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Crazy
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E-book308 pagine4 ore

Crazy

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Info su questo ebook

Autrice bestseller del New York Times

Eric ce l’ha messa davvero tutta per meritarsi la fama di donnaiolo insensibile e superficiale. Non vuole che le ragazze si facciano strane idee, con lui: apprezza le  avventure di una notte con donne bellissime, ma non è un tipo da relazioni a lungo termine. Quando Jean entra per la prima volta nel locale in cui Eric lavora come bartender, però, tutte le sue certezze cominciano a vacillare. Specialmente perché Jean non è intenzionata a cedere a nessuno dei suoi complimenti. Possibile che sia immune al suo fascino? Jean ha tutt’altro per la testa: aspetta un bambino e ha deciso di cambiare città per dedicare tutta sé stessa alla nuova vita che porta in grembo. Di sicuro non ha alcuna intenzione di perdere tempo dietro al donnaiolo di turno, anche se… 

Kylie Scott
è un’autrice bestseller del «New York Times» e «USA Today», da sempre appassionata di storie d’amore, rock’n’roll e film horror di serie B. Vive nel Queensland, in Australia, legge, scrive e non perde troppo tempo su internet. La Newton Compton ha pubblicato la Lick Series: Tutto in una sola notte, È stato solo un gioco, Nessun pentimento, Doppio gioco e la novella I disastri del cuore. Con Crazy continua la Dive Bar Series, iniziata con Dirty e Pretty.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2020
ISBN9788822741332
Crazy
Autore

Kylie Scott

Kylie is a long-time fan of erotic love stories and B-grade horror films. Based in Queensland, Australia with her two children and one husband, she reads, writes and never dithers around on the internet. Her New York Times bestselling novels include Lick, Play, Lead and Deep, which make up the Stage Dive series.

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    Anteprima del libro

    Crazy - Kylie Scott

    Capitolo uno

    «Fattene una ragione, Eric: sei un puttaniere».

    Distolsi lo sguardo dal bel culo che stavo guardando e aggrottai le sopracciglia. «Cristo, Nell, non credi di essere un po’ troppo dura?»

    «No, non direi», replicò, accarezzandosi con delicatezza il pancione.

    Mi concentrai sul suo viso, ignorando qualsiasi cosa avesse a che fare con la parte centrale del suo corpo. Non volevo sapere nulla della gravidanza. Ero felice per lei e per suo marito, dopotutto eravamo andati tutti a scuola insieme ed eravamo amici di lunga data, ma per una montagna di buoni motivi io e i bambini non andavamo d’accordo. Ogni volta che guardavo il ventre di Nell, mi preoccupavo. Pregavo che stavolta lei e il bambino stessero bene, poi facevo del mio meglio per non ripensarci, per non ricordare il figlio che avevamo perso l’anno prima. Al bancone si pensa alle cose allegre, non ci si crogiola nel dolore e nei rimpianti.

    «…Non devo neanche guardare, sei troppo prevedibile. Capisco quando una bella donna entra nel locale perché i tuoi occhi si illuminano come quelli di un gatto che ha notato un topo». Si fermò, poi sbraitò: «Eric? Eric!».

    «Sì?».

    Inclinò la testa. «Non mi stai neanche ascoltando, vero?»

    «Certo che ti sto ascoltando». Più o meno. Ero combattuto tra l’offesa per l’insinuazione di Nell e il desiderio di seguire il didietro perfetto. Il che non dava ragione a Nell, comunque.

    «Ecco di cosa sto parlando», disse. «In confronto alla tua soglia di attenzione, un moscerino sembra enorme».

    «Calmati. Ti ho detto che ti stavo ascoltando».

    «Allora, cos’ho detto?»

    «Be’, in pratica che sono uno stronzo», risposi. «Mi hai ferito».

    Nell incrociò le braccia. «Ma davvero? Ora fai finta di avere dei sentimenti?»

    «Ovvio che ho dei sentimenti».

    «Come no. E perché ti considero uno stronzo?»

    «Be’…». Sbirciai dietro di lei, intravedendo di nuovo la schiena di quella donna particolarmente attraente che Lydia stava portando a un tavolo. Lydia era la terza proprietaria del Dive Bar, insieme a me e Nell. Ma tornando alla ragazza: capelli neri e lunghi fino alle scapole e un culo ben proporzionato che ondeggiava a ogni passo. Cavolo. L’estate, con tutti quei corpi seminudi, era fantastica; ma l’inverno comportava jeans aderenti e maglioni, come quelli che indossava la mia futura migliore compagna di letto, e anche quello era fantastico. Peccato la vedessi solo di spalle; mi chiesi com’era il davanzale. Non ero certo schizzinoso: pieno, generoso, piccolo, morbido, sodo… mi andava bene tutto. Come dico sempre, la vita è come togliere il reggiseno a una donna: non sai mai di preciso cosa ti toccherà, ma sarà comunque meraviglioso.

    «Eric?». Nell prese un coltello e interruppe le mie fantasie. Iniziò a batterlo con impazienza su un tagliere. «Sto aspettando».

    «Donne e cose così», risposi. Era la risposta ovvia. In generale, si trattava sempre dell’una o dell’altra cosa. «Pensi sia uno stronzo a causa delle donne e cose così».

    «Strinse gli occhi. «E cose così?»

    «Sbaglio?»

    «No».

    Fiù. «Bene, allora».

    «Davvero, Eric, un giorno vorrai che nella tua vita ci sia qualcosa di più di un bel culo». Smise di tagliare per gesticolare, e in mano aveva ancora il coltello. «Insomma, la tua relazione seria più lunga è stata con Alex, e solo perché Joe ha usato il tuo profilo per corteggiarla!».

    «Ah ah». Scommetto che si era preparata quella battuta da una settimana e aspettava solo l’occasione di tirarla fuori. «Ora posso rimettermi al lavoro?»

    «Come ti pare». Sbatté il coltello. «Sei una causa persa. Mi arrendo».

    Grazie a Dio.

    Gli ormoni della gravidanza la rendevano ancora più spaventosa del normale: solo qualche giorno prima mi aveva gridato contro perché respiravo troppo forte, e adesso mi dava del puttaniere. Era ingiusta. Certo, ero stato a letto con parecchie donne − le donne mi piacevano, e tanto – ma nella mia vita non c’era solo il sesso. E mi fece male sapere che una mia amica di vecchia data, una persona con cui ne avevo passate tante, non la pensava così.

    Comunque, basta parlare di Nell e del suo malumore. In sala c’erano compiti più piacevoli a cui pensare. Era metà pomeriggio, perciò era tutto tranquillo. Nessuno stava aspettando che gli versassi da bere al bar. Taka, il cameriere di turno, era dietro al bancone, occupato a piegare tovaglioli e pulire posate. Potevo andare.

    «Ci penso io, Lydia. Fai una pausa», dissi. «Riposa un po’ i piedi».

    Mi fece un sorriso ironico prima di sbattermi il menu sul petto. Tutte le storie sulle donne dolci e delicate sono cazzate.

    «Certo, Eric», rispose, «ma non farla scappare».

    «Quando mai ho fatto scappare un cliente? Che cavolo, il mio magnetismo è l’unica cosa che tiene a galla questo locale».

    Nessuna risposta. Ma, dopo una lunga occhiata, Lydia si girò e andò sul retro, probabilmente per discutere con Nell della mia inadeguatezza, del punto del bosco in cui seppellire il mio cadavere e cose del genere. Era quello il problema di avere come socie due donne: essendo l’unico con il pisello, mi davano la colpa di tutto. Consegnavano la merce in ritardo? Colpa mia. La cassa funzionava male? Ancora colpa mia. Qualcuno si rompeva un’unghia o cazzate del genere? Sempre colpa mia. Anche se avevo mantenuto la promessa di non andare più a letto con una delle nostre cameriere. Già, le dipendenti erano tabù. Poco male. Le cose tendevano a farsi imbarazzanti quand’era ora di andare avanti. Anche se io avevo sempre messo in chiaro che volevo solo divertirmi e non cercavo storie serie.

    Quindi, niente avventure con il personale. Le clienti, però, erano tutt’altra storia.

    «Ehilà», salutai la bruna formosa.

    Lei fece un sorriso debole, senza neanche guardarmi. I suoi lineamenti erano marcati ma attraenti – naso lungo e dritto e mascella pronunciata. Non era proprio bella ma non passava inosservata, nonostante le occhiaie scure. Doveva avere più o meno venticinque anni.

    «Sono Eric». Le porsi il menu con un sorriso. «Benvenuta al Dive Bar».

    «Ciao», sussurrò, dando un’occhiata al menu mentre io continuavo a osservare lei. Niente fede, molte curve, un maglione blu che le tirava a meraviglia sulle tette. Era decisamente ben fornita. Grazie, Dio.

    «Fammi indovinare». Appoggiai le mani sullo schienale della sedia davanti a lei.

    «Cosa dovrei farti indovinare?», chiese senza alzare lo sguardo, né mostrare il minimo interesse.

    «Quello che prendi da bere».

    «Cosa ti fa credere che prenderò da bere?»

    «Altrimenti perché saresti in un pub?», replicai, in attesa, pregando che mi guardasse. Era difficile fare colpo con il mio sorriso seducente se non mi guardava neanche in faccia.

    «Be’, servite anche cibo, e si dà il caso che abbia fame».

    «Ottima argomentazione. Quindi vuoi solo dell’acqua, o qualcosa del genere?».

    Finalmente, il suo sguardo si spostò dal menu a me e restò lì. Un paio di occhi azzurri mi guardò, studiando ogni centimetro con interesse. Le sue guance si colorarono leggermente. Ottimo.

    «D’accordo, vai», cedette. «Cosa prendo da bere?»

    «Be’… hai uno stile discreto», dissi flettendo i muscoli delle braccia abbastanza da attirare la sua attenzione. Era il motivo principale per cui mi arrotolavo le maniche della camicia: una parte dello spettacolo sottile ma importante. «Quindi, mi viene da pensare che ti piacciano i classici. Un martini o un old fashioned, magari?»

    «No».

    «No?». Lasciai vagare lo sguardo su di lei, cercando di assimilare ogni dettaglio senza fissarle il seno. Non era facile, ma per fortuna avevo un buon autocontrollo. Occhi su. «Forse sei un tipo più alla buona. Una birra?».

    Le sue labbra si piegarono in un leggero sorriso. «Non mi dispiace la birra, ma non era quello che volevo ordinare».

    «Mmm, una sfida. Mi piacciono le sfide».

    «Santo cielo, non sono per niente una sfida». Espirò. «Indovinare quello che beve la gente è il tuo numero di magia, giusto?»

    «Di solito sono bravo».

    «Mi dispiace aver interrotto la tua serie di vittorie».

    «Non c’è problema», sorrisi. «Mia madre dice sempre che bisogna rimettermi al mio posto, altrimenti il mio ego sarebbe fuori controllo».

    Il suo viso fu attraversato da un lampo strano. «Sembra una buona madre».

    «È un’ottima madre. Ma torniamo a te», dissi, seguendo il copione. Di solito le donne abboccavano a quella cazzata. Eppure, qualcosa nel suo sguardo mi fece esitare. «Ma se preferisci, prendo l’ordina…».

    «Assolutamente no». Mi fece un sorriso canzonatorio. «Mi hai promesso una magia, ora la devi fare. Come hai detto che ti chiami?»

    «Eric Collins».

    «Eric. Piacere».

    «Sono il proprietario». Non era proprio una bugia e mi faceva sembrare uno di successo.

    «Davvero?». Inarcò le sopracciglia, sorpresa, e si guardò intorno, osservando tutto. Restai in attesa. Ci eravamo fatti il mazzo per trasformare quel rudere nel pub ristorante che era diventato: pareti con mattoni a vista e legno scuro lucido, specchi allineati dietro il bancone del bar insieme a file ordinate di bottiglie, finestre grandi che facevano entrare la luce e qualche tocco in stile industrial.

    «È proprio un bel posto», disse. «Ne sarai molto orgoglioso».

    «Infatti». Le porsi la mano e lei posò le dita calde e sottili nel mio palmo. «Piacere di conoscerti…».

    «Jean Antal».

    «Jean. Che bel nome».

    Sempre tenendomi la mano, scrollò le spalle. «Mia madre era fan di David Bowie».

    «Bowie è il migliore».

    «Già».

    «Quindi, immagino questo faccia di te Jean Genie».

    «Ah. Sì». Fece un’altra risatina eccitante. L’avrei volentieri ascoltata per tutto il giorno, ma all’improvviso tornò seria. «Era la sua canzone preferita».

    Merda. Porca miseria. «È mancata?», chiesi con delicatezza.

    Sbatté le palpebre. «No».

    «No?»

    «Scusa». Scosse la testa, sembrava nervosa. «Entrambi i miei genitori sono vivi e stanno bene. Volevo solo dire che era la sua canzone preferita quand’ero piccola. Tutto qui, nient’altro».

    «Be’, meno male».

    «Mmm». Spostò lo sguardo sulle nostre mani, e in un lampo la leggera pressione della sua stretta e il calore della sua pelle sparirono. «Cavolo. Non volevo tenerti le mani addosso».

    «Tienile pure quanto vuoi».

    Scoppiò a ridere, sorpresa. «Ma guardati, con i capelli lunghi, quella faccia e tutto il resto. Sei proprio un casanova, Eric».

    «Grazie mille. E tu sei una gioia per gli occhi». Sorrisi. «E ti devo ancora una magia».

    «Giusto, il mio drink», disse, rilassandosi e incurvando le spalle. «Vai, indovina».

    «Va bene». La studiai in cerca di ispirazione, e cercando di non distrarmi immaginando come sarebbe stato averla nuda nel mio letto. Non era facile. Ma, come ho detto, autocontrollo. «Allora direi un black widow».

    Sbatté le palpebre. «Un cosa?»

    «Black widow. More, silver tequila, succo di lime e sciroppo di zucchero», spiegai. «Credo dovresti ordinarlo».

    «E perché?»

    «È dolce ma dà una bella botta». Le feci il mio sorriso migliore. «Penso ti piacerà».

    «Quindi non ha niente a che fare con il sospetto che abbia ucciso qualche marito, come la vedova nera da cui prende il nome?»

    «No, certo che no», risi. Poi mi bloccai. «Oh, cavolo. Non sei sposata, vero? Cioè, sei single, sì?».

    Aprì la bocca ma non disse niente.

    Merda, merda, merda.

    «Tranquillo, Eric». Jean abbassò il mento e tornò a guardare il menu con le sopracciglia leggermente aggrottate. «Sono single».

    «Bene». Espirai e tornai a sorridere. «Bene. Altrimenti, invitarti a cena stasera sarebbe stato piuttosto imbarazzante».

    Non disse nulla.

    Nessun problema. Sarei tornato alla carica più tardi. «Non ti ho mai vista qui. Sei di queste parti, o solo di passaggio?»

    «In realtà, mi sono appena trasferita in questa zona», rispose. «Proprio oggi».

    «Fantastico!».

    Per quanto fosse divertente l’avventura di una notte, in quell’ultimo periodo stavo pensando che forse avrei potuto fare sul serio con qualcuna. Forse. Almeno per provare. Era una mia idea, non aveva niente a che fare con la ramanzina di Nell.

    La verità era che mi stavo avvicinando ai trenta, e l’anno prima erano successi vari casini. Nell era quella che aveva sofferto di più, ma si era rialzata ed era felice e incinta dell’uomo giusto, stavolta: Pat. Non aveva proprio senso che io soffrissi ancora.

    Probabilmente, quello che mi disturbava era il fatto che Joe si stesse sistemando con la sua nuova ragazza. Joe, mio fratello. Mio fratello minore, quello che non aveva mai avuto successo con le donne, che cazzo. Da quando Alex era arrivata in città, però, lui se ne andava in giro sorridendo come se avesse vinto alla lotteria.

    Comunque, qualsiasi fosse il motivo, mi sentivo un po’… non lo so. Non proprio smarrito. È che quel pensiero mi stava ronzando in testa. L’idea non mi sembrava cattiva come qualche anno prima. In realtà, sarebbe stato perfetto. Assimilai il viso attraente di Jean e le sue curve meravigliose. Avremmo potuto uscire insieme, andare al cinema, fare le cose da coppie. Addirittura tenerci per mano. Avrei dimostrato a Nell che non ero un puttaniere superficiale.

    Ma stavo correndo troppo.

    «Di dove sei?», chiesi, tornando alla conversazione.

    «Di Jacksonville, Florida».

    «Davvero? Sei mai stata al Night Garden o all’Emory’s?».

    Il viso le si illuminò. «Adoro l’Emory’s, è la discoteca migliore della città».

    «Ci sono passato qualche anno fa, di ritorno da Miami», dissi. Con quell’energia, immaginai fosse una a cui piaceva fare baldoria. «Ottima atmosfera, e il

    DJ

    era pazzesco».

    «Io e i miei amici andavamo a ballare lì ogni sabato sera». Prese a fissare il vuoto. «Bei tempi».

    «Ehi, solo perché ti sei trasferita a Coeur d’Alene non vuol dire che la tua vita sia finita. Questa città è bellissima, e ora puoi venire qui. Nel weekend spesso c’è musica dal vivo», dissi. «Saresti la benvenuta».

    Per un istante non rispose, poi disse piano: «Farò un salto».

    Taka fece accomodare dei clienti a un tavolo vicino, fermandosi un attimo per lanciarmi un’occhiata divertita. Tipico. Avrebbero dovuto levarsi dalla faccia quei sorrisetti appena si fossero resi conto che potevo fare il fidanzato. Taka, Nell, Lydia, tutti quanti.

    «Allora, Jean». Posai le mani sullo schienale della sedia davanti a lei, sporgendomi leggermente in avanti e cercando di attirare la sua attenzione. Funzionò, e spostò lo sguardo su di me. «Posso prepararti un black widow? Offre la casa, naturalmente».

    «È così che fai soldi?»

    «No, è così che faccio amicizia».

    Ridacchiò. «Mi piacerebbe un black widow. Ma lo puoi fare analcolico?»

    «Lo vuoi senza tequila?», chiesi sorpreso. Avrebbe potuto accennare al fatto di essere astemia, visto l’argomento della conversazione di poco fa.

    Non ebbe modo di rispondere.

    «Jean». Andre si avvicinò al tavolo e mi diede una pacca sulla spalla prima di rivolgerle un sorriso amichevole. Troppo amichevole. E come faceva a sapere come si chiamava? Nella mia testa partì la sirena d’allarme perché, nonostante Andre fosse più vecchio di me di oltre dieci anni, le donne lo adoravano. «Come stai? Se sei pronta, sono libero».

    «Pronta per cosa?», chiesi, lievemente irritato.

    «Mi trasferisco in uno degli appartamenti qui sopra», rispose Jean, con le dita intrecciate sul tavolo.

    «Davvero?», chiesi con le sopracciglia inarcate.

    «Proprio così», disse Andre. «Sarete vicini».

    «Ah». Mi sforzai di mantenere un’espressione impassibile mentre il mio cervello cercava di raccapezzarsi. Cavolo, no fu la mia prima reazione. La porta accanto era un po’ troppo vicina. Stavo ancora abituandomi all’idea di avere una ragazza, averla letteralmente a due passi dal mio appartamento sarebbe stato eccessivo.

    «Ora saremo tu, io, Jean, Joe e Lydia». Andre si sfregò le mani, tutto felice. Ovvio: era il proprietario del palazzo, e gli era costato parecchio ricavare quegli appartamenti al piano di sopra, l’anno scorso. «È tutto affittato».

    «Fantastico», borbottai.

    Jean si limitò ad annuire, sfogliando il menu.

    «Hai detto che avevi fame: cosa posso portarti?», chiesi, scrollandomi di dosso l’improvviso malumore.

    «Qui è tutto buono», commentò Andre. «Soprattutto la pizza. Non ho ancora pranzato, ti spiace se mi unisco a te? Dopo, se ti va, posso farti fare un giro e aiutarti a scaricare la roba».

    «Magnifico», gli rispose Jean. «Ho proprio bisogno di cibo».

    «Posso darti una mano anch’io». Arretrai di un passo, facendogli spazio controvoglia. «Forse anche Boyd e Taka. Non siamo molto occupati».

    «Grazie», rispose.

    Maledizione. Andre era uno dei miei più vecchi amici, ma non faceva parte del piano. Guastafeste. Prima avrebbero chiacchierato davanti al buon cibo, poi… bum, avrebbero fatto sesso. Non andava bene per niente. Volevo farci sesso io con Jean. Ed essere quello che avrebbe mangiato con lei, che l’avrebbe ascoltata eccetera (inserire cose da fidanzato noioso).

    «Prendo la pizza con patate, cipolla caramellata e bacon, grazie», disse.

    «Per me la vegetariana», disse Andre. «E una birra, per favore».

    «Certo». Strinsi leggermente gli occhi guardando quel bastardo. Non che l’avesse notato.

    «Black widow? Analcolico?». Gli occhi di Jean brillarono e i suoi lineamenti si addolcirono di nuovo.

    Particolare non trascurabile, succedeva solo quando guardava me. Magari non avrei rovesciato la birra addosso ad Andre, dopotutto. Chissà.

    «Subito», dissi, scrivendo l’ordinazione. «Arrivo».

    Passai la comanda in cucina e andai al bancone del bar. Tempo un’ora o due e Vaughan mi avrebbe raggiunto per l’ora di punta della serata. Ma per il momento toccava a me gestire il banco.

    Quando ci era venuta l’idea di aprire il Dive Bar, tutte le persone coinvolte sapevano esattamente cosa volevano: Nell avrebbe diretto la cucina, Pat avrebbe aiutato con i soldi ma sarebbe rimasto nel suo studio di tatuaggi lì accanto, e io mi sarei occupato del bar. Ovviamente, gestire il locale era stato molto più difficile di quanto ci aspettassimo. Poi Lydia aveva rilevato la parte di Pat ed era subentrata nella gestione della sala. Era stata un’ottima mossa. Ma Nell adorava la cucina e io ero rimasto al bar.

    Ero nel mio elemento. Ero bravo e sentivo che era il mio posto.

    La superficie in legno originaria aveva ancora incisi nomi e cagate varie, che risalivano a quando il locale era ancora solo un pub. Presi uno straccio e diedi una passata veloce. Lasciai perdere un attimo Jean e il suo bel davanzale: era ora di ripulire il locale prima che iniziasse la serata. File ordinate di bottiglie splendenti, spine che brillavano e bicchieri. Forse tutto ciò non diceva molto di me, ora che il locale era diventato come casa mia, ma lo adoravo comunque.

    Al tavolo, la conversazione tra Andre e Jean scorreva. In una scala da uno a dieci, avrei dato un sei al sorriso che aveva stampato in faccia. Sette, al massimo. Era educato, amichevole; neanche lontanamente caloroso e ammiccante come quelli che aveva rivolto a me. Quelli erano da dieci. Grazie, che cazzo.

    Preparai con calma il cocktail per Jean: mischiai le more, spremetti il lime e dosai lo sciroppo di zucchero. Mi fece quasi male non aggiungere la tequila. Era come chiedere a Vincent Van Gogh di non toccare il blu quando dipingeva le stelle, come dire a John Bonham di andarci piano con le bacchette quando suonava Moby Dick. Certo, lui era morto. Ma, insomma, il punto è che… c’era qualcosa di sbagliato. Strinsi i denti e aggiunsi dell’acqua gasata e uno spruzzo extra di lime per cercare di compensare la mancanza di tequila.

    Mentre versavo la birra di Andre, tornai a fantasticare su Jean. Forse ci saremmo frequentati. Davvero. Era sexy, simpatica, non mostrava segni di evidente pazzia. A parte, forse, la questione dell’assassinio degli ex mariti. Ma, soprattutto, ero sicuro di piacerle. Pensandoci meglio, il fatto che abitasse così vicino poteva essere un bene: a volte facevo orari strani, quindi mi avrebbe sicuramente evitato di guidare. Mi chiesi cos’avrebbe pensato mia madre di lei. Non avevo mai portato a casa una ragazza, ma forse con lei l’avrei fatto. Alla faccia tua, Nell.

    Finito di preparare i drink, uscii dal bancone. Magicamente, Nell era schizzata fuori dalla cucina.

    «Jean, sei tu?», disse. «Mio Dio, perché non mi hai detto che eri qui?».

    Mi bloccai. Come cavolo facevano a conoscersi? Così non andava bene.

    «Sembravi impegnata, ho deciso di aspettare». Jean si illuminò, felice come una Pasqua. Il suo sorriso era arrivato a un bell’undici.

    Nell attese davanti al tavolo, mentre la mia ancora-possibile-ma-a-questo-punto-non-più-così-probabile futura ragazza si alzava. Seguirono abbracci e gridolini felici. Maledizione. Mi chiesi se Nell le avesse parlato di me. Forse la situazione si poteva ancora salvare.

    «Sono felicissima che ti sia trasferita qui», le disse. «Sarà meraviglioso».

    «Lo spero», sospirò Jean.

    «Lo sarà, vedrai. Un nuovo inizio».

    Poi si separarono e potei osservare in tutto il suo splendore il pancione di Nell. E, peggio ancora, quello di Jean. Quella donna era incinta. E parecchio. Il bicchiere di martini mi scivolò dalle dita, rompendosi quando atterrò sul pavimento.

    «Porca troia», borbottai.

    Capitolo due

    Ero stato ingannato. Tradito.

    Quando Andre e Jean finirono di pranzare, uscimmo per occuparci delle sue cose. Il vento freddo rifletteva perfettamente il mio umore. Che delusione.

    «Non sollevarlo, sembra pesante», sbottai.

    Jean sbatté le palpebre. «È un cuscino».

    «Il cuscino più grande sulla faccia della Terra. Non si è mai troppo prudenti».

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