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Il teatro degli specchi
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Il teatro degli specchi
E-book272 pagine3 ore

Il teatro degli specchi

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Info su questo ebook

In questa sua ultima opera Monaldo Svampa affronta per la prima volta un testo unico, in sé medesimo completo ed esaustivo, che romanzo non si potrebbe definire, rappresentando piuttosto la narrazione della crescita interiore simbolicamente e oniricamente espressa del proprio personaggio protagonista.
LinguaItaliano
Data di uscita16 giu 2020
ISBN9788855128421
Il teatro degli specchi

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    Anteprima del libro

    Il teatro degli specchi - Monaldo Svampa

    Monaldo Svampa

    Il teatro degli specchi

    Copyright© 2020 Edizioni del Faro

    Gruppo Editoriale Tangram Srl

    Via dei Casai, 6 – 38123 Trento

    www.edizionidelfaro.it

    info@edizionidelfaro.it

    Prima edizione digitale: giugno 2020

    ISBN 978-88-5512-084-5 (Print)

    ISBN 978-88-5512-842-1 (ePub)

    ISBN 978-88-5512-843-8 (mobi)

    Elaborazioni grafiche e illustrazioni a cura dell’autore

    http://www.edizionidelfaro.it/

    https://www.facebook.com/edizionidelfaro

    https://twitter.com/EdizionidelFaro

    http://www.linkedin.com/company/edizioni-del-faro

    Il libro

    In questa sua ultima opera Monaldo Svampa affronta per la prima volta un testo unico, in sé medesimo completo ed esaustivo, che romanzo non si potrebbe definire, rappresentando piuttosto la narrazione della crescita interiore simbolicamente e oniricamente espressa del proprio personaggio protagonista.

    L’autore

    Monaldo Svampa è nato il 31 maggio 1965 ad Alessandria. Ha collaborato come illustratore professionista a un’edizione della Gerusalemme Liberata edita dal Gruppo Editoriale del Drago di Milano (inserita nella collezione Gli immortali della letteratura) quando aveva ventitré anni. Vittima di disturbi nervosi che ne hanno compromesso la carriera artistica, ha continuato tuttavia tenacemente a realizzare e pubblicare disegni come tavole fuori testo a tema libero nei suoi precedenti libri, contenenti racconti, componimenti in versi, aforismi e pensieri: Il pipistrello bianco (La Rosa editrice – Crescentino), La rupe della solitudine (Fabiano Editore – Canelli), La vera storia di Joe di Giotto (Fabiano Editore – Canelli), Amedeo, il disegnatore cieco (Uni Service – Trento. Riedito da Edizioni del Faro, Trento), e Rime di Rimando (Edizioni del Faro – Trento). Con La bottega del rigattiere (Edizioni del Faro – Trento) egli si ripropose in veste di narratore, componitore di versi e, per la prima volta, ideatore di strutture visive realizzate tramite tecnica computer grafica in bianco e nero. Sua recente fatica editoriale è il libro intitolato Beltà in disegni e rime (sempre edito da Edizioni del faro – Trento), in cui spiccano 26 tavole sulla bellezza femminile corredate e illustrate da altrettanti componimenti in versi. In questa sua ultima opera, Il teatro degli specchi", egli affronta per la prima volta un testo unico, in sé medesimo completo ed esaustivo, che romanzo non si potrebbe definire, rappresentando piuttosto la narrazione della crescita interiore simbolicamente e oniricamente espressa del proprio personaggio protagonista. Vive e lavora a Nizza Monferrato, in provincia di Asti.

    Il teatro degli specchi

    Questo libro è dedicato a mia madre,

    senza le cui dolci rassicurazioni

    non sarebbe mai stato scritto.

    "Tu ne quaesiris, scire nefas, quem mihi, quem tibi

    finem di dederint, Leuconoe, …".

    (Orazio – Carpe diem – Hor. Carm. I-11)

    E io a lui: "I’ mi son un che, quando

    Amor mi spira, noto, e a quel modo

    ch’è ditta dentro vo significando".

    (Dante – Purgatorio – Canto XXIV – vv. 52-54)

    Prefazione

    Il teatro degli specchi non è forse un libro di facile lettura, o dalla trama veloce e intraprendente che coinvolga il lettore tramite i classici meccanismi del thriller psicologico, cosa che di fatto non è, tutt’altro! Malgrado questo, chi vi si accostasse con spirito critico ed intenzione costruttiva non lo troverebbe affatto noioso, e dilettevole alquanto.

    Il linguaggio è spesso quasi affettatamente eletto, in un non facile tentativo di musicalità verbale, a volte sconfinante nel genere favolistico, altre volte latore di spunti e ragionamenti profondi, al limite del didattico, e rappresenta pur sempre il tentativo più o meno nobile di onorare vecchi concetti di bella letteratura e poesia, oggi assai desueti, per non dire tristemente ed inesorabilmente decaduti.

    Il protagonista di tale non breve narrazione, un ragazzino adolescente, si affaccia ai problemi della sua interiorità non meno che a quelli di interazione e rapporto con l’ambiente che lo circonda (da cui proviene e sorge il teatro degli specchi, appunto, con le sue colorite, caleidoscopiche maschere, che in esso si muovono e parlano come misteriosi ectoplasmi dal valore per lui invero istruttivo), ed alla fine del suo percorso in esso riesce a ricavarne una libertà interiore, da cui deriva per conseguenza quella esterna a sé, che coincide con la scomparsa dell’onirico locale in cui viveva da neanche lui saprebbe dire quanto, prima che si verificasse l’evento scatenante, nel tempo primo del lungo racconto, e che giunge, ovviamente, quando egli è in grado di accoglierlo. Si tratta dell’incontro con il riflesso dell’omino degli orologi, il quale gli consentirà di avanzare nel prosieguo della sua vita al di fuori del teatro, di cui l’autore non dà descrizione, lasciandone al lettore l’oneroso incarico, poiché la narrazione è a struttura cosiddetta aperta.

    La composizione è semplice, divisa in otto tempi separati, e pur tra loro collegati senza soluzione di continuità alcuna, a parte il settimo, lo iato, che rappresenta più che altro un mutamento prospettico, tuttavia fondante e funzionale, perno stesso su cui ruota l’insieme degli eventi e dei dialoghi.

    La rappresentazione teatrale effettiva, cui il protagonista finalmente assiste nel VII tempo della narrazione, il sogno posto a cavallo tra il VI e l’VIII, guarda caso è un puro e semplice evento onirico, un sogno, appunto, all’interno di una narrazione simbolica del tutto intuitiva, la quale non è affatto manovrabile concettualmente, ma solamente attingibile tramite una quasi paradossale visione interiore.

    La tesi della narrazione, affatto individuabile ad una prima lettura (e forse anche a una seconda, per fortuna…), è molto semplice ed allo stesso tempo assai complessa.

    Il difficile compito dell’introspezione e dell’autoanalisi è in certo qual modo analogo a quello del medico patologo, che pratica la tipica incisione a Y nel torace del suo paziente, sdraiato sul tavolo durante l’indagine autoptica, e lo disseziona accuratamente al fine di trovare quel che cerca.

    Questo apparirebbe al comune lettore semplicemente orrido e disgustoso, tuttavia il dottore in questione dispone di un naturale distacco che gli permette di compiere senza alcun problema il suo lavoro.

    Ben diverso, ed invero assai più spaventoso, è l’arduo compito di indagare la mente umana, e ancor peggio le antiche sue origini ed ancestrali caratteristiche, specialmente se si tratta della nostra, poiché quel che si potrebbe con finta e semplicistica morale discernere all’interno di comportamenti eccentrici, magari disdicevoli, in altri individui, rischierebbe di smuovere qualcosa a noi stessi affine. Se ciò capitasse, a dispetto degli inconsapevoli e spesso fatui sbarramenti che la mente pone a sua illegittima quanto necessaria difesa, inevitabilmente scorgeremmo cose affatto di nostro gradimento.

    E tuttavia, se privi del necessario distacco, proprio del medico patologo cui dianzi ci riferivamo, perderemmo indubbiamente l’occasione di meglio conoscerci, ed affrontare adeguatamente preparati le innumerevoli difficoltà della vita poste dentro e fuori di noi.

    Il teatro degli specchi, ovvero la narrazione che ad esso si riferisce, sottintende quell’ineffabile teatro interiore la cui rappresentazione si svolge all’interno di ogni uomo, e a cui come è stato detto non è possibile accedere concettualmente, cosicché solo tramite l’intuito e la visione potremmo esserne da prima abbagliati, e poi, forse, meglio comprenderla ed uniformarci ad essa, in apparente contraddizione con quanto precedentemente affermato, cosa che appunto fortunatamente accade al giovane protagonista della nostra storia.

    Ciò nonostante è doveroso compito dell’autore sminuire ed edulcorare tali ansiogeni concetti, nonché stemperarli durante il racconto (che si svolge con stili e modalità diverse a seconda del suo intento), mediante la tipica tecnica dell’affabulazione e della bellezza colorita delle immagini e dei simboli, nonché dei prototipi del proprio inconscio individuale, con i quali il giovane protagonista si confronta candidamente, in maniera cordiale e genuina.

    Chi si accostasse con dilettevole e giudizioso impegno a tale modesta opera non potrà che fruire con soddisfazione delle numerose possibilità e spunti ragionativi che essa offre.

    Consiglio comunque il cortese lettore delle precedenti righe di presentazione al testo, forse un po’ troppo astruse e pretenziose, di considerare quanto sta accingendosi a leggere come la lunga, fantasiosa, fantasmagorica e caleidoscopica favola di un fanciullo che scopre, attraverso il dolce e sereno dialogo con le proprie interiorità profonde, il modo di raggiungere quella libertà e comprensione di sé indispensabili ad iniziarlo al meraviglioso gioco della vita.

    1. – Il sesso degli angeli

    Tempo I (Incipit)

    Da ormai molto tempo M, al risveglio, cercava di pettinarsi e rassettarsi meglio che poteva, evitando con cura di servirsi dello specchio.

    Tuttavia, quella mattina, colto di sorpresa da un involontario, dispettoso automatismo, ad esso si volse appunto, e la sua immagine riflessa destò in lui proprio quel languore che intendeva evitare, e che peraltro sempre lo pervadeva, ma giungeva all’apice e ancor più fitti destava i triboli latenti nell’animo suo di adolescente quando amaramente la incontrava, e si avvedeva spaesato di non riconoscersi affatto in essa.

    Non mi riconosco pensava.

    Davvero io non riesco a capire. Lo specchio mostra indubbiamente la mia immagine, sebbene capovolta, lo so bene, ma questo fatto non dovrebbe essere di per sé sufficiente a creare un simile divario doloroso e ansiogeno tra come io mi sento (o non mi sento?) e come io mi vedo. Ma sono davvero io quel che con angoscia guardo al di là di esso? Giuro che, dovessero pur sottopormi a dolorose torture, non potrei rispondere a tale inusitata domanda se non ribadendo quel malessere ineffabile e strano, la cui origine m’è tragicamente occulta. È un dolore, certo, un dolore sordo, stuporoso, continuo, sempre in me latente, misto dell’inconsapevolezza e dell’insensatezza dell’origine del proprio soffrire, dell’assurdità odiosa ed allarmante di quanto provo, ma soprattutto non provo. Dentro di me vanno agitandosi fantasmi con i quali ho imparato a convivere, e che forse temo meno d’un tempo (Ma da quanto tempo? Da quale tempo? Pagherei per poter trovare una risposta a tali ovvie, in apparenza, ed insolubili questioni, lancinanti invece nella loro disperata, dispotica sostanza). Tuttavia tali misteriosi fantasmi, indifferenti ed ignoti, mi consentono quei quotidiani automatismi che pur privano di sapore e significato, e sortiscono il sordo, torpido effetto d’ottundere una mente, la mia, la cui resa pare segnata da tanto. Solamente sostituiscono il dolore sin troppo acuto, reale e vivido dell’ascesso con il ronzio continuo del dente che rode, ormai neanche tu sai da quanto, fonte in ogni caso di una claudicante, dolorosa masticazione di cibi pur graditi e normali. Normalità! Questa parola mi è odiosa, forse perché qualcosa dentro di me l’odia, ed altra la brama e cerca, neppure io so come, dove, quando, e soprattutto, perché? Perché? Altra parola in sé stessa assai semplice, laconica, breve insomma, manifestamente chiara nell’enunciato come perversa nell’oscurità di una risposta che dovrebbe sottendere, e della quale io sono ormai da sin troppo tempo in attesa, tanto che neppur più spero forse esista! Mi desto e svolgo le mie umili mansioni in questo teatro, e vivo, e soffro, e anelo ancor vagando a tentoni in fondo ad una buia segreta, in cerca di un motivo per indagare ancora su risposte che la mia giovane età non dovrebbe neppur presupporre, abbandonandosi lieta al confortevole abbraccio della spensieratezza. E invidio. Invidio Narciso, il primo attore, perché sono disperatamente innamorato di Ninfa, la sua splendida compagna e prima attrice nella rappresentazione scenica a me ignota che va quotidianamente replicandosi nel teatro degli specchi. Questa invidia e questo amore, come le altre molteplici, intricate passioni che si incrociano nel mio petto, troppo angusto per contenerle tutte, mi accecano, mi confondono e dannano, se pur consapevole di essere nato con loro. Oppure, chissà, esse non sono nemmeno reali… Sempreché reale io sia. Se il semplice specchio da toeletta del mio camerino può suscitare in me tanta amarezza e sconforto, cosa potrebbero fare le mie immagini riflesse dalle innumerevoli e meravigliose specchiere che costituiscono l’anomalo e incongruente sostituto delle finestre, in tale misterioso luogo, dalle cornici ricche e finemente cesellate, se rivolgessi loro lo sguardo? Ma sto bene attento a che ciò mai avvenga, scorrendo in fretta i miei passi furtivi e pavidi lungo i lucidi e sfarzosi pavimenti del teatro, a capo chino, come un ladro, vergognoso d’essere da esse scoperto e punito. Ladro di che, poi? E chi mai ha invece defraudato crudelmente me della serenità dei miei anni adolescenti? Basta! Devo andare. Lo spettacolo tra poco avrà inizio.

    L’autore frettoloso non si è neanche preso la briga di descrivere, pur sommariamente, il camerino in cui il lettore ha incontrato il protagonista di questa storia, tutto impegnato ad indagare, discreto per quanto possibile, i pensieri che sovraffollavano la sua mente adolescenziale sin troppo solerte, acuta e sofferente, come quella di un adolescente non dovrebbe punto essere.

    Del resto, la disamina è presto e concisamente effettuata.

    Si tratta di una stanzetta non certo spaziosa, ma neppur scomodamente angusta, che comprende un lettino ad una piazza, addossato contro la parete di fondo, ai piedi del quale è steso un piccolo tappeto piuttosto impolverato, dai gradevoli se pur sbiaditi disegni geometrici ed arabeschi, e un tavolino invero grazioso nella sua semplicità spartana, dotato di una cassettiera, atto allo studio oppure alla scrittura, e corredato di una sedia di guisa rude, come tagliata con l’accetta. Lì accanto era un semplice lavabo, dietro il quale faceva mostra di sé un ampio specchio quadrato, nudo e privo di cornice o qualsiasi altro orpello, involontario e malaugurato spunto delle cupe riflessioni che chi narra ha poc’anzi avuto l’inopportunità di sondare.

    Singolare fatto è che tale non certo largo spazio fosse munito di ben due uscite (O dovremmo dire entrate? Questa, ne converrete, è osservazione meno oziosa di quanto parrebbe a prima vista).

    La prima si affacciava su un lunghissimo corridoio, dove si aprivano, da un lato, gli ingressi ai palchi, con scorci che davano sul palcoscenico e la platea dal livello più basso. Sul fianco opposto sfilavano invece diversi portoncini, posti a distanze tra loro varie, tutti di squisita fattura, e rilevati, dietro i quali riposavano locali vari ad uso abitativo e no, principalmente camerini di altri abitanti del nostro fantasioso ed ineffabile teatro, dei quali il lettore avrà certo modo di approfondire la conoscenza in seguito.

    La seconda uscita, fatto invero curioso e singolare, aveva dimensioni piuttosto anguste (difficilmente un uomo di robusta complessione avrebbe potuto varcarne la soglia), e conduceva, tramite una ripida scaletta, a un lungo e stretto cunicolo interamente rivestito di levigati pannelli di legno, ai lati del quale una fila di lumi a petrolio in squisita foggia ottocentesca illuminava fiocamente il passaggio (chi mai però tenesse in vita quei lumi non ti chiedere, lettore mio, e attendi che te ne sia data ancor più enigmatica risposta nel prosieguo della narrazione). In questa sorta di tunnel, sapientemente ricavato all’interno dell’intricata architettura del teatro, egli quotidianamente si addentrava per sortire, direttamente e invisibile a tutti, in un ampio locale situato proprio sotto il palcoscenico, dove si svolgeva il suo lavoro d’ogni giorno.

    Quale fosse la mansione affidatagli, innegabilmente umile, anonima ed oscura, ma anche determinante ai fini del corretto funzionamento di una assai ingegnosa macchina scenica, avremo tra poco modo di scoprirlo.

    Aprì dunque l’uscio di questo stretto andito, e si recò come ogni mattino a svolgere quel che si potrebbe incontestabilmente definire il suo semplice ruolo all’interno del teatro, un regolare impegno che certo non amava, pur convinto che fosse suo sacro e inderogabile dovere assolverlo, comunque e in ogni caso, senza ben sapere nemmeno lui perché. Attraversò quindi il consueto cunicolo, ed in fondo (oppure alla cima? Di nuovo dipende dai punti di vista) incontrò la porta che dava adito al sottopalco.

    Una volta entrato si avvicinò ad un lungo e grosso palo orizzontale di ampio diametro, sapientemente intarsiato da un’ignota e assai abile mano artigiana. Culminava ad un’estremità in una vite senza fine, dentro la quale se ne innestava un altro, simile ma con asse di rotazione perpendicolare al primo, posto in comunicazione tramite una fitta selva di ingranaggi con un enorme perno rivestito di metallo. Questo sorreggeva la sezione centrale di un’area circolare interna al palcoscenico, di raggio assai ampio, in esso intagliata e da questo di fatto separata, suddivisa in otto settori concentrici evidenziati da una lamina di ferro spessa una decina di centimetri.

    All’altra estremità del palo parallelo al pavimento si trovava il lungo manico di una leva, che sarebbe poi stato suo compito manovrare nelle modalità che l’autore descriverà fra poco. Poggiata su un tavolino lì accanto era una candela bianca, di forma assai semplice e scarna, alta e diritta, posta vicino ad un listello di legno che ne sfiorava l’esile stelo, in cui erano intagliate otto tacche ad intervalli assai ben meditati per il loro scopo.

    Il suo compito consisteva nell’accendere la candela quando il poderoso meccanismo scenico finalizzato a sollevare il sipario

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