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Virus: eLit
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E-book326 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Miniserie "Maggie O'Dell" - Vol. 5. La profiler dell'FBI Maggie O'Dell non avrebbe mai voluto mangiarla, ma ora quella dannata ciambella minaccia la vita di tutti. E anche la sua. Una mente malata di onnipotenza sta architettando un piano diabolico. Ma di cosa si tratta? E dove colpirà ancora? Gli esperti di armi batteriologiche stanno lottando contro il tempo. Ma di tempo ne è rimasto davvero poco, anche per Maggie, che sente il nemico crescere dentro di sé. Il coraggio di una donna che affronta quella che potrebbe essere la sua ultima sfida. Una mente che tesse la sua trama con citazioni dei più feroci killer. Lo spettro delle armi batteriologiche. E sullo sfondo le passioni, gli amori e i conflitti di uomini e donne che difendono la legge. Un thriller corale e di grande azione, che vi farà temere e sperare.

LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2015
ISBN9788858935118
Virus: eLit
Autore

Alex Kava

"Un vero serial killer ha scatenato la mia fantasia letteraria" racconta Alex Kava, ricordando un episodio che coinvolse la piccola comunità nella quale viveva. Da lì nasce il personaggio della profiler Maggie O'Dell, che ha conquistato milioni di lettrici in tutto il mondo.

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    Anteprima del libro

    Virus - Alex Kava

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Exposed

    Mira Books

    © 2008 S.M. Kava

    Traduzione di Elisabetta Humouda/Grandi & Associati

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2009 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5893-511-8

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    1

    Lago Victoria

    Uganda, Africa

    Waheem sanguinava già quando salì sulla barca affollata. Si premette uno straccio sul naso, nella speranza che gli altri passeggeri non se ne accorgessero. Poco prima, il proprietario della barca, un uomo che gli isolani chiamavano Pastor Roy, lo aveva aiutato a caricare in uno spazio angusto la gabbia arrugginita delle scimmie. Ma appena a un miglio dalla costa, Waheem vide Pastor Roy scambiarsi un’occhiata con la moglie che invece osservava il sangue che colava copioso sulla camicia di Waheem. Dall’espressione di Pastor Roy capì che si era pentito di avergli offerto l’ultimo posto.

    «L’epistassi è un fenomeno comune su queste isole» disse Pastor Roy, quasi fosse una domanda, e aspettandosi una spiegazione da Waheem.

    Lui annuì come se non capisse a cosa si stesse riferendo. Capiva perfettamente la lingua inglese, ma fingeva il contrario. Non ci sarebbe stata un’altra barca per il trasporto di carbone o di banane per due giorni e Waheem era grato di quella fortuna, grato del fatto che Pastor Roy e sua moglie lo avessero lasciato salire a bordo, nonostante la gabbia con le scimmie. Waheem sapeva che da Buvuma Island a Jinja ci sarebbero voluti quaranta minuti e preferì tacere piuttosto che parlare di Gesù con il pastore. Gli altri passeggeri erano saliti prima, quindi gli era toccato restare a prua, a portata di salvezza divina. Non voleva che il pastore si sentisse incoraggiato a salvare un’altra anima durante il tragitto sul lago.

    Inoltre gli altri, un triste gruppo di donne e bambini scalzi e un anziano cieco, sembravano aver bisogno di quella salvezza molto più di lui. Nonostante il naso sanguinante e il mal di testa acuto, Waheem era giovane e forte e, se tutto fosse andato come da programma, lui e la sua famiglia sarebbero diventati ricchi e si sarebbero comprati uno shamba tutto per loro invece di spaccarsi la schiena a lavorare per gli altri.

    «Dio è qui» disse Pastor Roy, che chiaramente non aveva bisogno di essere incoraggiato.

    Teneva il timone con una mano e con l’altra indicava le isole che si vedevano in lontananza.

    Cominciò uno dei suoi sermoni.

    Gli altri passeggeri chinarono la testa, un gesto quasi involontario in risposta alla voce dell’uomo. Consideravano quel gesto di reverenza come un rimborso simbolico per il passaggio sulla barca del pastore. Anche Waheem chinò il capo, ma continuò a osservare la scena da dietro lo straccio insanguinato, fingendo di ascoltare e di non sentire l’odore dell’urina delle scimmie e le gocce del proprio sangue che gli colavano dal mento. Notò che gli occhi del cieco, bianchi e lattiginosi, si muovevano veloci e che le sue labbra rugose tremavano in un mormorio sommesso, forse una preghiera.

    Una donna accanto a Waheem stringeva con forza l’orlo di una borsa che si agitava e puzzava di galline vive. Stavano tutti in silenzio tranne tre bambine sul fondo della barca che sorridevano. Canticchiavano piano. Nonostante la voglia di giocare, avevano capito che era meglio non disturbare il sermone del pastore.

    «Dio non vi ha dimenticato» continuò Pastor Roy, «e nemmeno io.»

    Waheem guardò la moglie del pastore. Non sembrava attenta alle parole del marito. Era seduta accanto a lui sulla prua della barca e spalmava sulle braccia bianche e nude un liquido chiaro tratto da una bottiglia di plastica, fermandosi ogni tanto per allontanare le mosche dai lunghi capelli lucidi.

    «Tutte le isole del lago Victoria sono piene di emarginati, poveri, criminali, malati...» Si interruppe e fece un cenno a Waheem, volendo differenziare il suo handicap dagli altri della lista. «Ma io vedo solo figli di Gesù in attesa di essere salvati.»

    Waheem non lo corresse. Non si considerava uno degli emarginati ammalati di Buvuma, anche se ce n’erano in abbondanza. Capitava spesso di vedere persone malate o ricoperte di piaghe.

    Le isole, per molti, erano l’ultima spiaggia. Ma non per Waheem. Non era mai stato malato in vita sua, perlomeno fino alla sera prima, quando aveva cominciato a vomitare.

    Durava ormai da ore. Lo stomaco gli doleva. Non voleva pensare a quel vomito nero e sanguinolento. Temeva di aver rigettato pezzi di sé, o così gli era parso. Adesso la testa gli faceva male e il naso non smetteva di sanguinare. Ripiegò lo straccio cercando di trovare un angolino ancora pulito.

    Il sangue gli colò sui piedi impolverati e osservò le scarpe tirate a lucido del pastore. Waheem si domandò come Pastor Roy potesse aspettarsi di salvare le persone senza sporcarsi le scarpe.

    Non aveva importanza. A Waheem interessava solo portare le sue scimmie a Jinja in tempo per incontrare l’americano, un uomo d’affari che indossava anche lui un bel paio di scarpe tirate a lucido. L’uomo gli aveva promesso una fortuna. Perlomeno a Waheem era sembrata una fortuna. L’americano gli avrebbe pagato ogni scimmia più di quanto lui e suo padre guadagnavano in un anno di lavoro.

    A dire il vero lui avrebbe voluto catturarne di più, d’altra parte gli ci erano voluti ben due giorni per rinchiudere nella gabbia di metallo le tre scimmie che aveva trovato.

    A guardarle ora, nessuno poteva immaginare la fatica che gli era costata. Waheem aveva assaggiato i denti aguzzi di quelle scimmie che se fossero riuscite ad avvolgere la coda intorno al collo di un uomo, gli avrebbero distrutto la faccia nel giro di pochi minuti. Lo aveva imparato nei due mesi in cui aveva lavorato per Okbar, un grosso esportatore di scimmie di Jinja.

    Il lavoro non era male, le reti e i narcotici che gli forniva Okbar semplificavano il suo compito. Waheem doveva catturare gli animali malati scartati dal veterinario inglese responsabile delle spedizioni di centinaia di esemplari ai laboratori di ricerca inglesi e americani.

    Il veterinario era convinto che Waheem li prendesse per poi eliminarli, ma Okbar lo considerava un grosso spreco.

    Invece di eliminare gli animali, Okbar ordinava a Waheem di portarli su un’isola del lago Victoria e di lasciarli liberi. A volte, quando a Okbar ne mancava qualcuno per completare la spedizione, mandava Waheem sull’isola a riprendersi quelli malati. E spesso il veterinario non se ne accorgeva.

    Ma ora Okbar non c’era più. Erano passati mesi da quando era stato visto per l’ultima volta e Waheem non sapeva che fine avesse fatto. Un bel giorno, trovò il piccolo ufficio disordinato di Jinja completamente vuoto: niente mobili, né reti, né narcotici. Nessuno sapeva cosa fosse accaduto a Okbar. E Waheem si era ritrovato senza lavoro. Non aveva dimenticato lo sguardo deluso di suo padre. Sarebbero dovuti tornare a lavorare nei campi.

    Poi, un bel giorno, a Jinja era arrivato l’americano e aveva chiesto di Waheem, non di Okbar, ma di Waheem. Era venuto a conoscenza della storia delle scimmie che venivano portate sull’isola ed erano proprio quelle che voleva. Le avrebbe pagate bene.

    «Ma devono essere proprio quelle dell’isola in cui tu portavi gli esemplari scartati» aveva spiegato a Waheem.

    Waheem non capiva perché qualcuno volesse delle scimmie malate. Le osservò nella gabbia arrugginita, strette l’una all’altra. Avevano il naso incrostato di muco verde e la faccia senza espressione. Non volevano né bere né mangiare. Waheem evitò di incrociare il loro sguardo perché sapeva bene quanto una scimmia, benché malata, fosse brava a sputare.

    Una delle scimmie doveva essersi accorta che Waheem la stava esaminando perché all’improvviso afferrò le sbarre e si mise a gridare. Quelle grida non infastidivano Waheem, ci era abituato. Era normale, al contrario di quel loro strano silenzio. Ma un’altra si unì al coro di grida e Waheem vide la moglie del pastore alzarsi e guardarlo. Sul suo viso perfetto il sorriso era sparito. A Waheem non sembrava né spaventata né preoccupata, aveva solo l’aria disgustata. Temette che il pastore lo costringesse a gettare in acqua la gabbia o, peggio ancora, che lo costringesse a saltare in acqua insieme con loro. Perché lui, come la maggior parte degli isolani, non sapeva nuotare.

    Il dolore alla testa unito alle grida delle scimmie gli dava la sensazione che la barca stesse beccheggiando. Venne assalito dalla nausea e solo in quel momento si rese conto che la sua camicia era intrisa di sangue scuro. Continuava a sanguinare. Lo sentiva in bocca, in gola. Deglutì e gli venne da tossire.

    Gli schizzi di saliva sanguinolenta raggiunsero le scarpe del pastore.

    Waheem si guardò intorno evitando lo sguardo dell’uomo. Tutti lo stavano osservando. Se avessero potuto scegliere, l’avrebbero scaraventato volentieri fuori dalla barca. Li aveva visti inchinarsi alle parole del pastore ed era certo che avrebbero ubbidito a ogni sua richiesta. Erano ormai troppo lontani dalle isole, non ce l’avrebbe mai fatta a restare a galla.

    Di colpo, il pastore gli fece un cenno e Waheem si alzò di scatto, ma dopo essersi riseduto, vide che Pastor Roy non aveva intenzione di buttarlo in acqua.

    Gli stava solo porgendo un fazzoletto bianco ricamato.

    «Tieni» gli disse il pastore in tono gentile. Quando vide che Waheem non reagiva, Pastor Roy continuò: «Il tuo è tutto sporco». E gli indicò lo straccio fradicio. «Tieni, a te serve più che a me.»

    Waheem guardò gli altri che non avevano smesso di fissarlo e notò l’espressione irritata della moglie del pastore, che però non guardava lui. Guardava con espressione rabbiosa il marito.

    Il resto della traversata si svolse in silenzio, interrotto solo dalle canzoni delle bambine. Il suono delle loro voci fece cadere Waheem in uno stato onirico. A un certo punto credette di aver sentito sua madre che lo chiamava dalla riva. Aveva la vista annebbiata e sentiva solo il battito del suo cuore.

    Quando la barca attraccò, si sentiva debole e gli girava la testa. Pastor Roy dovette trasportare la gabbia mentre Waheem lo seguiva tra la folla di donne con cesti e borse, di uomini che bighellonavano e di biciclette.

    Il pastore posò la gabbia e Waheem lo ringraziò. Ma prima che il pastore si voltasse per andarsene, Waheem cadde sulle ginocchia, in preda a un accesso di tosse soffocante e vomitò sulle scarpe tirate a lucido. Cercò di ripulirsi la bocca, ma si accorse che perdeva sangue dalle orecchie. La gola gli si riempì di nuovo. Sentì la mano del pastore sulla spalla e Waheem quasi non riconobbe la voce che ora chiamava aiuto. La pacata autorevolezza dei suoi sermoni aveva lasciato il posto a un grido di panico.

    Il corpo di Waheem sobbalzò. Braccia e gambe si contorcevano nella polvere: un attacco di convulsioni incontrollabile. Non riusciva a respirare. Un nodo gli chiudeva la gola e non poteva deglutire. Poi percepì un movimento dentro il suo corpo, l’aveva addirittura sentito, come se qualcosa si strappasse. Il sangue sgorgava da ogni dove, ma il cervello non percepiva alcun dolore, soltanto lo shock.

    Lo shock di vedere così tanto sangue e di capire che proveniva dal suo corpo si era sovrapposto al dolore.

    Fu circondato da una piccola folla che lui riusciva a malapena a distinguere. Anche la voce del pastore divenne un mormorio distante. Waheem non lo vedeva più. E non si accorse dell’uomo d’affari americano che infilava la mano guantata nella maniglia della gabbia e si allontanava.

    2

    Due mesi più tardi

    8:25

    Venerdì 28 settembre 2007

    Quantico, Virginia

    Maggie O’Dell osservò il suo capo, il vicedirettore Cunningham, mettersi gli occhiali ed esaminare la scatola di ciambelle trovata fuori del suo ufficio come se dovesse decidere sulla vita o sulla morte di molte persone.

    Aveva lo stesso sguardo intenso di quando doveva prendere una decisione, che fosse quale tipo di ciambella scegliere o come dirigere la BSU, l’Unità di Scienze Comportamentali. L’espressione seria, nonostante le rughe sulla fronte e intorno agli occhi, non era molto diversa. Con l’indice si tamburellò sul labbro sottile.

    Era in piedi, con le gambe leggermente divaricate, nella stessa posizione che assumeva sparando con la sua pistola. Erano da poco passate le otto e le maniche perfettamente stirate della sua camicia erano già meticolosamente arrotolate con i polsini ripiegati all’interno.

    Uomo molto alto e atletico, poteva tranquillamente mangiarsi anche tutte e dodici le ciambelle senza doversi preoccupare della linea. I capelli brizzolati erano l’unico segno del suo invecchiamento.

    Maggie aveva sentito dire che, sulla panca con il bilanciere, riusciva a sollevare venticinque chili più di quanto sollevassero le reclute di trent’anni più giovani di lui. Quindi non era un problema di calorie a rallentare la scelta.

    Maggie guardò la scatola. Per molti aspetti, nel corso degli anni, era arrivata ad assomigliargli. Pantaloni spiegazzati, abito color rame adatto ai capelli castano chiaro e occhi marroni che non si distraevano mai e che non attiravano l’attenzione, e un passo deciso che emanava autostima.

    Maggie sapeva che a volte esagerava un po’. Le vecchie abitudini erano dure a morire.

    Dieci anni prima, quando Maggie aveva deciso di diventare agente speciale, la sua sopravvivenza era dipesa dalla sua capacità di adattarsi ai colleghi uomini. Niente pettinature frivole, pochissimo trucco, abiti di sartoria, ma niente di troppo aderente. Ovviamente, l’FBI non era un’agenzia che puniva le donne attraenti, ma Maggie sapeva anche che nemmeno le premiava.

    Ultimamente aveva comunque notato che gli abiti le stavano troppo larghi. E non per eccesso di prudenza, ma per puro e semplice stress. Da luglio aveva aumentato il proprio allenamento quotidiano passando da quattro a sei chilometri di jogging al giorno, al momento diventati addirittura otto.

    A volte le gambe le dolevano, ma non demordeva. Qualche muscolo dolorante valeva bene un cervello sgombro. Ne era più che convinta.

    Non era solo una questione di stress, ma anche di un insieme di cose che negli ultimi mesi le aveva creato una certa confusione mentale.

    Sulla sua scrivania c’era una pila di dossier e uno di questi, un caso accaduto a luglio, continuava a comparire in cima alla pila: un delitto irrisolto in uno dei bagni dell’O’Hare International Airport di Chicago. Un prete che era stato pugnalato al cuore. Un prete che si chiamava Padre Michael Keller e che aveva occupato la mente di Maggie per troppi anni. Keller era uno dei sei sacerdoti sospettati di molestie sessuali sui bambini. Nel giro di quattro mesi, tutti e sei i sacerdoti erano stati uccisi e tutti nella stessa maniera. A luglio, l’omicidio di Keller era stato l’ultimo.

    Maggie era certa che l’assassino non uccidesse più, avendo promesso di smettere per sempre.

    Lei era convinta che se si arrivava a patteggiare con un killer, questo significava che la mente non era lucida.

    Il lato oscuro di una mente annebbiata. Il lato illuminato della sua mente, invece, era occupato, persino troppo, da una persona, un tale che si chiamava Nick Morrelli.

    Prese una ciambella al cioccolato e diede un morso.

    «Tully di solito mi frega quelle al cioccolato» spiegò, quando Cunningham sollevò il sopracciglio.

    Poi annuì, accettando quella spiegazione.

    «A proposito, dov’è?» gli chiese. «Dev’essere in tribunale tra un’ora.»

    Normalmente non si occupava dell’agenda del collega, ma se Tully non andava a testimoniare, le sarebbe toccato sostituirlo mentre, per una volta, aveva deciso di andarsene prima. Aveva dei progetti per il weekend. Lei e il detective Julia Racine avevano deciso di fare un’altra gita in Connecticut. Julia per andare a trovare il padre e Maggie per incontrare un antropologo forense, Adam Bonzado, che aveva manifestato la speranza di distrarre Maggie dalle mail, i messaggi, i fiori e le lettere con cui il persistente Nick Morrelli la stava inondando nelle ultime cinque settimane.

    «Hanno cambiato la data dell’udienza» le rispose Cunningham, ma Maggie si era quasi dimenticata dell’argomento di discussione. La sua espressione doveva averla tradita perché Cunningham continuò: «Tully aveva un problema di famiglia di cui occuparsi».

    Cunningham si decise per una ciambella con la glassa.

    Continuando a esaminare il contenuto della scatola, aggiunse: «Sai com’è, quando i figli diventano adolescenti».

    Maggie annuì, ma non ne aveva idea. I suoi obblighi familiari si limitavano a un labrador bianco di nome Harvey, felice dei suoi due pasti al giorno, delle abbondanti grattatine dietro le orecchie e di un posto dove dormire ai piedi del suo letto matrimoniale. Quello stesso pomeriggio, si sarebbe ritrovato sul sedile posteriore di pelle della Saab di Julia Racine, contento di partecipare alla gita.

    Maggie si domandò che cosa stesse mai pensando Cunningham. Non ricordava di averlo mai sentito scusarsi di un ritardo per motivi familiari.

    Dopo dieci anni di collaborazione, Maggie non sapeva nulla della famiglia del vicedirettore. Non c’erano fotografie sulla sua scrivania ordinata, niente che potesse far pensare a una famiglia. Sapeva che era sposato, anche se non aveva mai conosciuto la moglie.

    Maggie non ne conosceva nemmeno il nome.

    Non venivano invitati alle stesse feste natalizie, anche perché Maggie non vi andava mai.

    Cunningham teneva la sua vita privata assolutamente privata. E Maggie aveva imparato da lui.

    Nemmeno sulla sua scrivania c’erano foto. Durante le fasi del divorzio, non ne aveva fatto parola sul posto di lavoro. Erano in pochi a sapere che era sposata. Teneva le due vite ben separate. Era costretta a farlo.

    Cosa che il suo ex marito Greg aveva esibito come prova e motivo di abbandono nel dibattimento del divorzio.

    «Come fai ad amare qualcuno e a mantenere distaccata una parte così importante della tua vita?»

    Non aveva saputo rispondere. Non aveva saputo offrirgli delle spiegazioni.

    Non era molto brava a tenere le cose separate e sapeva benissimo che una persona che per mestiere analizzava il comportamento criminale e dava la caccia ai malvagi, doveva separare le diverse parti della propria vita per mantenere la propria integrità. Sembrava un ossimoro di convenienza: separare e dividere per mantenersi integri.

    Si chiese se anche Cunningham dovesse dare spiegazioni a sua moglie. Evidentemente era stato molto più bravo di lei a dare spiegazioni. Ulteriore motivo per cui aveva adottato la sua abitudine di mantenere la privacy.

    No, Maggie non sapeva come si chiamava la moglie di Cunningham o se aveva dei figli o qual era la sua squadra di football preferita o se credeva in Dio. Lo ammirava per questo. Dopotutto, meno cose si sapevano, minore era il rischio di rimanere feriti. Era uno dei pochi modi per controllare i danni collaterali, una cosa che Maggie aveva appreso fin troppo bene sulla propria pelle.

    Dal suo divorzio, non aveva permesso a nessuno di avvicinarsi a lei. Non era necessario separare la vita professionale da quella privata se quest’ultima era inesistente.

    «Aspetta.» Cunningham afferrò il polso di Maggie per impedirle di prendere un secondo boccone.

    Gettò la sua ciambella sulla scrivania e indicò la scatola.

    Maggie si aspettava di vedere uno scarafaggio o qualcosa di altrettanto letale: vide l’angolo di una busta bianca infilata sul fondo della scatola. Tra le ciambelle, riuscì a scorgere delle lettere maiuscole. Una scatola di ciambelle era un dono comune tra gli agenti. Il fatto che contenesse un biglietto non avrebbe dovuto scatenare una tale reazione.

    «Qualcuno sa

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