. Gli dava le spalle, ma lui immaginò che brontolasse a ogni passo. Mostrò il documento alla telecamera davanti al cancello. Will si sfregò la faccia. Inalò l’aria calda all’interno dell’auto. Tutte le donne della sua vita erano pazze o era lui l’idiota?

    Solo un idiota avrebbe fatto quella domanda.

    Aprì la portiera e riuscì a disincastrarsi dalla Mini. Il sudore gli prudeva sul cuoio capelluto. Era l’ultima settimana di ottobre e il caldo all’esterno non era molto meglio che all’interno. Si sistemò la pistola alla cintura. Trovò la giacca del completo tra il seggiolino di Emma e un sacchetto di cracker Goldfish vecchi. Lo trangugiò tutto alla Homer Simpson, osservando un bus per il trasporto detenuti uscire in strada. Finì in una buca. Dietro i finestrini con le sbarre, le facce dei carcerati mostravano tutte vari gradi di infelicità.

    Gettò il sacchetto vuoto sul sedile posteriore, poi lo recuperò e lo portò con sé incamminandosi verso l’ingresso dei dipendenti. Guardò l’edificio basso, deprimente. La Phillips State Prison era una struttura di media sicurezza situata a Buford, più o meno a un’ora da Atlanta. Circa un migliaio di uomini erano ospitati in dieci unità abitative contenenti due dormitori ciascuna. Sette avevano celle da due. Le altre un misto di celle singole, doppie e di isolamento contenenti carcerati DM/TS. DM stava per disturbi mentali. TS per trattamento speciale, o custodia protettiva, ovvero poliziotti e pedofili, le due categorie più prese di mira in qualsiasi prigione.

    C’era un motivo se DM e TS erano abbinati. A una persona esterna una cella singola sarebbe sembrata un lusso. Per un carcerato in isolamento significava venti ore al giorno di confino solitario in una scatola di calcestruzzo di due metri per quattro senza finestra. E questo dopo una causa epocale grazie a cui le regole precedenti di isolamento in Georgia erano state giudicate disumane.

    Quattro anni prima la Phillips, insieme ad altre nove carceri statali, era stata oggetto di un’operazione sotto copertura del-l’FBI che aveva tolto di mezzo quarantasette guardie carcerarie corrotte. Tutte le altre erano state ricollocate all’interno del sistema. Il nuovo direttore era un tipo intransigente, il che era un bene e un male, a seconda di come si considerassero i pericoli connaturati ad avere in custodia uomini isolati, arrabbiati. Il carcere era attualmente blindato dopo due giorni di rivolta. Sei guardie e tre detenuti erano rimasti gravemente feriti. Un altro era stato brutalmente assassinato nella mensa.

    L’omicidio era il motivo che li aveva portati là.

    In base alla legge statale il GBI era incaricato di indagare su tutti i decessi che avvenivano in ambito detentivo. I carcerati in partenza sul bus non erano probabilmente implicati nell’omicidio ma avevano avuto un ruolo di qualche tipo nella rivolta. Ricevevano la cosiddetta diesel therapy. Il direttore stava allontanando le lingue lunghe, i fomentatori, le pedine nelle rivalità tra bande. Eliminare i piantagrane era un bene per la salute del carcere, ma non altrettanto entusiasmante per gli uomini allontanati. Stavano perdendo l’unico posto che potevano chiamare casa, diretti a una nuova struttura molto più pericolosa di quella che stavano lasciando. Era come andare in una scuola nuova, ma al posto di bulli e ragazze perfide c’erano stupratori e assassini.

    Al cancello d’ingresso era fissato un cartello di metallo. GDOC, Georgia Department of Corrections. Will gettò il sacchetto vuoto di Goldfish nel bidone dell’immondizia lì accanto. Si passò le mani sui pantaloni per eliminare la polvere gialla. Poi si pulì le impronte al cheddar che aveva lasciato, finché non furono meno indecenti.

    La telecamera era a cinque centimetri dalla sua testa. Dovette fare un passo indietro per mostrare le credenziali. Dopo un forte ronzio e un clic si ritrovò all’interno. Ripose la pistola in un armadietto e si mise in tasca la chiave. Poi dovette estrarla insieme a tutto il resto per superare i controlli. Fu condotto attraverso la porta di sicurezza da una guardia taciturna che usava il mento per comunicare: come va fratello, la tua collega è in fondo al corridoio, seguimi.

    L’uomo strascicava i piedi anziché camminare, un’abitudine legata al lavoro. Non c’era bisogno di correre quando il posto dove andavi era esattamente uguale a quello che avevi lasciato.

    La prigione aveva i rumori di una prigione. I detenuti urlavano, picchiavano sulle sbarre, protestavano contro il regime di lockdown e/o le generali ingiustizie dell’umanità. Will si allentò la cravatta via via che si addentravano nell’edificio. Il sudore gli colava sul collo. Le carceri erano strutturalmente difficili da raffreddare e riscaldare. I corridoi erano lunghi e larghi, gli angoli netti. Le pareti di blocchi di calcestruzzo e i pavimenti di linoleum. C’era poi il fatto che ogni cella aveva una conduttura fognaria aperta come gabinetto, e che ogni uomo all’interno sudava così tanto per la tensione da trasformare il flusso tranquillo del fiume Chattahoochee in rapide di sesto grado.

    Faith lo stava aspettando davanti a una porta chiusa. Aveva la testa china mentre scribacchiava sul taccuino. La sua loquacità la rendeva molto brava nel suo lavoro. Mentre Will si spalmava il cheddar sui pantaloni, lei si era data da fare per raccogliere informazioni.

    Fece un cenno alla guardia taciturna, che prese posto sull’altro lato della porta, poi gli disse: «Il detenuto ucciso è nella mensa. Amanda è appena arrivata. Vuole vedere la scena del crimine prima di parlare con il direttore. Sei agenti dell’ufficio della Georgia settentrionale stanno passando in rassegna i sospettati da tre ore. Appena otterranno una possibile lista, finiremo il lavoro. Sara dice che sarà pronta quando lo saremo noi».

    Lui guardò dalla finestrella della porta.

    Sara Linton era in piedi nel centro della mensa con addosso una tuta bianca in Tyvek. I suoi lunghi capelli castano-ramati erano infilati sotto un cappellino da baseball blu. Era un medico legale del GBI. Quello sviluppo recente lo aveva reso molto felice fino a circa sei settimane prima. Sara stava parlando con Charlie Reed, il capo dei tecnici della Scientifica. Lui era inginocchiato a fotografare un’impronta di scarpa insanguinata. Gary Quintana, l’assistente di Sara, teneva un righello vicino all’impronta per prendere nota delle dimensioni.

    Sara aveva un’aria stanca. Nelle ultime quattro ore aveva esaminato la scena. Will era fuori a farsi la sua corsa mattutina quando la telefonata l’aveva tirata giù dal letto. Gli aveva lasciato un messaggio con un cuore in un angolo.

    Lui aveva fissato quel cuore più a lungo di quanto avrebbe ammesso davanti a qualsiasi essere vivente.

    «Okay, allora, la rivolta è scoppiata due giorni fa. Alle undici e cinquantotto di sabato mattina» affermò Faith.

    Will distolse l’attenzione da Sara. Attese che continuasse.

    Lei disse: «Due detenuti hanno iniziato a fare a pugni. La prima guardia che ha cercato di separarli è finita stesa. Una gomitata alla testa, la testa sbattuta per terra e tanti saluti. Con la prima guardia a terra sono iniziati i giochi. La seconda è stata strozzata fino a perdere i sensi. Una terza accorsa in loro aiuto è stata messa fuori combattimento con un pugno. Poi qualcuno ha afferrato i taser, qualcun altro le chiavi ed è stata rivolta generale. L’assassino era chiaramente pronto».

    Will assentì al chiaramente, perché le rivolte nelle prigioni scoppiavano in genere come le eruzioni cutanee. C’era sempre un prurito rivelatore e c’era sempre un tizio, o un gruppo di tizi, che sentiva quel prurito e studiava il modo per sfruttare la rivolta a suo vantaggio. Razziare lo spaccio? Scambiarsi di posto con le guardie? Far fuori qualche rivale?

    L’interrogativo era se la vittima dell’omicidio fosse un danno collaterale o se fosse stata presa di mira in modo specifico. Difficile stabilirlo davanti alla porta della mensa. Guardò di nuovo dalla finestrella. Contò trenta tavoli da picnic, ciascuno con dodici posti, tutti imbullonati al pavimento. I vassoi erano sparpagliati per tutta la sala. I tovaglioli di carta. Il cibo andato a male. C’erano un sacco di liquidi ormai seccati, sangue perlopiù. Alcuni denti. Will vide una mano immobile spuntare da sotto un tavolo e suppose che appartenesse alla vittima. Il corpo dell’uomo era sotto un altro tavolo vicino alla cucina. Dava la schiena alla porta. La sua divisa bianca con le righe blu conferiva alla scena del crimine un’atmosfera da massacro in gelateria.

    Faith disse: «Senti, se sei ancora agitato per Emma e la batteria, non esserlo. Non è colpa tua se hanno un aspetto così delizioso».

    Will immaginò che la vista di Sara lo avesse indotto a lanciare un segnale che lei aveva captato.

    «I bambini piccoli sono come i peggiori detenuti. Quando non ti mentono in faccia e non ti spaccano la roba, sonnecchiano, fanno la cacca o escogitano modi diversi per fregarti.»

    La guardia sollevò il mento: giustissimo.

    «Può informarli che siamo qui?» gli chiese Faith.

    Lui annuì, certo, signora, vivo per servire, prima di allontanarsi strascicando i piedi.

    Will osservò Sara dalla finestrella. Stava annotando qualcosa su un portablocco. Si era aperta la cerniera lampo della tuta legandosi le maniche attorno alla vita. Il cappellino da baseball era sparito. Aveva raccolto i capelli in una coda morbida.

    «È Sara?» domandò Faith.

    Lui la guardò. Si scordava spesso quanto fosse minuta. Capelli biondi. Occhi azzurri. Un’aria perennemente delusa. Con le mani sui fianchi e la testa china fino ad avere il mento all’altezza del petto, gli ricordò Pearl Pureheart, la fidanzata di Mighty Mouse, se Pearl fosse rimasta incinta a quindici anni e di nuovo a trentadue.

    E questa era la prima ragione per cui Will non le parlava di Sara. Faith faceva forzatamente da madre a chiunque entrasse nella sua orbita, che si trattasse di un sospettato sotto custodia o della cassiera del supermercato. L’infanzia di Will era stata piuttosto accidentata. Sapeva parecchie cose del mondo che gran parte dei ragazzini non imparava mai, ma non come farsi proteggere da una madre.

    La seconda ragione del suo silenzio era che Faith era una poliziotta maledettamente in gamba. Le sarebbero bastati due secondi per risolvere il Caso della Fidanzata d’un tratto silenziosa.

    Indizio numero uno: Sara era una persona molto logica e coerente. A differenza della sua ex moglie psicotica, non era stata vomitata dalla bocca dell’inferno. Se Sara era arrabbiata, irritata, infastidita o felice, spiegava in modo attendibile come era arrivata a esserlo e cosa intendeva fare al riguardo.

    Indizio numero due: Sara non faceva giochetti. Non c’erano silenzi, bronci o battute maligne da interpretare. Will non doveva mai indovinare che cosa stesse pensando perché glielo diceva.

    Indizio numero tre: a Sara piaceva chiaramente essere sposata. Nella sua vita precedente lo era stata due volte, entrambe con lo stesso uomo. Sarebbe stata ancora sposata con Jeffrey Tolliver se lui non fosse stato ucciso cinque anni prima.

    Soluzione: Sara non aveva obiezioni al matrimonio o a una proposta indiretta.

    Aveva obiezioni a sposare Will.

    «Voldemort» annunciò Faith nel momento esatto in cui il clop clop dei tacchi alti della vicedirettrice Amanda Wagner giunse alle orecchie di Will.

    Amanda teneva il telefono in mano mentre percorreva il corridoio. Era sempre occupata a mandare messaggi o a telefonare per avere informazioni dalla rete delle sue vecchie colleghe, un gruppo fenomenale di donne, quasi tutte in pensione, che Will immaginava seduto in un nascondiglio segreto a realizzare borsette a maglia per bombe a mano finché non venivano attivate.

    La madre di Faith era una di loro.

    «Be’.» Amanda notò i pantaloni sporchi di cheddar di Will a dieci metri di distanza. «Agente Trent, eri l’unico vagabondo caduto dal treno o dobbiamo cercarne altri?»

    Lui si schiarì la voce.

    «Okay.» Faith sfogliò il taccuino andando dritta al dunque. «La vittima è Jesus Rodrigo Vasquez, trentotto anni, maschio ispanico, sei su dieci per AAL, non ha passato il meth quiz tre mesi fa quand’era fuori.»

    Will tradusse tra sé: Vasquez, condannato per aggressione con un’arma letale, aveva scontato sei anni prima di ottenere la libertà condizionale, poi tre mesi prima non aveva superato il test antidroga, perciò era stato rispedito dentro perché scontasse il resto della condanna a dieci anni.

    «Affiliazioni?» chiese Amanda.

    Era in una banda?

    «Svizzero» rispose Faith. Neutrale. «È pieno di richiami per contrabbando di telefoni.» Lo hanno beccato un sacco di volte con un cellulare nascosto nel culo. «Deduco che fosse un vero piantagrane.» Sempre a fare casino. «La mia ipotesi è che lo abbiano tolto di mezzo perché faceva sempre andare la lingua.»

    «Problema risolto.» Amanda batté sul vetro per richiamare l’attenzione. «Dottoressa Linton?»

    Sara si fermò a prendere alcuni oggetti prima di aprire la porta. «Abbiamo finito di esaminare la scena dell’omicidio. Non vi servono le tute, però ci sono parecchi fluidi e sangue.»

    Distribuì mascherine e soprascarpe. Strinse le dita di Will quando lui prese le sue.

    «Il corpo non è più in rigor mortis e sta entrando nella fase di decomposizione, perciò questo, insieme alla temperatura epatica della vittima e a quella ambientale più elevata, ci dà l’ora fisiologica della morte, che è in accordo con le testimonianze secondo cui Vasquez sarebbe stato aggredito circa quarantotto ore fa, il che colloca l’ora del decesso più o meno all’inizio della rivolta» spiegò.

    «Nei primi minuti o nelle prime ore?» chiese Amanda.

    «All’incirca tra mezzogiorno e le quattro di sabato. Se vuole conoscere l’ora esatta, dovrà affidarsi alle dichiarazioni dei testimoni.» Sara sistemò la mascherina di Will, ricordandole nel contempo: «Naturalmente, la scienza da sola non riesce a stabilire l’ora esatta del decesso».

    «Naturalmente.» Amanda non amava molto le stime.

    Sara alzò gli occhi al cielo guardando Will. Non amava molto il tono di Amanda. «Ci sono tre punti sulla scena del crimine di Vasquez: due in questa zona principale, uno in cucina. Vasquez ha opposto resistenza.»

    Will si allungò alle sue spalle per tenere aperta la porta. L’odore di feci e urina, il biglietto da visita dei detenuti ribelli, permeava ogni molecola all’interno di quel locale.

    «Buon Dio.» Faith si premette il dorso della mano sulla mascherina. Non se la cavava bene con le scene del crimine in generale, ma l’odore era così forte che persino a Will lacrimavano gli occhi.

    «Gary, puoi prendere le pinze a pappagallo più piccole nel furgone? Dovremo sbullonare il tavolo prima di rimuovere il corpo» disse Sara al suo assistente.

    La coda di cavallo di Gary ondeggiò sotto la retina per capelli mentre se ne andava, felice di farlo. Era al GBI da meno di sei mesi. Non era la peggiore scena del crimine che avesse analizzato, ma qualsiasi cosa che accadesse all’interno di un carcere rendeva tutto ancor più deprimente.

    Il flash della macchina fotografica di Charlie scattò. Will batté le palpebre per la luce.

    «Sono riuscita a dare un’occhiata al video delle telecamere di sorveglianza. Ci sono nove secondi che riprendono l’inizio della lite e arrivano fino al culmine della rissa. È allora che un soggetto non identificato si avvicina fuori dall’inquadratura, dietro la telecamera, e la mette fuori uso» spiegò Sara ad Amanda.

    «Non ci sono impronte digitali utilizzabili sul muro, sul cavo o sulla telecamera» aggiunse Charlie.

    Sara proseguì. «La discussione è cominciata nella zona anteriore della sala, vicino al banco. L’atmosfera si è scaldata piuttosto in fretta. Sei detenuti di una banda rivale si sono buttati nella mischia. Vasquez è rimasto seduto al tavolo d’angolo laggiù. Gli altri undici uomini di questo tavolo sono corsi davanti per vedere meglio. È stato allora che la telecamera è stata messa fuori uso.»

    Will valutò le distanze. La telecamera era in fondo, perciò nessuno di quegli undici sarebbe potuto tornare indietro senza essere visto.

    «Da questa parte.» Sara li condusse a un tavolo all’angolo. Dodici vassoi stavano davanti a dodici sedie di plastica. Il cibo era irrancidito. C’era del latte andato a male sulle superfici. «Vasquez è stato attaccato alle spalle. Un trauma da corpo contundente ha causato una frattura cranica depressa. L’arma era probabilmente un piccolo oggetto appesantito che lo ha colpito in velocità. La forza dell’impatto gli ha spinto la testa in avanti. Ci sono frammenti di quelli che sembrano essere i denti anteriori di Vasquez incastrati nel vassoio.»

    Will si voltò a guardare la telecamera. Pareva un’azione condotta da due uomini: uno aveva messo fuori uso la telecamera, l’altro aveva neutralizzato il bersaglio.

    La mascherina di Faith veniva risucchiata e gonfiata mentre respirava dalla bocca. «Il primo colpo era concepito per uccidere o per stordirlo?»

    «Non posso esprimermi sulle intenzioni. Il colpo è stato notevole. Non ho visto lacerazioni, ma sembra esserci una frattura depressa: l’osso fratturato si sposta all’interno comprimendo il cervello» rispose Sara.

    «Quanto è rimasto cosciente?» chiese Amanda.

    «In base alle prove possiamo dedurre che lo sia stato fino al momento del decesso. Non posso esprimermi sulle sue condizioni. Aveva la nausea? Sicuramente. La vista offuscata? Probabilmente. Era in sé? Impossibile dirlo. Ognuno reagisce in modo diverso a un trauma alla testa. Dal punto di vista medico, ogni volta che si parla di una lesione cerebrale, si sa solo quello che non si sa.»

    «Naturalmente.» Amanda aveva le braccia conserte.

    Anche Will le incrociò. Ogni muscolo del suo corpo era contratto. Sentiva la pelle tesa. Per quante scene del crimine avesse esaminato, il suo corpo non aveva mai accettato l’idea che trovarsi accanto a un essere umano assassinato brutalmente fosse un fatto naturale. Poteva reggere al puzzo del cibo avariato e degli escrementi. Ma il sentore metallico del sangue quando il ferro si ossidava gli sarebbe rimasto in gola per tutta la settimana seguente.

    «Vasquez è stato picchiato a terra. Tre molari a sinistra si sono spezzati alle radici, la mascella e l’orbita sinistre sono rotte. L’esame preliminare suggerisce la presenza di fratture costali a sinistra. Qui abbiamo tre serie di impronte di piedi, quindi dovete cercare due aggressori, entrambi probabilmente destrimani. La mia ipotesi è che abbiano usato un oggetto in un calzino per non procurarsi ferite evidenti alle mani» affermò Sara.

    L’oggetto nel calzino era con molta probabilità un lucchetto a combinazione.

    Sara continuò. «Dopo l’aggressione iniziale, in qualche modo Vasquez si è ritrovato a piedi nudi. Non abbiamo trovato le sue scarpe o le sue calze da nessuna parte nella mensa. Gli aggressori indossavano le sneaker del carcere con una suola quadrettata identica. Siamo riusciti a dedurre parecchio dalle impronte delle scarpe e dei piedi. Il luogo seguente in cui l’hanno portato è la cucina.»

    «Che mi dice di questo tatuaggio?» Amanda era dall’altra parte del locale, stava guardando la mano mozzata. «È una tigre? Un gatto?»

    Rispose Charlie. «Il database dei tatuaggi dice che la tigre può simboleggiare l’odio per la polizia, oppure poteva essere un ladro acrobata.»

    «Un detenuto che odia la polizia. Sbalorditivo.» Amanda ruotò la mano nella direzione di Sara. «Andiamo avanti, dottoressa Linton.»

    Sara li invitò a seguirla nella zona anteriore della mensa. Sul nastro trasportatore c’erano diversi vassoi vuoti, perciò almeno alcuni detenuti avevano terminato di pranzare prima che scoppiasse la rissa.

    «Vasquez era alto all’incirca un metro e settantatré e pesava sessantaquattro chili. Era denutrito, ma non è un fatto sorprendente, dato che faceva pesantemente uso di droga per endovena. Ci sono segni d’ago sul braccio sinistro, tra le dita del piede sinistro e all’altezza della carotide destra, quindi possiamo presumere che fosse destrimano. Nell’area di preparazione del cibo c’è una mannaia e anche un sacco di sangue, il che indica che la mano sinistra è stata mozzata là» spiegò Sara.

    «Non se l’è mozzata da solo?» domandò Amanda.

    Sara scosse la testa. «Improbabile. Le impronte delle scarpe dei piedi indicano che è stato immobilizzato.»

    «La quadrettatura delle sneaker non presenta segni distintivi. Come ha detto Sara, sono scarpe d’ordinanza. Ogni detenuto ne ha un paio» aggiunse Charlie.

    Sara aveva raggiunto il posto in cui Vasquez aveva trovato l’eterno riposo. Si accovacciò davanti a un altro tavolo. La seguirono tutti, tranne Amanda.

    Will dilatò le narici. Il corpo si stava putrefacendo al caldo da quasi due giorni interi. La decomposizione era più che avanzata. La pelle si stava scollando dalle ossa. Qualcuno aveva chiaramente cacciato il corpo sotto il tavolo con i piedi, togliendolo di mezzo come un mucchio di vestiti sporchi sotto il letto. Là dove almeno due uomini lo avevano spinto, si vedevano strisce di sangue e impronte quadrettate di scarpe.

    I piedi nudi di Vasquez erano incrostati di sangue. Era sul fianco, piegato all’altezza della vita, una mano allungata davanti a sé. Il moncone insanguinato, dove una volta c’era l’altra mano, era infilato nel ventre, nel senso letterale del termine. I suoi assassini lo avevano pugnalato tante volte che la pancia gli si era aperta come un fiore grottesco. Il polso era conficcato nella cavità addominale a mo’ di gambo.

    «In assenza di prove contrarie, la causa della morte è probabilmente il dissanguamento o lo shock.»

    Di certo quel tizio aveva un’aria scioccata. Gli occhi erano spalancati, le labbra aperte. Per il resto aveva un volto ordinario, se non consideravi il gonfiore e il segno scuro a mezzaluna là dove il sangue si era raccolto nel punto più basso del cranio. Testa rasata. Baffi da attore porno. Una croce appesa a una sottile catena d’oro al collo, consentita dal GDOC perché era un simbolo religioso. La catenina era fine. Forse un regalo della madre, di una figlia o di una fidanzata. Per Will era significativo che gli assassini gli avessero preso le scarpe e le calze, lasciando tuttavia la collana.

    «Merda. Quella è merda.» Faith si premette entrambe le mani sulla mascherina mentre le venivano i conati. L’intestino di Vasquez fuoriusciva dall’addome come una salsiccia cruda. Le feci si erano raccolte sul pavimento e si erano seccate, formando una massa nera grande quanto un pallone da basket sgonfio.

    «Vedi se hanno già recuperato il cellulare di Vasquez. In caso affermativo, voglio sapere chi lo ha fatto e cosa vi ha trovato. In caso negativo, farai tu gli onori» le disse Amanda.

    Faith non si faceva mai dire due volte di allontanarsi dal corpo di un morto.

    «Will.» Amanda stava già scrivendo sul telefono. «Finisci qui, poi inizia il secondo giro di interrogatori. Questi uomini hanno avuto abbastanza tempo per sistemare le loro versioni. Voglio risolverla in fretta. Non è un caso da ago nel pagliaio.»

    Will pensò invece che fosse proprio quel tipo di caso. C’erano all’incirca mille sospettati, tutti criminali noti. «Sì, signora.»

    Sara gli fece un cenno perché la seguisse in cucina. Si tolse la mascherina. «Faith ha resistito più a lungo di quanto credessi.»

    Anche lui se la tolse. La cucina era altrettanto in disordine. Vassoi, cibo e sangue erano sparsi dappertutto. I cartellini gialli di plastica sul tagliere da macellaio indicavano il punto in cui era stata mozzata la mano di Vasquez. Per terra c’era una mannaia. Il sangue si era riversato sul pavimento come una cascata.

    «Non ci sono impronte digitali sul coltello» gli disse Sara. «Hanno usato la pellicola trasparente sul manico e dopo l’hanno infilata giù nel lavandino.»

    Will vide che il tubo sotto il lavandino era scollegato. Il padre di Sara era idraulico. Lei sapeva destreggiarsi con i sifoni.

    «Tutto quello che sto trovando indica che hanno avuto la presenza di spirito di coprire le loro tracce» affermò.

    «Perché portare la mano nella mensa?»

    «L’ipotesi più probabile è che l’abbiano lanciata attraverso la sala.»

    Will cercò di formulare un’ipotesi su come si era svolto il crimine. «Quando è scoppiata la rissa, Vasquez è rimasto seduto al tavolo. Non si è alzato perché non apparteneva a nessuna banda.» I carcerati avevano la loro NATO. Un’aggressione a un alleato significava che eri in guerra. «Solo due uomini lo hanno assalito, non una banda.»

    «Questo restringe la rosa dei sospettati?» domandò Sara.

    «I detenuti tendono ad autosegregarsi. Vasquez non si sarebbe mescolato apertamente con quelli di altre razze.» Il pagliaio era diventato leggermente più piccolo. «Mi dà l’impressione di un crimine dettato dalle circostanze: se scoppierà una rivolta, sarà così che lo uccideremo.»

    «Il caos crea opportunità.»

    Will si sfregò la mascella studiando le impronte insanguinate dei piedi e delle scarpe sul pavimento. Vasquez aveva lottato disperatamente. «Doveva avere informazioni che loro volevano, giusto? Non mozzi la mano a qualcuno senza motivo. Lo immobilizzi, lo minacci e, quando non ti dà quello che vuoi, prendi una mannaia e gliela tagli.»

    «Così farei io.»

    Will sorrise.

    Lei ricambiò.

    Il telefono gli ronzò in tasca. Non rispose. «Era risaputo che Vasquez nascondeva i telefoni su di sé. Potrebbe essere questo il motivo per cui lo hanno sventrato?»

    «Non so se lo abbiano sventrato o più che altro pugnalato ripetutamente. Se avessero cercato un telefono, colpirlo alle costole con il lucchetto nel calzino avrebbe avuto una specie di effetto da manovra di Valsalva. C’è una ragione per cui le guardie carcerarie ti dicono di tossire quando ti chini. L’aumento della pressione addominale riduce la forza costrittiva dello sfintere. Il telefono sarebbe uscito al primo colpo» concluse Sara. «Inoltre, tagliargli il ventre non ha molto senso. Se cercassi un telefono nel tuo culo, guarderei nel tuo culo.»

    Il tempismo di Faith fu ineccepibile. «È un momento intimo?»

    Will prese il cellulare dalla tasca. La chiamata persa era sua. «Pensiamo che i killer di Vasquez cercassero qualcosa. Informazioni. Forse il nascondiglio di qualcosa.»

    «Il telefono di Vasquez era pulito. Niente contrabbando. A giudicare dalla sua collezione d’arte, era un patito di donne seminude e di nostro Signore Gesù Cristo.» Faith salutò Sara con la mano riportando Will nella mensa. Si mise le mani a coppa sul naso per proteggersi dall’odore. «Nick e Rasheed hanno ridotto la nostra lista di sospettati a diciotto. Nessuno con un omicidio volontario alle spalle, ma abbiamo due omicidi colposi e un morsicatore di dita.»

    «Proprie o altrui?»

    «Altrui» rispose Faith. «Guarda caso non ci sono dichiarazioni affidabili di testimoni, ma parecchie soffiate su assurde teorie del complotto. Sapevi che lo Stato profondo gestisce una rete di pedofili attraverso il sistema bibliotecario della prigione?»

    «Sì. Questo omicidio ti sembra una faccenda personale?» chiese Will.

    «Assolutamente sì. Cerchiamo due maschi ispanici più o meno della fascia d’età di Vasquez, nella cerchia interna del suo gruppo sociale?»

    Will assentì. «Quand’è stata l’ultima volta che hanno trovato un cellulare di Vasquez?»

    «Sedici giorni fa c’è stata una perquisizione in tutto il carcere. Il direttore ha portato qui otto squadre CERT per passare al setaccio le celle. L’ufficio dello sceriffo ha fornito dodici agenti. Colpisci e terrorizza. Nessuno lo aveva previsto. Sono stati confiscati più di quattrocento telefoni, forse duecento caricabatterie, i soliti stupefacenti e le solite armi, ma ovviamente il problema erano i telefoni.»

    Will sapeva di cosa stava parlando. I cellulari all’interno di un carcere potevano essere molto pericolosi, anche se non tutti i prigionieri li usavano per scopi nefandi. Lo Stato si prendeva una percentuale su tutte le chiamate da telefono fisso, pretendendo come minimo cinquanta dollari per una scheda telefonica, poi altri cinque per una chiamata di quindici minuti e quasi altri cinque ogni volta che aggiungevi soldi. Potevi d’altronde noleggiare un cellulare a conchiglia da un altro detenuto più o meno per venticinque dollari all’ora.

    E a quel punto subentravano gli scopi nefandi. Gli smartphone potevano essere utilizzati per ottenere informazioni personali sulle guardie carcerarie, dirigere le organizzazioni criminali con messaggi in codice, gestire racket di protezione per le famiglie dei detenuti e soprattutto raccogliere fondi. App come Venmo e PayPal avevano sostituito le sigarette e le patatine Shebangs come valuta nelle prigioni. Le bande più sofisticate usavano Bitcoin. La Fratellanza ariana, la mafia irlandese e la United Blood Nation facevano milioni attraverso il sistema carcerario statale.

    Disturbare il segnale dei cellulari era illegale negli Stati Uniti.

    Will tenne la porta per Faith mentre uscivano. Il sole picchiava sul cortile deserto. Vide alcune ombre dietro le finestre strette delle celle. Più di un uomo stava urlando. L’oppressione del regime di lockdown era quasi tangibile, come una vite che ti penetra lentamente nella testa.

    «L’amministrazione.» Faith indicò in lontananza un edificio a un piano con il tetto piatto. Presero l’itinerario lungo, usando i marciapiedi anziché attraversare l’argilla rossa compatta che veniva spacciata per cortile.

    Superarono tre guardie appoggiate al recinto, tutte con lo sguardo fisso. Non c’era niente da sorvegliare. Erano annoiate come i detenuti. O forse stavano aspettando il loro momento. Sei dei loro colleghi erano stati feriti nella rivolta. La categoria delle guardie carcerarie non era famosa per la capacità di perdonare e dimenticare.

    Faith tenne la voce bassa, dicendo: «Il direttore ha dato di matto per i telefoni. Le celle d’isolamento erano tutte già occupate. Ha sospeso l’ora d’aria nel cortile, chiuso lo spaccio, cancellato le visite, spento i computer e i televisori, ha persino chiuso la biblioteca. Per due settimane tutti quegli uomini non hanno potuto fare altro che darsi sui nervi a vicenda».

    «Sembra un modo intelligente per scatenare una rivolta.» Will aprì una porta. Attraversarono uffici con vetrate che davano sul corridoio. Tutte le sedie erano vuote. Al posto di scrivanie c’erano tavoli pieghevoli in modo che nessuno potesse nascondere niente. Gran parte delle mansioni amministrative erano svolte dai detenuti. Difficile trovare una tariffa migliore dei loro tre centesimi all’ora.

    L’ufficio del direttore non aveva una vetrata sul corridoio, ma Will riconobbe il tono ingannevolmente pacato di Amanda dall’altra parte della porta chiusa. Immaginò che quell’uomo fosse furioso. I direttori delle carceri non amavano essere messi sotto esame. Era un’altra ragione per cui aveva dato in escandescenze per i cellulari confiscati. Non c’era niente di più umiliante che sentire uno dei tuoi detenuti parlare in diretta con una stazione televisiva dall’interno della tua struttura.

    «Quante telefonate sono partite durante la rivolta?» chiese a Faith.

    «Una alla CNN e una a 11-Alive, ma c’era uno scandalo elettorale, perciò nessuno ci ha fatto caso.»

    Raggiunsero un corridoio lungo e largo con una fila ancora più lunga di detenuti. I loro diciotto sospettati di omicidio, suppose Will. Gli uomini erano stati disposti come tristi triangoli isosceli. Avevano la metà superiore del corpo piegata in avanti, le gambe dritte, le caviglie flesse, il peso appoggiato sulla fronte contro il muro, perché le guardie responsabili erano evidentemente due imbecilli patentati.

    Il protocollo di lockdown stabiliva che qualsiasi detenuto all’esterno della cella dovesse essere immobilizzato con quello che veniva chiamato abito a quattro pezzi. Manette ai polsi, attaccate davanti a una catena intorno al ventre. Ceppi alle caviglie fissati a un pezzo di catena di trenta centimetri, che gli impediva di eseguire il paso doble. Legato in quel modo e costretto a premere la fronte contro una parete in mattoni di calcestruzzo, avevi un sacco di pressione sul collo e sulle spalle. La catena al ventre aggiungeva ulteriore tensione al fondoschiena, dato che le mani cadevano in avanti per la gravità. A quanto pareva, i carcerati erano in quella posizione da parecchio. Il sudore colava sulle pareti. Will vide gli arti tremare. Le catene sferragliavano come centesimi in un’asciugatrice.

    «Gesù Cristo» borbottò Faith.

    Mentre Will la seguiva lungo la fila, notò una serie di tatuaggi fatti con il familiare tratto tremolante a inchiostro. Tutti i detenuti sembravano aver superato la trentina, il che era logico. Per esperienza Will sapeva che gli uomini sotto la trentina facevano un sacco di cose stupide. Se un tizio era ancora in carcere dopo la terza decade della sua vita, era perché aveva combinato un bel casino, era stato fregato alla grande o stava attivamente facendo quel genere di scelte sbagliate che lo tenevano nel sistema.

    Faith non si curò di bussare alla porta chiusa della stanza interrogatori. Gli agenti speciali Nick Shelton e Rasheed Littrell erano seduti al tavolo con una pila di cartelline di fronte a loro.

    «… ti dico che questa ragazza aveva un culo da centauro.» Rasheed smise di raccontare non appena Faith entrò. «Scusa, Mitchell.»

    Lei lo guardò male chiudendo la porta. «Non sono un mezzo cavallo.»

    «Cavolo, è questo che significa?» Rasheed rise bonario. «Come va, Trent?»

    Will sollevò il mento in segno di saluto.

    Faith passò in rassegna le cartelline sul tavolo. «Queste sono tutte le schede personali?»

    La scheda personale di un detenuto era in sostanza il diario della sua vita: i verbali degli arresti, i criteri della condanna, le indicazioni riguardanti il trasporto, le cartelle cliniche, la valutazione della sua salute mentale, la stima della sua pericolosità, il livello di istruzione, i programmi terapeutici, i registri delle visite, la storia disciplinare, le inclinazioni religiose, l’orientamento sessuale.

    «C’è qualche candidato promettente?» chiese.

    Rasheed li ragguagliò sui diciotto sospettati in corridoio. Will tenne la testa girata verso l’agente speciale come se stesse prestando molta attenzione, ma in realtà si stava prendendo un attimo per capire cosa dire a Nick Shelton.

    Anni prima, quand’era assegnato all’ufficio sudorientale del GBI, Nick aveva lavorato a stretto contatto con il marito defunto di Sara. Jeffrey Tolliver era stato capo della polizia della contea di Grant. Era un ex giocatore di football al college e a detta di tutti un duro. Alcuni verbali di Nick sui loro casi sembravano copioni di film. Jeffrey Tolliver era Lone Ranger e Nick Tonto, se Tonto avesse parlato come Garlo il Gallo e si fosse vestito come uno dei Bee Gees in una giornata di relax, con catene d’oro al collo e jeans fin troppo aderenti. I due avevano sgominato reti di pedofili, catturato narcotrafficanti e assassini. Jeffrey avrebbe potuto sfruttare le sue vittorie per ottenere uno stipendio molto più alto in una città più grande, invece aveva ignorato la fama e la gloria per servire la contea di Grant.

    Sara probabilmente lo avrebbe sposato una terza volta se non fosse morto al secondo giro.

    «È qualcosa su cui lavorare» commentò Faith. A differenza di Will aveva seguito il riassunto di Rasheed. «C’è altro?» chiese.

    «No.»

    Nick si grattò la barba alla Barry Gibb. «Prendete voi la stanza. Io e Rash abbiamo due o tre testimoni che vogliamo risentire.»

    Faith si sedette sulla sedia lasciata da Rasheed e iniziò a scegliere i sospettati più promettenti. Will vide che stava andando dritta ai moduli disciplinari. Credeva fermamente nel principio della storia che si ripeteva.

    Nick chiese a Will: «Cos’ha Sara in questi giorni?».

    Will passò titubante in rassegna tutta una serie di risposte umilianti prima di optare per: «È nella mensa. Dovresti raggiungerla».

    «Grazie, amico.» Prima di andarsene Nick gli diede una pacca sulla spalla che era per metà una stretta.

    Will fece fin troppo caso a quella stretta-pacca. Era un gesto a metà tra la presa vulcaniana e l’arruffare il pelo sul sedere di un cane.

    Faith attese il clic di chiusura della porta. «È stato sgradevole?»

    «Dipende da quale parte del cavallo arriva la domanda.» Will posò la mano sulla maniglia ma non aprì la porta. «Come ce la giochiamo? Non so se quei tizi si sentiranno a loro agio a essere interrogati da una donna.»

    «Forse hai ragione.» Sfilò una cartella dal mucchio. «Maduro.»

    Will aprì la porta. La guardia stava aspettando fuori. Lui tenne la voce bassa. «Togli gli uomini da quel muro prima che ti faccia pisciare i polmoni.»

    Lo sguardo dell’uomo guizzò su Will, ma come gran parte dei bulli era un codardo. Si voltò verso i prigionieri urlando: «Detenuti! A terra!».

    Ci furono gemiti collettivi di liberazione. Gli uomini dovettero scollarsi dalle pareti di blocchi di calcestruzzo. Avevano tutti una chiazza di un rosso vivo sulla fronte e uno sguardo vitreo negli occhi. Qualcuno faticò a sedersi. Altri semplicemente si buttarono a terra per il sollievo.

    «Maduro, tocca a te» esclamò Will.

    Un uomo basso e tarchiato si bloccò a metà. Ruotò su un piede e le sue caviglie si impigliarono nella catena corta. Trenta centimetri non erano molti, approssimativamente la lunghezza di due banconote da un dollaro messe l’una davanti all’altra. Aveva un’andatura rigida e innaturale. Sollevò la catena attorno al ventre per evitare che gli si conficcasse di continuo nelle anche. C’erano minuscole gocce di sangue là dove il mattone di calcestruzzo gli aveva abraso la fronte. Superò a poco a poco la soglia e attese davanti al tavolo.

    Le prigioni della Georgia venivano gestite con un sistema paramilitare. A meno che non fossero incatenati, i detenuti dovevano camminare con le mani strette dietro la schiena. Dovevano stare dritti in piedi. Tenere le celle perfettamente pulite e la branda rifatta con cura. Fatto più importante, dovevano rivolgersi alle guardie con rispetto: sì signore, no signore, posso grattarmi le palle, signore?

    Maduro stava guardando Will in attesa di sentirsi dire cosa doveva fare.

    Lui incrociò le braccia sul petto e lasciò il comando a Faith, perché quei tizi erano sospettati di omicidio. Non spettava a loro scegliere chi li avrebbe interrogati.

    «Siediti» ordinò lei. Verificò il documento e la fotografia del carcerato. «Hector Louis Maduro. Stai scontando quattro anni per una serie di furti con scasso. Ti si prospettano altri diciotto mesi per aver preso parte alla rivolta. Ti hanno letto i tuoi diritti?»

    «Español.» L’uomo si appoggiò pesantemente allo schienale. «Tengo derecho legal a un traductor. O te podrías sacar la camisa y te chupo esas tetas grandes.»

    Il padre di Emma era un messicano-americano di seconda generazione. Faith aveva imparato lo spagnolo per poterlo fare incazzare in due lingue. «Yo puedo traducir por ti, y puedes hacerte la paja con esa verguita de nada cuando vuelves a tu celda, pendejo de mierda.»

    Maduro inarcò le sopracciglia. «Accidenti, viso pallido, non ti insegnano queste porcherie nelle scuole per ragazze bianche.»

    Faith andò al punto. «Sappiamo che eri legato a Jesus Vasquez.»

    «Senti.» Maduro si protese, le mani strette al bordo del tavolo. «Ci sono un sacco di carcerati qui che ti diranno che sono innocenti, ma io non lo sono, okay? Ho commesso quei furti per cui sono stato condannato, però ti dico una cosa: in questo istituto ho visto un sacco di ingiustizie; da parte del personale sui detenuti, da parte dei detenuti sui detenuti, e devo dirti che sono un cristiano, quello che è giusto è giusto, quello che è sbagliato è sbagliato, perciò quando ho visto quei carcerati unirsi per un fine comune, per inculcare e garantire i diritti umani di…»

    «Lascia che interrompa il tuo TED talk» fece Faith. «Conoscevi Jesus Vasquez?»

    Lo sguardo di Maduro guizzò nervoso verso Will.

    Lui mantenne un’espressione neutra. Aveva imparato negli interrogatori che il silenzio era molto efficace per stimolare una conversazione.

    «In passato sei stato scoperto con un cellulare. Dal tuo file risultano due violazioni perché ti sei messo a discutere con…»

    Nick entrò a precipizio nella stanza. Aveva chiaramente corso. Il sudore gli colava dalle basette. In pugno stringeva un foglio spiegazzato. «Fuori, detenuto» disse a Maduro.

    Faith rivolse a Will uno sguardo interrogativo. Lui scrollò le spalle. Nick era agente da vent’anni. Aveva visto di tutto, dalle efferatezze alle stupidaggini. Se era scosso per qualcosa, avrebbero dovuto esserlo tutti.

    «Muoviti.» Nick spinse Maduro verso la guardia in corridoio. «Rimetteteli in cella.»

    La porta si chiuse. Nick non parlò. Lisciò il biglietto sul tavolo. Il sudore gocciolò sulla carta. Aveva il respiro affannoso.

    Faith lanciò a Will un altro sguardo interrogativo.

    Lui le rivolse la stessa scrollata di spalle di cinque secondi prima.

    Faith aprì la bocca per cavargli informazioni, ma Nick iniziò a parlare.

    «Un detenuto di nome Daryl Nesbitt mi ha passato questo biglietto. Vuole fare un patto. Dice che sa chi ha ucciso Vasquez e come portano dentro i cellulari.»

    Questa volta fu Will a guardare Faith con aria interrogativa. Era uno sviluppo molto positivo. Allora perché Nick aveva un’aria così terrorizzata?

    Faith ebbe la presenza di spirito di chiedergli: «Cos’altro dice il biglietto?».

    Nick non glielo disse, il che fu ancora più strano. Girò invece il foglio e glielo avvicinò.

    Lei scorse le parole leggendo a voce alta le parti importanti. «Vuole fare un accordo. Sa dove vengono nascosti i telefoni…»

    «Terzo paragrafo» affermò Nick.

    Faith lesse: «Sono vittima di un complotto delle forze dell’ordine di provincia che mi hanno sbattuto in carcere per il resto della mia vita per un crimine che non ho commesso».

    Will non guardò la lettera al di sopra della spalla di Faith. Guardò la faccia di Nick. Era l’emblema del conflitto interiore. L’unica cosa di cui sembrava sicuro era il fatto che non avrebbe guardato nella direzione di Will.

    Faith proseguì. «Quella contea di merda era un inferno. Hanno aggredito una studentessa bianca del college. Il campus era in grande allerta. Nessuna donna si sentiva al sicuro. Il Capo doveva arrestare qualcuno. Uno qualunque. Altrimenti avrebbe perso il posto. Si è inventato un pretesto per darmi la caccia.»

    Faith si voltò a guardare Will. Aveva chiaramente letto più avanti e non le piaceva dove stava andando a parare.

    Will mantenne lo sguardo fisso su Nick, che d’un tratto fu preso dalla smania di togliere le macchie dalle punte ornate di metallo dei suoi stivali blu da cowboy. Will lo guardò prendere un fazzoletto, chinarsi e lucidare l’argento come un lustrascarpe.

    Faith continuò a leggere. «Sono un uomo innocente. Non sarei qui se non fosse per quello stronzo corrotto di poliziotto e per il suo dipartimento ancora più stronzo e corrotto. Tutti nella contea di Grant hanno creduto alle fottute bugie del Capo.»

    Faith lesse ancora, ma Will aveva sentito tutto ciò che aveva bisogno di sapere.

    Il college. La contea di Grant. Il Capo.

    Nesbitt stava parlando di Jeffrey Tolliver.

    2

    Faith dovette usare la toilette degli uomini perché raggiungere l’unico bagno delle donne implicava camminare dieci minuti fino all’ala visite. Si lavò le mani nel lavandino dall’aspetto viscido. Si spruzzò un po’ d’acqua fredda sulla faccia. Le ci sarebbe voluta una paglietta Brillo per togliersi la sporcizia della prigione dai pori.

    Anche all’interno dell’edificio amministrativo l’aria era pregna di disperazione. Udiva gridare nel reparto di isolamento. Piangere. Gemere. Supplicare. Sentiva la pelle formicolarle, una reazione alla lotta tra gli istinti di combattere e fuggire. Fin dal momento in cui aveva varcato il cancello era stata incline a fuggire. Il suo lavoro comportava essere gran parte dei giorni l’unica donna in una stanza. Essere l’unica donna in un carcere maschile era tutt’altro paio di maniche. Non poteva allontanarsi troppo dagli uomini che sapeva essere i buoni. E per buoni intendeva quelli che non l’avrebbero stuprata in gruppo.

    Si scrollò l’acqua dalle mani scacciando la paura. Tutta la sua energia mentale doveva essere rivolta a Daryl Nesbitt, perché non avrebbe sconvolto la vita di Sara per gli sporchi giochetti di un detenuto che voleva attenzione.

    Aprì la porta. Nick e Will erano entrambi impassibili. Capì che non si erano parlati, perché che motivo c’era di parlare quando potevano rimuginare in silenzio?

    Disse: «Questo pezzo di merda di Nesbitt dev’essere uno che spara cazzate, giusto? È un carcerato. Non è mai colpa loro. Loro sono sempre innocenti. La polizia è sempre corrotta. Che si fotta. Sbaglio?».

    Nick fece un cenno, che in realtà non era tale, di assenso.

    Will era torvo.

    «Cosa sai di Nesbitt?» chiese Faith a Nick.

    «So che è stato condannato per pedofilia, ma non ho controllato a fondo la sua scheda personale.»

    Torchiare Daryl Nesbitt sarebbe stata la sua prima mossa, non sarebbe corsa subito in giro come una mosca senza testa.

    «Perché?» disse.

    Osservò la mandibola di Nick sporgere come un gozzo sul lato del suo viso. Quella era la ragione per cui Will era torvo. Nick non sarebbe stato così agitato se fosse stato convinto che Daryl Nesbitt stesse mentendo. Non sarebbe entrato come un missile nella stanza interrogatori. Non avrebbe avuto la pelle color dell’acqua di cottura degli hot dog. Ogni suo comportamento fino ad allora era come un’enorme insegna al neon con una freccia lampeggiante puntata sulle parole: PUÒ DARSI!

    «Leviamoci il pensiero.» Faith si incamminò in corridoio. Non si curò di interpellare Will. Sapeva che non si sarebbe lanciato in un discorso sentito. In base all’esperienza poteva azzardare un’ipotesi su ciò che gli stava passando per la mente. Stava cercando di capire come nascondere tutto questo a Sara.

    Faith approvava totalmente il complotto del silenzio. Accidenti, Sara aveva visto morire suo marito cinque anni prima. Si

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