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L'esilio dei moscerini danzanti giapponesi
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L'esilio dei moscerini danzanti giapponesi
E-book206 pagine2 ore

L'esilio dei moscerini danzanti giapponesi

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Info su questo ebook

«Ogni tanto rileggo le lettere che con Antonio Tabucchi ci siamo scambiati negli anni. Ci scrivevamo sempre di notte. Dicono che gli esuli fanno bene due cose, una è camminare lungo le rive di un fiume, di un mare, di un lago, di un canale; l’altra è non dormire la notte». Il mare, le spiagge, l’orizzonte di sabbia, le acque ricorrono nel libro come un connettivo della nostalgia.Un uomo, di professione traduttore, ha lasciato la Liguria, è andato lontano (in diversi lontani) e non è più tornato. Un esilio volontario, forse da sé stesso. I luoghi e le circostanze del passato e del presente si allacciano come in una treccia: i collegi, la valle ulivata dell’infanzia, le caserme e i reparti neuro dove colui che racconta ha vissuto «nei dieci anni di residenza nella notte»… Sono ritorni e ripartenze, dalle rive del mare di casa (percorso trecento volte e mai davvero conosciuto) alle dune del Mare del Nord, in Olanda, e nei luoghi anfibi dove la sera si radunano i gabbiani e i moscerini danzanti giapponesi.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788898848584
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    Anteprima del libro

    L'esilio dei moscerini danzanti giapponesi - Marino Magliani

    quisiscrivemale

    L’ESILIO DEI MOSCERINI DANZANTI GIAPPONESI

    Marino Magliani

    L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi

    di Marino Magliani

    Collana quisiscrivemale

    © 2017 - Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Impaginazione omgrafica, roma

    ISBN 978-88-98848-58-4

    Pascolano l’aria

    primaverile

    magre farfalle

    nell’odor di timo.

    Mario Novaro

    UNO

    Mia madre era una formidabile sterminatrice di mosche. In paese la morte delle mosche dipendeva dalle donne, se quel giorno si decideva di prendere il tè da scià Rafelina, a morire erano le mosche della cucina di scià Rafelina. Non importa se giravano nelle stanze o in sala, prima o poi si sarebbero posate da qualche parte in cucina e scià Rafelina e le sue amiche le avrebbero uccise.

    Era un paese stradale, a tratti l’asfalto seguiva le anse ghiaiose del torrente, con vicoli eternamente all’ombra, e panchine di pietra su cui d’estate sedevano donne di ogni età. Poi a una cert’ora le braccianti tornavano agli uliveti e al fresco restavano solo le vecchie.

    Vedevo tutte quelle donne salire in colonna come formiche, su per le mulattiere che dividevano gli orti e le vigne, e sparire dietro il costone, per poi rispuntare un attimo, fin quando la fronda azzurra non inghiottiva definitivamente scalinata e colonna.

    Le vecchie raccontavano che anticamente esisteva anche un secondo paese, poi erano arrivate le formiche e il fiume nero aveva divorato le case.

    Le formiche mi sembravano molto meno furbe delle mosche, le formiche argentine ad esempio entravano e uscivano dalle stesse fessure e bastava spruzzarci un po’ di ddt per mandarcele a morire tutte quante. Le mosche invece certi pericoli li intuiscono e dove andava una non ci girava l’altra o ci arrivava per voli diversi.

    Mia madre era la donna più buona della valle ed era una formidabile sterminatrice di mosche. Aveva imparato da sua zia, Lalla Tilina. Lalla Tilina stava seduta in cucina e tu non te ne accorgevi, ma lei mentre ti parlava, studiava le mosche, se erano nervose e avevano scoperto il cibo, una goccia d’acqua, lo zucchero. Quando una mosca si posava sul tavolo (le gambe verniciate di verde, il piano di marmo, con una tovaglia di plastica, corta e piuttosto sbiadita) lei apriva la mano, le dita larghe, e intanto che discorreva, succedeva: la mano si muoveva a rastrello, dava uno schiaffetto all’aria, le dita si chiudevano. La mosca veniva uccisa dal mignolo, schiacciata contro il palmo della mano e trascinata, finché il tatto non portava a Lalla Tilina notizie di strutture devastate.

    La mosca era morta, e chi stava di fronte alla zia lo capiva dai suoi occhi che cercavano altri voli.

    Erano bestioline tenaci e sulla loro solidità avevo fatto delle prove. Ogni tanto ne catturavo una anch’io e la sbattevo violentemente al suolo. La mosca accusava il colpo e rimaneva immobile una mezz’ora. Poi, come se niente fosse, si dava una scrollata e riprendeva il volo.

    Chi non era veloce come Lalla Tilina, dal soffitto della cucina faceva pendere un paio di canne spalmate di vischio. Prima o poi le mosche ci toccavano e la sera le canne erano un nerume di ali e corpi magri di libellule, mosche, moscerini, zanzare.

    Lalla Tilina era italiana, ma viveva a Nizza da molti anni. Io immaginavo che la Francia fosse un paese pieno di insetti, un luogo di esercizio dove la popolazione poteva tenersi continuamente in allenamento.

    Lalla Tilina mischiava dialetto ligure con italiano e dialetto nizzardo. Qualcuno diceva lo facesse apposta perché detestava passare per italiana. A volte pranzava da noi o noi da lei, e a tavola, tra una mosca e l’altra, raccontava del grandeur della Francia, di profumi straordinari, di magliette di marca, di cibi sconosciuti.

    Presa, segnalavo io a mia madre che stava ai fornelli e si perdeva la scena. Mia madre si voltava e protestava, Lalla Tilina si andava a lavare le mani e per un po’ lasciava vivere le mosche.

    Se mia madre mi dava la marmellata, Lalla Tilina la chiamava confiture e sosteneva che la confiture francese era semplicemente straordinaria. Del resto, l’avevo imparato da me, in Francia facevano tutto molto meglio che da noi, anche il latte, e un giorno scoprii come lo preparava lei. Bolliva l’acqua e nella scodella ci aggiungeva della roba bianca, uscita da un tubetto su cui c’era scritto lait condensé, somigliante alla pomata che usava mia madre quando le facevano male le ginocchia.

    A volte Lalla Tilina mi portava a casa sua e mi fissava, seria, quasi mi volesse rivelare qualcosa di terribile, che ne so: ma lo sai che un giorno passerà la cicchetta e morirai anche tu come la mamma di Sagoma e ti metteranno in una cassa e non uscirai più, ma poi non diceva nulla, mi guardava, seria, e col dito indicava i prodotti francesi che stavano sulle mensole. Almeno una volta all’anno mi interrogava, chiedendomi i nomi delle cose e io rispondevo a raffica. La confiture di arance, quella di fraises, le fromage avec la vache qui rit, le jambon, il tonno, che si dice thon.

    Mio padre d’estate faticava negli alberghi della Costa Azzurra, lui queste cose della superiorità dei francesi le detestava. Toccava a me riportargli i discorsi di Lalla Tilina. Una volta mi suggerì di chiederle se la pensione la prendeva in Italia o in Francia. Poi ci sentì mia madre e mi fece promettere di non domandarle nulla.

    D’estate, negli alberghi della Costa Azzurra, mio padre preparava le insalate, ogni tipo di insalata, e d’inverno veniva in Italia a raccogliere le olive. Io credevo che di insalate ce ne fosse solo un tipo, quella che metteva sul tavolo mia madre, le foglie di un verdolino chiaro, e pomodori tagliati fini fini, cipolla, tre olive salate e basta. Lalla Tilina scuoteva la testa e mi compativa. Bestiolina, mi diceva nascondendo le labbra, ma non lo sapevo che di tipi di insalate in Francia ce n’era una caterva?

    Mosche d’inverno non ne volavano, giusto qualcuna mezza rimbambita, sempre attaccata ai vetri, ci davo una ditata come alle biglie e la facevo stramazzare lontano.

    Inspiegabilmente d’inverno le mosche, ora che non dovevano più temere Lalla Tilina, abbandonavano l’arena e si rifugiavano nelle stalle. Cambiavano persino aspetto: assumevano colori vivi, azzurri e verdi, forse dormivano sul letame. Poi, in primavera, se sopravvivevano al freddo, sbiadivano come l’insalata e le ritrovavi a ronzare per aria.

    Le mosche del torrente, dove d’estate noi ragazzi andavamo a fare il bagno – io non sapevo nuotare, una pietra –, erano le più testarde, mordevano a tradimento, affondando la proboscide nei capillari. Erano talmente ghiotte di sangue che non si riuscivano più a staccare e la mano aperta le sorprendeva prima che si alzassero in volo. Cadevano in acqua, tramortite, e se la corrente non se le portava via, prima o poi le risvegliava il gusto del sangue e tornavano all’attacco. Annegarle era impossibile, ci avevo provato tenendole sott’acqua quattro o cinque minuti, ma quando le liberavo schizzavano fuori ancora più imbestialite. Per saperle davvero morte, una volta ridotte all’incoscienza, bisognava sfilare loro la testolina. A quel punto restavano a galla giusto il tempo di farsi tirare giù da un pesciolino.

    A galla ci vivevano anche le cravemutte, le capremute, specie di insetti di cui non conosco il nome in italiano, innocue e lunghe, con quattro zampette, le madri portavano in groppa i piccoli.

    Erano le cose che esistevano solo in dialetto, e se da tempo sono scomparse è perché sono intraducibili o sono come le mosche che le cerco nel posto sbagliato.

    In Olanda le mosche non sanno dove posarsi e se ne vanno. D’estate, attorno agli stagni, sì, ce ne resiste qualcuna, prima o poi si perde e vaga fino a trovare una casa abitata, fornita di cibo, dove trascorrere agosto e settembre. Poi la prima notte fredda la paralizza. Non sono dure a morire come le mosche liguri, ma da morte si conservano più a lungo, e l’anno dopo le ritrovi in un angolo, sul dorso, le zampette all’aria, stecchite, ma come se aspettassero il sole.

    In compenso di moscerini danzanti ce ne sono nuvole. Vivono attorno alle alghe, o nei luoghi anfibi dove la sera si radunano i gabbiani. Il loro nome completo è japanse dansmug.

    A volte esco a fotografarli (al solito se cerchi le cose non le trovi) e mi viene in mente quando da bambino aspettavo la Corsica, ma lei spariva per dei giorni, poi un bel mattino si ripresentava come se niente fosse, silenziosa, con le sue gobbe e la cresta a sinistra, in quel posto del mare che sembrava già l’Africa, se allora uno avesse avuto un’idea dell’Africa.

    DUE

    È che in Liguria, da bambini, questa cosa che sta là in fondo, dove passano le navi e i giorni, lo decide lei quando sorprenderti. Certe cose, lo capisci dopo, non occorre mica capirle, basta ricordarle.

    Te ne ne stai piantato sulle terre cretose, i cieli solcati da incendi, e nel giro dei due o tre minuti in cui tordi, merli e pettirossi spengono o accendono vita e morte, se sei fortunato la vedi emergere dai vapori finali. È la nave dei sogni che bruciano. Quanto a me, come avrei fatto a crederci se da bambino mi avessero detto: sai, là sopra ci salirai più di trecento volte. Trecento volte! Ma dài, neanche un bambino se la berrebbe. Eppure c’è qualcosa che elude il numero delle mie presenze in Corsica, ed è che neanche così, neanche dopo esserci stato tutte quelle volte lì, posso dire di conoscerne i contorni. Di averne attraversato una strada, un orto, di essere entrato in una chiesa o in una trattoria corsa. Io dell’isola dei sogni che bruciavano e non restava nulla, ignoro tutto.

    Si fa tardi, un tardi lontano. Da questo posto che forse vagamente assomiglia all’opaco da cui Calvino guardava, la Liguria mi appare nella sua insolita forma vista di spalle, l’entroterra crollante in mare, come se ogni volta lo spettatore che sta al Nord ne sentisse il rotolare pietroso che si allontana e il plonf finale. Una Liguria finalmente contenta, gli angoli della risata da jolly ben alti. È la Liguria capovolta da noi esiliati che la spiamo da qui, per vedere che effetto fa voltare la testa al polpo e poi non riuscire più a non farlo morire.

    Torno a pensare al rovescio di Calvino, ma mentre per lui l’aprico si sforza di moltiplicare sé stesso ma moltiplica solo il rovescio del proprio rovescio, qui l’occhio, stupito, si spalanca sul vuoto, si aggrappa all’angolo di ponente e dondola, sempre molto indeciso se lasciarsi andare o continuare a contare i giorni.

    TRE

    Sono tra i cinquanta e i sessanta, più o meno l’età di mio padre quando sono nato. Ho smesso da tempo di fare cose importanti, e a parte questo, da stamattina ho ripreso a inseguire una rotta giovane.

    Vuelo con destino Las Palmas de Gran Canaria.

    Non ci torno da tanto. A un certo punto si smette anche di tornare, i posti dove si è stati ci sembrano troppi. È un po’ come incontrare le donne del passato, quelle che ci hanno raccolto, offerto una doccia calda, un piatto di minestra, e in cambio non hanno voluto quasi nulla. Non ci si può mica presentare alla porta, chissà dove vivranno, con chi, un figlio di vent’anni che per puta casualidad un po’ ti assomiglia, ti apre e cosa gli dici, sono uno che tua madre è stata un angelo?

    Non lo so mica perché mi trovo su questo aereo. L’isola era una sindrome, non ce la facevi più a scappare e ogni volta che ci riuscivi ti promettevi fosse l’ultima, ma poi bastava un novembre più lichenoso del solito, e i polmoni trovavano subito la scusa, il cervello non si opponeva. Il cuore neanche.

    Un mese fa mi ha rintracciato El Canario. Allora viveva anche lui tra la Costa Brava e le isole. Mi ha detto vente, chaval, por qué carajo te la pasas traduciendo novelas… Perché da una vita faccio questo, traduco romanzi, e lui è venuto a saperlo.

    Vieni, ragazzo, hai bisogno di soldi?

    Gli ho detto di sì, che non ero messo così bene, il lavoro scarseggiava… Non ha voluto sapere altro, solo i dati, e mi ha mandato il necessario per il volo.

    Ho accettato senza neanche chiedermi perché una voce uscita dalla preistoria ti chiama, ti dice soy yo, El Canario, e ti propone di raggiungerlo. Eravamo amici ma mica così come lo era con altri…

    Insomma, dal gelo del Nord ai 25 gradi subsahariani.

    E vaya canción che hanno scelto, un agguato… Alla dogana hanno

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