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La notte dei delitti
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E-book444 pagine5 ore

La notte dei delitti

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Info su questo ebook

Bestseller del New York Times e di USA Today
Dall'autore del thriller La donna senza nome

Nella remota cittadina di Canaan, nel Vermont, una contesa giudiziaria scuote i sentimenti di pace e amicizia all’interno della piccola comunità. Le tensioni crescono e si risvegliano paure e pregiudizi. Persino gli amici di una vita si ritrovano a scontrarsi l’uno contro l’altro ed è solo questione di tempo prima che la violenza esploda. Quando il corpo di una ragazza adolescente viene ritrovato brutalmente massacrato proprio nella casa di uno degli avvocati coinvolti nel processo, la detective Sonja Test si convince che i due casi siano collegati. Più la giovane e inesperta detective scava a fondo nell’indagine per l’omicidio e più emergono segreti inquietanti, rimasti nascosti per decenni. Da subito appare chiaro che, dietro la facciata idilliaca del paesino immacolato, si nasconde in verità una fitta rete di menzogne, intrighi e perversione. Se davvero vorrà salvare altre vite innocenti, Sonja Test dovrà mettere a repentaglio la sua stessa vita. 

In una tranquilla cittadina del Vermont indicibili orrori del passato possono arrivare a distruggere un’intera comunità

«Avvincente e con un epilogo impossibile da indovinare: il thriller perfetto.»

«Appassionante. Intelligente. Inaspettato. Sorprendente. I lettori saranno contenti di questo straordinario viaggio.»

«Un altro bestseller assicurato di un maestro del genere.» 

Eric Rickstad
Vive nel Vermont con la moglie e la figlia. Con il suo romanzo d’esordio ha ottenuto negli Stati Uniti un immediato successo, tanto da diventare un autore bestseller del «New York Times». La Newton Compton ha pubblicato Le ragazze silenziose e La donna senza nome.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2019
ISBN9788822734778
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    Anteprima del libro

    La notte dei delitti - Eric Rickstad

    Parte prima

    Capitolo uno

    Novembre 2010

    Victor Jenkins fissava il fuoco fuori dal capanno per la produzione dello sciroppo d’acero di Jed King, pregando di trovare la forza.

    Lester Graves, uno del posto, e Daryn Banks, del New Hampshire, pregavano in silenzio di fronte a lui. Brave persone. Persone di fede, pensava Jenkins.

    Ciascuno di loro indossava una camicia a quadri, un paio di jeans e scarponi da lavoro con la punta rinforzata. Quelli di Victor erano nuovi di zecca, acquistati il giorno stesso da Payless. Nonostante li avesse sfregati con del terriccio per smorzarne la patina lucida, erano ancora troppo rigidi e gli avevano provocato le vesciche ai piedi. Gli scarponi degli altri due erano ben consumati, con la punta in pelle battuta, attraverso la quale brillava il rinforzo di acciaio.

    «Quelle scarpe ti faranno vedere le stelle», abbaiò Jed King, sbucando dall’oscurità in tutta la sua mole. Batté una grossa mano sulla spalla di Victor e la strinse con troppa forza, tanto da fargli male.

    Poi si scolò la birra fino all’ultima goccia, ruttò, accartocciò la lattina e la gettò sul mucchio di cadaveri vuoti accatastato tra le fiamme. Agguantò una lattina fresca dalla borsa frigo, la aprì, soffiò la schiuma dal bordo e ne tracannò una bella sorsata. Infine si leccò i baffi a manubrio.

    «Venite», ordinò.

    I tre uomini lo seguirono, con Victor a chiudere la fila strascicando i piedi.

    King aggirò il capanno con passo deciso verso una vecchia legnaia. Una luce a sensore di movimento si accese, illuminandone a giorno la parete laterale. Victor trasalì per l’improvviso bagliore accusatorio. King aveva preso a cuore la definizione fare il re del castello, dotando la proprietà delle tecnologie più all’avanguardia. L’illuminazione a sensori era solo uno dei tanti esempi. Aveva anche piazzato telecamere nascoste lungo il sentiero d’accesso e la fitta recinzione che circondava la proprietà. Le telecamere registravano video e immagini di chiunque ne violasse l’accesso. Victor lo sapeva perché King aveva chiesto proprio a lui di installarle.

    A volte Jenkins pensava che tanta puntigliosità rasentasse la paranoia, ma la comprendeva. Con i tempi che correvano, non si era mai abbastanza prudenti nel compiere la volontà di Dio. Quella sera era proprio una di quelle occasioni. Lo colpiva la fedeltà di King a una causa tanto impopolare quanto nobile. Victor pregò in silenzio di trovare la forza necessaria.

    King pescò un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni da lavoro e aprì il lucchetto della baracca.

    All’interno, contro la parete in fondo, era impilata una serie di cartelli affissi ai paletti per le piante di pomodoro. King ne afferrò uno, prese un martello, uscì fuori e lo conficcò a fondo nel terreno, quasi volesse piantarlo nel cuore di un vampiro.

    Lo raddrizzò e fece un passo indietro per leggere a voce alta:

    TAKE BACK VERMONT

    «Ridateci il Vermont. Bello», commentò Graves.

    King incrociò le braccia al petto, quasi stesse ammirando un’opera d’arte. I bicipiti bestiali tendevano il tessuto della maglietta, mentre sull’avambraccio spiccava il tatuaggio 18:22.

    «Caricate gli altri», ordinò.

    Victor sistemò cartelli e martello sul sedile posteriore della Cavalier arrugginita della moglie, il baule troppo stipato di attrezzature sportive per fare posto anche a quelli. Poi caricò la parte di King sulla sua Chevy Extended Cab nuova di zecca. King sceglieva solo il meglio per sé, Victor non poteva che ammirarlo. Quell’uomo non avrebbe mai saputo come ci si sentiva a vedersi puntare contro l’indice accusatorio delle madri, quando le informava che i figli non erano all’altezza di entrare nella squadra di football o baseball. King non conosceva le parole carriera o stipendio. Lavorava in proprio. Non prendeva ordini da nessuno, eccetto Dio, che temeva con riverenza. Aveva modi rozzi, certo, che facevano di lui un uomo spesso incompreso dai laici e da chi preferiva un’interpretazione più indulgente della Bibbia.

    «King non si prostrerebbe mai davanti a quelle madri», si lamentava spesso Victor con Fran, ogni volta che con la nuova stagione sportiva affrontava l’inevitabile tirata al vetriolo di qualche madre.

    «Ma Jed King ha già divorziato due volte», rispondeva sempre lei. «Che razza di uomo di Dio sarebbe? Nemmeno i suoi figli lo sopportano, dicono. Sei più uomo tu di quanto lui non sarà mai».

    Cara, dolce Fran. La vera àncora di Victor. Tanto tempo prima era stata lei, con l’aiuto del Signore, a salvarlo. Senza nemmeno sapere fino a che punto. Che Dio la benedicesse.

    «Vic», abbaiò King dall’interno della legnaia. «Piantala di sognare a occhi aperti e vieni qui».

    Victor si precipitò dentro.

    King era in piedi davanti a un tavolino pieghevole, sul quale era stesa una cartina dettagliata della cittadina di Canaan.

    «La fine degli abomini di questo Stato avrà inizio stasera. Non possiamo permetterci di tollerarli oltre», annunciò. Lanciò un’occhiata a Vic. «È l’unica cosa sulla quale io e le mie ex siamo d’accordo. Questa erosione della moralità. Con la mia prima moglie ci sforziamo di insegnare a nostro figlio ciò che è giusto e lui viene bullizzato. Non solo dai compagni. Ma dagli insegnanti e dal preside, contrariamente al loro ruolo».

    «Gesù», esclamò piano Graves, con timore reverenziale.

    «Gesù non ha niente da spartire con le loro macchinazioni diaboliche», replicò King. «Mio figlio porta a scuola un libro sulla caccia al cervo per mostrarlo alla classe e gli insegnanti gridano: Crudeltà verso gli animali!. Poi però gli sbattono in faccia i loro libri sulle famiglie con due padri e io non posso dire un accidente. Io devo tollerare. Vuoi peccare in camera da letto, deviare la mente di tuo figlio a casa tua? Non posso certo impedirtelo. Ma non diventerà parte del programma della scuola che io stesso contribuisco a finanziare, eliminando invece tradizioni che esistono da sempre, come il Natale».

    «Succede la stessa cosa nel New Hampshire», aggiunse Banks.

    Victor annuì. «Mio figlio è stato ripreso per aver ricevuto degli auguri di San Valentino, perché ha ferito i sentimenti degli altri compagni. Oggigiorno essere popolari non è più consentito. I ragazzi non possono nemmeno scambiarsi bigliettini tra innamorati».

    «Come se la passa tuo figlio?», domandò Graves.

    «È un ragazzo fortunato», rispose Victor raggiante. «Ma lavora sodo per quella fortuna. Adesso è a casa da solo, il naso infilato nel libretto degli schemi di gioco per…».

    «Sappiamo tutto del tuo ragazzo d’oro», tagliò corto King. Puntò l’indice sulla mappa, si scolò la birra e lanciò la lattina nell’immondizia. «Mettiamoci all’opera».

    «Prima vorrei dire una preghiera», propose Victor e chinò il capo per pregare di nuovo, stavolta apertamente, affinché ognuno di loro trovasse la determinazione necessaria per affrontare la prova che li attendeva.

    Capitolo due

    Finalmente il bambino dormiva e Jessica Cumber, costantemente irrequieta e ansiosa di occupare il tempo, decise di caricare una lavatrice prima che rientrassero i padroni di casa. Non avrebbero tardato molto. Il signor Merryfield non era stato bene di stomaco negli ultimi giorni e quella era la prima sera che usciva da una settimana.

    Jessica lo adorava. In segreto, naturalmente. Era così maturo. Lei provava una grande attrazione per la maturità. In più, il signor Merryfield era una star. Compariva sempre in tv per via di quello che era ormai noto come il caso.

    I compagni di scuola di Jessica, gli insegnanti perfino, la torchiavano di domande. Lei non ne sapeva niente e comunque non avrebbe mai tradito il suo datore di lavoro. Anche se a volte, doveva ammetterlo, le piaceva attirare l’attenzione lasciando intendere di avere informazioni di prima mano sul caso.

    Mentre saliva l’elegante scalinata del vecchio caseificio, le gorgogliò lo stomaco. Si augurò di non avere contratto lo stesso virus del padrone di casa. In una cittadina piccola come Canaan, le malattie si diffondevano in fretta.

    Jessica si fermò sul pianerottolo, si sostenne al corrimano di mogano e sbirciò oltre la balaustra. Impazziva per quella scala di legno, che scendeva con grazia verso l’atrio sontuoso. La luce esterna della luna piena illuminava le finestrelle della porta d’ingresso inondando il pavimento di marmo, quel marmo estratto da giovani operai del posto, ormai defunti da almeno un secolo. I termosifoni di ferro emettevano sibili e rumori metallici. Jessica rabbrividì. Immaginava che l’impianto idraulico fosse il sistema circolatorio del caseificio, con l’acqua che scorreva nei tubi come sangue caldo e schiumoso.

    Si sfilò le scarpe da ginnastica e imboccò il corridoio scalza, le braccia tese di lato con le unghie che stridevano sul rivestimento in legno della parete.

    Arrivata alla camera da letto padronale, batté contro lo stipite della porta, poi con una mossa teatrale accese la luce. Ta-dah! Ogni volta che lo faceva, rimaneva allibita per l’enormità di quella stanza. Sarebbe stata in grado di contenere l’intera casa mobile di sua madre. Il soffitto, talmente alto che serviva la scala anche solo per cambiare una lampadina, sfoggiava ancora i decori originari in metallo pressato e la modanatura bianca della cornice era così lucida da sembrare appena verniciata. Dalle pareti erano stati rimossi decenni di imbiancature per riportare alla luce il rivestimento in legno di mogano. Jessica conosceva quei particolari perché la signora Merryfield glieli aveva confidati quando le aveva mostrato la casa in occasione del colloquio; Jessica aveva pregato e sperato per tutto il tempo di avere la fortuna di essere assunta come babysitter proprio in quella casa. Per quell’uomo e la sua famiglia.

    E adesso, eccola lì.

    Un sogno diventato realtà.

    Quando aveva raccontato alla madre di quella maestosa dimora, lei le aveva risposto: «Non sarei mai capace di vivere in un posto del genere».

    «Io imparerei subito», aveva proclamato Jessica.

    Ora avanzava in punta di piedi verso il letto matrimoniale con il telaio a slitta, il tappeto soffice che frusciava sotto i suoi piedi nudi, fresco e morbido come un manto erboso. Il bordo del materasso le arrivava alle costole. La struttura era dello stesso mogano delle pareti… virile, nonostante la trapunta, come le lenzuola, fosse floreale e vaporosa: très feminine. Di recente, Jessica si era innamorata dello stile provenzale. Un giorno sarebbe andata in Provenza. Stava mettendo da parte i soldi guadagnati con il lavoro di babysitter proprio per quello scopo, e per il college, naturalmente. E poi ancora per la facoltà di Veterinaria.

    Jessica si era sdraiata solo una volta su quella sontuosa trapunta. Per poco e, contrariamente ai suoi princìpi, con il suo fidanzato.

    Fidanzato.

    Oh. Quanto le piaceva come suonava! Così raffinato. Così maturo. Anche se il suo fidanzato, in realtà, non era nessuna delle due cose.

    Quando si era sdraiata sul materasso, in quell’unica occasione, si era sentita come Riccioli d’oro quando aveva trovato il letto proprio perfetto. Non si sarebbe mai più voluta alzare.

    Jessica attraversò la stanza per recuperare la biancheria sporca dal bagno della camera padronale. Indugiando a rimirarsi davanti allo specchio del comò, le parve di udire il rumore della porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva.

    L’acqua calda gorgogliò nei caloriferi.

    Jessica inclinò il capo.

    Il silenzio le rimbombava nelle orecchie.

    Tornò sul pianerottolo e guardò oltre la balaustra.

    I caloriferi emisero un rumore metallico.

    La porta principale non era chiusa a chiave, come tutte le porte delle case di Canaan. Quello era il Vermont, dopotutto.

    I caloriferi tacquero. Il vecchio caseificio piombò in un silenzio da monastero.

    «C’è qualcuno?», chiamò Jessica, la voce che riecheggiava nell’atrio di marmo.

    La casa non rispose.

    Il bambino, pensò di colpo la ragazza. C’era qualcosa che non andava. Jessica se lo sentiva, e la nausea le risalì dallo stomaco infiammandole la gola come un acido.

    Si precipitò lungo il corridoio fino alla stanza del piccolo e si fermò sulla soglia, senza fiato. Il cuore le sfarfallava dietro le costole esili.

    Dalla cameretta non giungeva il minimo suono.

    Jessica raggiunse la culla in punta di piedi, terrorizzata, senza curarsi di accendere la luce.

    Arrivata al lettino, inspirò a fondo e abbassò lo sguardo.

    La culla era vuota. Il bambino era sparito. Lo sapeva. Mentre gli occhi si abituavano all’oscurità scorse, lì dentro la culla, nel bagliore fioco, sotto la giostrina girevole di antilopi saltellanti, il piccolo Jon, perfettamente immobile ma vivo. Dormiva.

    «Oh», esclamò Jessica, appoggiandosi al lettino con un sospiro di sollievo. «Oh, Dio, ti ringrazio». Si baciò la punta delle dita e le avvicinò alla fronte tiepida di Jon. Tornò al pianerottolo e puntò lo sguardo verso la porta d’ingresso, chiusa ma non a chiave.

    «Non c’è nessuno», sussurrò alla casa vuota. Le tornarono alla mente le parole della madre: «Non puoi rimettere a nuovo un posto vecchio come quello. Per quanto tu lo abbellisca. Rimarrà sempre pieno di spifferi. Di lamenti e cigolii notturni. Spettrale».

    Jessica rientrò nella camera da letto padronale.

    Una corrente fredda attraversò il pavimento. Rabbrividì, rimpiangendo di essersi tolta le scarpe. Intirizzita com’era, la trapunta le parve ancora più invitante. Avrebbe potuto schiacciare solo un pisolino e poi rimetterla a posto. Chi se ne sarebbe accorto? Affondò la mano sul piumone e salì sul letto. Mentre si sdraiava, qualcosa le pungolò il fianco. Tastò la trapunta e ne tirò fuori un oggetto di plastica dura. Un vibratore. Lo gettò via come se l’avesse punta una vespa e balzò a sedere.

    Un mese prima, il suo fidanzato le aveva mostrato sul computer portatile del signor Merryfield un sito internet che vendeva stimolatori femminili di ogni forma e dimensione. Quando Jessica li aveva definiti in quel modo e gli aveva ordinato subito di chiudere la pagina, lui le aveva dato della pudica. «Sei così ingenua», le aveva detto. «Ma ci penso io a corromperti. Scommetto che i Merryfield nascondono giochini erotici dappertutto».

    «Non chiamarli giochini», lo aveva rimproverato. «E poi loro non sono così».

    «Siamo tutti così», aveva replicato lui.

    Jessica avrebbe voluto protestare, ma lui era molto più preparato sull’argomento. Faceva parte del suo fascino, no? La sua età? La sua esperienza? E la conseguente segretezza.

    Per un attimo, Jessica si chiese se avesse provocato lui il rumore che aveva sentito poco prima, intrufolandosi in casa di nascosto. Forse aveva aspettato che andasse a controllare il bambino, aveva infilato il vibratore nel letto ed era sgusciato fuori di nuovo, per dimostrarle di avere ragione? Gli piaceva tanto giocarle quel tipo di scherzi. Doveva sempre avere ragione lui. Era una specie di malattia. E gli piaceva spaventare la gente. Lei, soprattutto. Era un aspetto inquietante della sua natura. Si divertiva proprio da morire. A terrorizzarla. Cosa ci trovava di tanto divertente? A nessuno piaceva prendere un colpo. Ma più Jessica si spaventava e più lui rideva. A volte, rifletté la ragazza, l’età non corrispondeva alla maturità; soprattutto quando si trattava del genere maschile. Ciononostante, lei lo amava.

    Quanto lo amava.

    Quella volta, però, lo aveva respinto e gli aveva fatto chiudere il laptop del signor Merryfield. Non le avevano dato il permesso di usarlo. Per tutta risposta il suo fidanzato si era messo a baciarla. Ogni volta che smettevano di parlare, o c’era un momento morto, lui si avvicinava e la baciava, come se il silenzio equivalesse al consenso.

    Poi l’aveva portata al piano di sotto, sul divano, ed era finito sopra di lei. Di nuovo. Il suo peso premuto addosso. Il proprio odore sempre più intenso. Gli si era concessa. Dopodiché, come al solito, si era sentita in colpa, delusa da sé stessa, perché stava mettendo a rischio il proprio futuro, la facoltà di Veterinaria, la carriera professionale in un allevamento di cavalli, la casa delle vacanze in Provenza, tutto per uno stupido momento d’egoismo.

    Quando poi la Land Rover dei Merryfield aveva parcheggiato davanti all’ingresso, i fari puntati verso il salotto, il suo fidanzato era sgattaiolato fuori dalla porta laterale giusto in tempo, lasciandole l’impressione di sentirlo pulsare ancora dentro di lei, mentre il padrone di casa entrava dalla porta principale chiedendo: «Nessun problema stasera?».

    Jessica si trascinò fuori dal letto matrimoniale con un sospiro.

    In bagno, si lavò le mani. Prese dal cesto della biancheria sporca una bracciata di indumenti, li infilò nella bacinella e li portò fuori dalla stanza.

    Per precauzione, con il recipiente postato sul fianco, gridò verso la scala: «Scendo a fare la lavatrice! Se ti trovo di sotto e mi fai spaventare, giuro su Dio che ti uccido».

    Al piano terra, chinò il capo per non sbattere contro la trave del soffitto mentre imboccava le scale della cantina, i gradini che scricchiolavano come se i chiodi volessero cedere da un momento all’altro sotto il suo peso facendo collassare le assi.

    La vecchia porta alle sue spalle cominciò a richiudersi, come sempre.

    Arrivata in fondo, Jessica dovette incurvarsi sotto le travi basse e correre verso l’angolo della stanza prima di perdere del tutto il fascio di luce che filtrava dall’alto. Strattonò una cordicella collegata a una lampadina solitaria appesa al soffitto. Il bulbo irradiò un bagliore giallastro e pallido che fu presto fagocitato dall’ambiente cupo senza finestre. Le fondamenta di pietra trasudavano e sembravano pulsare nell’oscurità. L’aria era opprimente e appiccicosa e puzzava di muffa. Il pavimento di terra e pietra era scivoloso e freddo sotto i piedi nudi. Jessica vide un topo, morto in una trappola, gonfio, con il collo spezzato, gli occhi fuori dalle orbite. Sua madre aveva ragione: era impossibile rimettere a nuovo un posto simile. Chinò la testa sotto le travi portanti. Le ragnatele le si impigliarono tra i capelli. I Merryfield avevano programmato di trasformare in lavanderia la dispensa della cucina, ma erano sorti dei problemi con l’impianto idraulico.

    Non c’era da stupirsi se preferivano che lei non si occupasse del bucato in quello scantinato, angusto e umido come una tomba, con le fondamenta pericolanti in bella vista, sulle quali si ergeva la fascinosa dimora.

    La lavatrice e l’asciugatrice giacevano al centro del patetico alone giallo proiettato dalla lampadina. Sulla mensola di legno appesa storta sopra gli elettrodomestici, c’era una vecchia radio. Jessica l’accese, armeggiando con la manopola fino a sintonizzarsi su un’allegra melodia pop trasmessa da una stazione di Montréal.

    Sull’asciugatrice era ammucchiata una pila di indumenti da uomo sporchi. Jessica prese un paio di pantaloni eleganti del signor Merryfield, controllò che non ci fossero monete o penne nelle tasche. Con attenzione, spruzzò lo smacchiatore sulla chiazza di cioccolata sbavata sulla parte anteriore fino a farlo assorbire completamente, come da istruzioni. Le piaceva occuparsi del bucato. Le piaceva sconfiggere le macchie ostinate. Più erano ostinate, più era dolce la sua vittoria. Prese una delle camicie del padrone di casa e la avvicinò al naso, inspirando a occhi chiusi.

    Profumava del suo dopobarba e di fumo di sigaro, sì.

    Ma anche di lui.

    Del suo corpo.

    «Jon», sussurrò.

    Adorava il suono di quel nome sulla lingua.

    Jon.

    Pronunciarlo le provocava un formicolio lungo la spina dorsale.

    Jon.

    Jessica infilò i pantaloni e la camicia nella lavatrice, versò un misurino preciso di detersivo, chiuse il coperchio e avviò il lavaggio a freddo.

    Controllò l’asciugatrice. La biancheria all’interno era umida. Avviò anche il programma di asciugatura.

    Mentre piegava una camicia sul ripiano della macchina, le parve di udire lo scricchiolio di uno scalino. Le parve anche di intravedere uno scorcio di luce dal piano superiore, come se la porta della cantina fosse stata aperta. Ma era difficile dirlo con certezza. Si vedeva a malapena oltre il cono luminoso che la avvolgeva. La lavatrice produsse un tonfo. Jessica riprese a piegare la camicia.

    Di nuovo quel rumore. Jessica strizzò gli occhi nell’oscurità. Sentì il sangue surriscaldarsi. «C’è qualcuno?». Nessuna risposta. «Se sei tu, di’ qualcosa. Non mi spaventare così!».

    Un altro rumore. Qualcuno che si schiariva la voce?

    Poi… Niente.

    Si sentì soffocare.

    Doveva uscire da lì. Subito.

    Glielo ordinava una sorta di istinto animale: Esci subito da questa casa. Adesso. Scappa.

    Ma dove? Non c’era via di fuga verso le scale.

    La botola, gridò la voce nella sua testa.

    Spostandosi furtiva nel buio in direzione della botola esterna, sbatté con forza la fronte contro una trave di legno. Un’esplosione di stelline le divampò nella testa. Una mano la afferrò. Lei gridò. Fu voltata di scatto. Una luce intensa le abbagliò la vista. Non riusciva a vedere oltre. Abbassò lo sguardo nel tentativo di riprendere fiato e notò il martello stretto nella mano.

    Capitolo tre

    «Maledizione», brontolò Jonathan Merryfield.

    Si tolse gli occhiali e massaggiò il dorso del naso, poi li rimise a posto agitandosi sul sedile del passeggero della Land Rover che puntava i fari sulla facciata di mattoni del caseificio, ricoperta dall’edera.

    «Che c’è?», domandò Bethany.

    Jon scosse il capo, come per allontanare un brutto ricordo. «Quel ragazzo». Sospirò. «Quel fidanzato. Chiunque lui sia. Dovremo mandarla via». Gemette e si strinse lo stomaco. Bethany spense il motore e i fari dell’automobile. Le finestre dell’edificio piombarono nel buio. Posò il palmo sulla spalla del marito. «Ti senti un po’ meglio?»

    «Se con meglio intendi che non sto per vomitare l’anima, allora no».

    «Mi dispiace aver insistito per andare», si scusò Bethany ritraendo la mano dalla spalla del marito, che aveva trascorso la serata nel bagno del ristorante. Sofferente. Lei si sentiva in colpa per averlo spinto a cenare fuori solo perché lo facevano tutti i mercoledì sera. Insistere era nella sua natura: pretendere cose che in principio sembravano fondamentali, vitali e necessarie… un’urgenza scaturita dall’ansia di raggiungere la perfezione, salvo poi rivelarsi del tutto triviali. Spesso le sue richieste riguardavano eventi ai quali lei non desiderava partecipare davvero, ma che sentiva di dover presenziare. Jon l’assecondava sempre, com’era prevedibile. La faceva infuriare, quella sua prevedibilità. Perché, una volta tanto, suo marito non aveva alzato la testa dichiarando: No. Stasera non usciamo. Non mi sento ancora bene. Avrebbero potuto restare a casa e riposare entrambi. Invece, lui aveva ceduto. Come poteva un uomo così aggressivo, autoritario, manipolatore e determinato nella sua intricata e gravosa vita professionale essere tanto insicuro nella sfera privata? Era come se incarnasse due personalità completamente diverse. Ma soprattutto: da quando in qua lei aveva preso a disdegnare la coerenza e la stabilità, la prevedibilità alla quale aveva mirato per quasi tutta la vita adulta e che un tempo aveva affermato di desiderare e perfino ammirare in un coniuge?

    «Le parlerò io», disse Bethany. Lei stessa una volta aveva notato il ragazzo sgattaiolare via nel buio, qualche settimana prima. Ne aveva parlato con Jessica. «Puoi invitare le tue amiche. Ma basta ragazzi». Oh, com’era arrossita la poveretta, sembrava quasi che l’avessero presa a schiaffi. «Non succederà più», aveva farfugliato, poi si era fatta il segno della croce, proprio il segno della croce sul cuore, desiderando di morire all’istante.

    Bethany comprendeva Jessica più di quanto lei potesse immaginare. La giovane sarebbe rimasta sconvolta se avesse scoperto quanti ragazzi aveva intrattenuto lei quando faceva la babysitter ai tempi della scuola, o mentre i genitori erano fuori casa per una delle noiosissime serate d’obbligo, dalle quali rientravano inevitabilmente brilli e litigiosi. Durante una di quelle tante domeniche, mentre i suoi erano fuori a sbronzarsi di Seer Sucker, il signor Alcott, socio d’affari del padre per il quale Bethany lavorava come babysitter, era passato da casa loro e l’aveva trovata sola in bikini accanto alla piscina, il cervello stordito dal sole cocente e da mezza brocca di gin tonic della madre già in circolo. Aveva compiuto diciassette anni, proprio il giorno prima. «Bene, piccola Beth», aveva esordito il signor Alcott sedendosi sul bordo della chaise-longue. «A quanto pare il gatto non c’è». Lei si era sistemata il reggiseno slacciato e, schermandosi gli occhi per vedere chi fosse, aveva riconosciuto la Carmen Ghia dell’uomo, parcheggiata nel vialetto. Aveva sentito il labbro imperlarsi di sudore. «Così pare», gli aveva risposto, arrotolando la lingua in bocca per assaporare la nota acidula del limone, il ginepro del suo gin. Il signor Alcott le aveva posato la mano morbida e curata sul polpaccio abbronzato. «Ti va di fare un giro?».

    Il giro era durato tutta l’estate.

    Lei non l’aveva confessato ad anima viva. Neppure a Jon. Se di qualcosa poteva vantarsi, era della propria capacità di mantenere i segreti. Le era sempre tornata utile.

    Bethany scese dalla Land Rover e si affrettò a raggiungere il marito per aiutarlo. Jon aveva la cravatta allentata sul collo. La camicia stropicciata fuori dai pantaloni. Il viso madido di sudore.

    Lo guidò lungo il vialetto d’ingresso. Il movimento attivò i sensori del sistema d’illuminazione. Aprì la porta e accompagnò il marito dentro.

    Il bambino stava piangendo.

    Il cuore di Bethany ne registrò il suono prima ancora che lo udissero le orecchie.

    No. Non stava piangendo.

    Strillava.

    La casa era invasa dai suoi strilli. Si riverberavano attraverso il caseificio, dall’edificio stesso. Il lamento terrificante di un bambino abbandonato.

    Bethany immaginò Jessica intenta a prestare i suoi servizietti a qualche studentello brufoloso e voglioso, mentre il piccolo Jon urlava. Razza di sgualdrinella. «Jessica!», gridò dalla base delle scale. Scagliò via le Ferragamos e infilò i gradini di corsa, due alla volta, lasciando Jon accasciato sul bordo della panca di legno, con la testa tra le mani. «Jessica!», urlò di nuovo.

    Il piccolo Jon piangeva così forte che Bethany temette che gli scoppiassero le tonsille da un momento all’altro in un’esplosione di sangue. Quel suono straziante le penetrò le ossa fino al midollo.

    Arrivata in cima alle scale, percorse il corridoio d’un fiato, sbraitando: «Jessica!».

    Entrò come una furia in camera del figlioletto. Accese la luce e si precipitò alla culla. Piccolo Jon. Aveva il faccino corrucciato e paonazzo, gonfio e inzuppato di lacrime. Bethany lo prese tra le braccia, un fagottino che si dimenava con movimenti febbrili. Se lo portò al seno e gli accarezzò la testolina. «Shh. Va tutto bene. La mamma è qui. Shh».

    Gli strilli si attenuarono. Bethany lo portò con sé al piano terra, le pulsazioni che le martellavano nelle vene. Si fiondò dal marito. «Jon. C’è qualcosa di strano».

    Lui alzò la testa dalle mani, sembrava sul punto di vomitare; ma alla parola strano balzò in piedi.

    «Qualcosa di strano?», ripeté. Toccò la spalla del bambino e la accarezzò con la punta delle dita.

    «Jessica», spiegò Bethany. «Non è in casa».

    «Dev’esserci per forza», replicò Jon.

    «Ho continuato a gridare il suo nome. Ho controllato nella stanza del piccolo. Non ha il permesso di entrare in nessun’altra stanza del primo piano, a parte il bagno».

    «Non ha nemmeno il permesso di scoparsi i ragazzi sul nostro divano».

    «Devi rimetterti in sesto e fare qualcosa».

    Jon le passò accanto e imboccò le scale, reggendosi al corrimano.

    Con il figlio stretto al seno, Bethany perlustrò la cucina, lo studio, la biblioteca, il salotto e la camera degli ospiti, dove ultimamente dormiva il marito: la mole di lavoro e il virus intestinale gli facevano passare le notti in bianco. La loro camera da letto era off limits per Jessica, ma chi sapeva cosa combinasse la gente in privato? La stessa Bethany aveva ficcanasato un bel po’ in giro per le case, quando faceva la babysitter. Attraversò il soggiorno e si bloccò. La porta dello scantinato era aperta, uno spiraglio appena. Ma di solito rimaneva ben chiusa, a meno che non ci fosse qualcuno di sotto.

    Il piccolo Jon si agitò tra le sue braccia. Lei lo sistemò meglio e aprì la porta. La triste luce giallognola dell’unica lampadina si spegneva in fondo alle scale. Bethany avvertì la lama gelida del senso di colpa trapassarle le scapole. La radio era accesa. Jessica stava facendo il bucato. Da quando l’aveva sorpresa con il suo ragazzo – e nonostante le sue insistenze perché lasciasse stare – la babysitter si era data alle faccende domestiche, una volta addormentato il piccolo e finiti i compiti. Adesso era nello scantinato e con la radio accesa non li aveva sentiti rientrare. Le vecchie fondamenta di pietra, le travi in legno del soffitto e i pavimenti spessi ti tagliavano fuori dal mondo. L’unica condizione che Bethany aveva dettato era che Jessica portasse sempre con sé il baby monitor. Ma lei stessa lo dimenticava spesso. Una volta, era salita dalla cantina e aveva trovato il piccolo Jon che piangeva disperato come se lo avessero lasciato su una stufa accesa. Bethany aveva messo in croce quella povera ragazza troppo in fretta.

    «Jessica», chiamò, la voce priva

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