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1989 Vita di un uomo normale in un anno speciale
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1989 Vita di un uomo normale in un anno speciale
E-book209 pagine2 ore

1989 Vita di un uomo normale in un anno speciale

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Info su questo ebook

Questa storia ha due protagonisti: il 1989 e il giornalista Fulvio Marra.
Il 1989: l’anno degli eventi di portata epocale, dal crollo del Muro di Berlino al conseguente sgretolarsi dell’impero sovietico, passando per la sanguinosa repressione delle manifestazioni studentesche in Cina culminate nella strage di piazza Tienanmen.
Fulvio Marra, esageratamente maldestro, ansioso, inconsapevolmente saggio, innamorato di una donna a cui non riesce a dichiarare il proprio amore, appassionato di calcio, legato agli amici e al suo gatto combina guai, dipinge la sua visione di quell’anno su un quadro di carta, facendoci vivere le sue ansie, le sue paure, le sue gioie, che, in fondo, sono quelle di tutti gli uomini normali.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2020
ISBN9788835826125
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    Anteprima del libro

    1989 Vita di un uomo normale in un anno speciale - Emiliano Moglioni

    dicembre

    29 marzo

    La redazione era in subbuglio, c’era la tipica concitazione delle grandi notizie; il fermento di quei momenti è indispensabile a creare la suspense necessaria per valutare le agenzie e approfondire le informazioni.

    Persino io, giornalista di costume-cultura-società-cinema-libri-gastronomia e chi più ne ha più ne metta, avevo capito che l’atmosfera era da grande evento.

    Quel giorno infatti, il nostro sindaco si sarebbe dimesso dalla sua carica a seguito di un’inchiesta sulle mense scolastiche.

    A ogni modo, quel giorno, Pietro Giubilo fece uso dell’esercizio delle dimissioni, strumento a cui noi italiani siamo tra i meno avvezzi in assoluto.

    Ma fermiamoci un attimo. Non è educato iniziare così, senza avere nemmeno la buona creanza di presentarsi.

    Mi chiamo Fulvio Marra, il mio mestiere lo conoscete già. Sono solo non per scelta, nel 1989 abitavo a Roma in zona piazza Bologna. Questo tono si addice più a un colloquio di lavoro?

    Probabile.

    Comunque, d’ora in poi ho intenzione di descrivervi la mia vita in quell’anno meraviglioso, straordinario e normale allo stesso tempo, che segnò l’epilogo del decennio.

    Gran parte delle mie giornate, allora come adesso, erano dedicate al lavoro.

    All’arrivo mi diressi trafelato verso la mia scrivania, che si trovava vicino all’ingresso, appena sulla destra.

    Nemmeno il tempo di appendere la giacca e Arianna mi sorprese provenendo dal lato opposto.

    «Ciao Fulvio, buongiorno eh».

    «Oh, Ari, ciao», risposi un po’ affaticato. Sprofondai al mio posto mezzo stravolto.

    Lei si sedette a sua volta alla scrivania di fronte alla mia, giunse le mani e rivolse lo sguardo verso di me: «Ma che fine avevi fatto?».

    «Niente, il solito casino, poi ti dico», risposi.

    Poi ripresi: «Si è già visto?».

    «Eccome no, figurati; ci stava cercando; d’altro canto sono quasi le nove», disse riabbassando gli occhi sulla scrivania.

    Arianna, collega-amica-eterna infatuazione, pensai.

    «Marra!», un urlò mi destò dal torpore. «Marra, si può sapere che fine hai fatto? Ti ho detto mille volte che voglio essere avvertito quando fate ritardo».

    Lui è Silvestri, il nostro caposervizio; per nostro intendo mio e di Arianna. Allora noi tre rappresentavamo il settore costume-culturasocietà-cinema-libri-gastronomia (e chi più ne ha più ne metta) del giornale.

    Silvestri era una persona pessima, burbera e intrattabile, o perlomeno questo era il mio pensiero.

    «Scusa, ho avuto un contrattempo», dissi con il tono di chi si sente un po’ in torto.

    «Contratt…», riuscì a dire lui con gli occhi sgranati come se avesse davanti un extraterrestre.

    Ebbi la cattiva idea di aggiungere: «Poi, ho pensato che se fossi tornato a casa per telefonare, oppure mi fossi fermato a una cabina per strada avrei fatto ancora più tardi».

    «Marra, non dire minchiate come al solito», fece lui allargando le braccia. «Piuttosto muoviti, venite nel mio ufficio», disse con un cenno della mano posando lo sguardo anche su Arianna.

    Si voltò procedendo verso il suo ufficio, mostrandoci in tutta la sua enorme bellezza la sua proverbiale capa pelata.

    Ci alzammo e lo seguimmo.

    Forse vi starete chiedendo come era fatta la nostra redazione, magari effettivamente non ve lo starete chiedendo; in tal caso potete saltare il prossimo capoverso.

    Per tutti quelli interessati invece, la redazione si trovava in un palazzo d’epoca al centro di Roma e si sviluppava su un unico piano.

    Si trattava di una enorme sala quadrata, di quelle con i soffitti altissimi; ai lati della sala c’erano delle colonne sormontate da archi; sotto questi archi, dietro a delle vetrate, erano collocati gli uffici dove lavorano i capiservizio, il caporedattore e il direttore.

    Cosa c’era al centro della sala?

    Beh, al centro si trovavano le scrivanie dei redattori, di noi redattori; le scrivanie erano disposte a formare una grande H. Lì, proprio al centro di quello spazio, ogni giorno, nasceva il giornale.

    Silvestri, siciliano di Catania, entrò in ufficio sfiorando gli stipiti della porta, perché quello che aveva perso in altezza l’aveva guadagnato in larghezza; passò dietro la scrivania e si sedette.

    Non appena entrati, anche io e Arianna ci sedemmo sulle sedie di fronte alla scrivania.

    «Ah, Marra, scusa, potresti chiudere la porta?».

    Che palle! Ma non me lo potevi dire prima, mi alzai senza colpo ferire e la chiusi.

    Silvestri indossò i suoi piccoli occhiali e riprese a parlare: «Bene, la riunione di redazione è terminata qualche minuto fa; sapete, è importante iniziare presto, soprattutto nel nostro mestiere», fece rivolgendo uno sguardo beffardo verso di me.

    Rialzò lo sguardo e, dando un’occhiata a entrambi, riprese: «Bene, cominciamo. Tu Marra ovviamente sei occupato, domani pubblichiamo la tua inchiesta sulla diffusione dei videoregistratori».

    Disegnò pomposamente un cerchio muovendo entrambe le mani: «Naturalmente sarà l’apertura in taglio alto della terza. Marra, a proposito, ho apportato qualche piccola correzione».

    Sollevò il suo fondoschiena dalla sedia, si allungò sul tavolo e mi porse l’articolo.

    Lo presi senza guardarlo e lo poggiai sulle gambe.

    Poi si rivolse a lei: «Arianna, per te invece la giornata sarà leggermente più complessa. Primo: voglio che ti attacchi al telefono e scopri qualcosa di più relativamente a questa ordinanza del sindaco di Lazzate vicino Milano; secondo, dovresti scrivermi un trafiletto, non più di una ventina di righe, su Chiara e le sue figlie; stasera va in onda la prima puntata», le passò una notizia di agenzia, presumo relativa al primo argomento.

    «Va bene, potrei sapere qualcosa in più?», fece Arianna mentre prendeva il foglio.

    «Certo. Il primo articolo riguarda questo sindaco che in un’ordinanza invita commercianti e industriali a non mettere in commercio bombolette spray; asserisce che è necessario farlo per difendere l’ambiente, immagino sappiate tutta la storia dei clorofluorocarburi e compagnia cantando».

    Osai alzare un dito.

    Lui si rivolse a me: «Dimmi Marra».

    Mi ero già pentito.

    «No, è che pensavo che forse, beh sì, potrebbe essere più un articolo di cronaca. Però, sì, insomma, effettivamente per difendere l’ambiente basterebbe forse che tutti facessimo qualcosa».

    Abbassò gli occhialetti: «Marra, sempre a dire minchiate tu, mi raccomando; se il capo chiede qualcosa, questo qualcosa ha un senso preciso».

    Rialzò gli occhialetti e riprese: «Oggi, nella riunione di redazione, abbiamo deciso che andremo a realizzare un’inchiesta su ambiente e disastri ambientali: è un argomento molto sentito e di grande attualità», fece una pausa per attrarre l’attenzione.

    «Avrete sentito certamente parlare dell’incidente della Exxon Valdez di qualche giorno fa».

    «Sì, la petroliera della ExxonMobil che si è incagliata, mi pare che fosse il 24, sempre se non ricordo male», argomentò Arianna.

    «Esatto, proprio quella; naturalmente sarà solo uno spunto per ampliare il discorso su tutto il resto. C’è moltissimo per realizzare una buona inchiesta».

    Indicò prima l’uno poi l’altro: «Come al solito in questi casi ci lavorerete insieme, per l’ordinario prenderemo un esterno che ci darà una mano».

    Ci guardammo e annuimmo insieme verso di lui.

    «Per quanto riguarda il secondo articolo, vedi se riesci a farti rilasciare qualche dichiarazione; la prima puntata è una bella occasione: protagonisti, sceneggiatori o anche il regista, come vuoi. Sai, riteniamo culturalmente molto importante parlare della trasformazione della famiglia italiana in questo scorcio finale degli anni ’80. Per la prima volta si parla di genitori entrambi affidatari».

    Tolse le braccia dalla scrivania e si lasciò cadere indietro sulla sedia.

    «È tutto, grazie Arianna», disse infine.

    «Grazie a te, rispondemmo», ero estremamente contrariato dal fatto che avesse salutato solo lei.

    Ci alzammo, poi mi richiamò: «Marra un’altra cosa: tagliati quei capelli; te l’ho chiesto mille volte; ti sei amminchiato con quei capelli».

    «Va bene Silvestri».

    «Ah, Marra, l’ultimissima», mi girai verso di lui.

    «Chiudi la porta quando uscite».

    Prima o poi ti si romperà la sedia e allora picchierai le tue grosse natiche forte forte a terra, sorrisi, uscii e chiusi la porta nascondendo i miei pensieri.

    Mentre smaltivo la solita vertigine, quella volta dovuta alla rabbia, mi apprestai a tornare alla mia scrivania per mettermi al lavoro.

    Arianna era già al suo posto. Sedendomi le chiesi: «Ma poi, cosa hanno i miei capelli non l’ho mai capito. Secondo te, perché non gli piacciono?».

    «Mah, Fulvio, non è che ti stanno male, anzi; però, magari, forse potresti cominciare a pensare a un altro taglio».

    Poi riprese accennando un sorriso: «Magari poi negli anni ’90 non andranno più così lunghi sulle spalle».

    «Non lo so, li ho sempre portati così, a me piacciono».

    «Fu’, devi fare quello che ti senti ovviamente, lascia perdere Silvestri. Ci prendiamo un caffè prima di cominciare?», disse lei guardandomi e mettendo la sua mano sulla mia.

    «Certo che faccio come voglio, sai che me ne frega di quello. Caffè subito, vado a prepararlo», risposi.

    Andai nella saletta che utilizzavamo per mangiare qualcosa; nella stanza c’erano un paio di macchinette di ultima generazione, sapete del tipo di quelle del bar.

    Tornai e porsi la tazzina ad Arianna.

    «Grazie Fulvio», disse lei abbassando gli occhi sull’agenzia che gli aveva passato Silvestri.

    Bevvi il mio dando un’occhiata all’articolo corretto da Cicciobello.

    Ma guarda questo: ‘Ho aggiunto solo qualche piccola correzione’, ha detto. Maledetto!, altra vertigine.

    Arianna vedendomi agitato sulla sedia mi chiese cosa avessi fatto.

    «Guarda!», le feci aprendo a ventaglio i fogli dell’articolo: «È tutto rosso, aveva detto qualche correzione ma è tutto rosso!».

    «Dai Fu’, lo sai come è fatto».

    «Sai che ti dico Arianna: è proprio stronzo», risposi io a bassa voce, mettendo entrambe le mani davanti alla bocca per farmi vedere solo da lei, perché comunque non si sa mai.

    Mi ripresi rapidamente, tanto ero abituato: «A proposito Arianna, ma Carlo dov’è?». Carlo era il nostro primo vicino di postazione, scriveva di politica interna ma era un tuttologo: sapeva tutto, potevamo interrogarlo su qualsiasi cosa.

    «Ma, non lo so di preciso, so che andava in trasferta a Milano», disse Arianna.

    E così cominciò la nostra mattinata di lavoro in redazione. Negli ultimi anni ormai il fracasso tipico delle macchine da scrivere meccaniche era stato sostituito dal rumore di quelle elettroniche automatiche che, oltre a essere meno chiassose e più confortevoli, offrivano persino la possibilità di correggere gli ultimi caratteri digitati; così, nelle redazioni di fine anni ’80, il rumore più sommesso dei nuovi congegni faceva emergere il brusio dei redattori presi a commentare, telefonare o semplicemente a chiacchierare.

    Arrivò così l’ora di mangiare un boccone, io e Arianna ci sistemammo in saletta insieme ai colleghi presenti in redazione quel giorno.

    Preso il caffè, mentre gli altri scherzavano davanti alle macchinette, mi allontanai per avvicinarmi alla finestra. Scostai la tenda e il mio sguardo si perse lontano, volando dal quinto piano verso l’orizzonte.

    A Roma quel giorno le nuvole facevano a nascondino con uno splendido sole di inizio primavera; all’improvviso, mentre uno stormo di rondini attraversava il cielo proprio sopra di noi, un raggio di sole squarciò un grosso nembo di un grigio plumbeo. Viviamo sempre sotto il sole, ma l’unico vero momento in cui abbiamo la percezione di cosa sia un suo raggio, è quando questo squarcia una nuvola.

    Ero talmente perso nei miei pensieri psico-filo-antropo-sociologici che non mi accorsi della presenza di Arianna alle mie spalle.

    Mi sfiorò un braccio: «Oh, Fulvio, ma che stai a fa’?».

    Mi voltai e, improvvisamente, non riuscivo a capire se il raggio di sole fosse dentro o fuori la stanza.

    Potrete pensare che le frasi che avete appena letto siano melense, banali e senza contenuto: vi assicuro che non è così. Descrivere il sorriso di una come Arianna è complicato. Ci sono persone che non sorridono solo con la bocca; se si guarda solo la loro bocca non si riesce a percepire tutto il resto; solo guardando l’intero viso si capisce cosa significa un loro sorriso: bocca, occhi, zigomi, tutto è armoniosamente illuminato.

    Dopo essere rimasto inebetito per qualche secondo percepii le risate degli altri e mi ripresi: «Ah, no, stavo un attimo al calduccio: è primavera, non ci posso credere! Andiamo?».

    Tornammo al lavoro.

    Il pomeriggio passò velocemente; lavorammo tutti alacremente, come ogni giorno. Come sempre, a fine giornata quelli che correvano di più erano i menabò, i grafici che si occupano della struttura del giornale.

    Io e Arianna scendemmo insieme: «Senti Arianna, ti do uno strappo con la macchina, tanto m’è di strada».

    «Va bene, grazie».

    C’era ancora luce, Roma godeva del terzo giorno di ora legale in quel primo scorcio di primavera.

    Cominciai a guardarmi attorno, come al solito, in cerca della macchina; capitava quasi tutti i giorni che la mattina fossi talmente rincoglionito da non ricordare dove avevo parcheggiato.

    «Che palle! Ma dove l’ho messa», dissi guardando in giro.

    «Che ne so Fulvio, io non c’ero».

    «No, vabbè, non era una domanda», ci dirigemmo verso destra.

    «No, no, ora ricordo, è dall’altra parte», feci io mettendomi la mano sulla fronte dopo duecento metri.

    «E ti pareva Fulvio, dai su andiamo».

    Finalmente la vidi: la mia splendida Renault 4 marrone con cambio al volante, classe 1978. Splendida, non proprio nuovissima, ma unica.

    Entrammo, estrassi l’autoradio da sotto il sedile e la infilai nell’apposito vano; mi sintonizzai sulla mia radio preferita: ora c’era anche la musica.

    Partimmo. Arianna era sempre attratta da quell’apertura sotto i suoi piedi, vicino allo sportello del passeggero. Sì, diciamo che il pianale dell’auto aveva subito un danno, opera del proprietario precedente, e che quindi dal sedile a fianco al guidatore era possibile vedere l’asfalto scorrere proprio sotto i piedi. In realtà

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