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Provenzano. L'ultimo padrino
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E-book276 pagine3 ore

Provenzano. L'ultimo padrino

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Info su questo ebook

Vita, ascesa e caduta del profeta della mafia

Chi era ziu Binnu? Chi sono stati i suoi amici e i suoi nemici all’interno della consorteria mafiosa? Come ha gestito il suo immenso impero criminale? Quale legame ha avuto con l’altro grande boss degli ultimi anni, Totò Riina? Chi erano i suoi sodali politici e nelle forze dell’ordine? Quale ruolo ha avuto nella trattativa Stato-mafia? Vincenzo Ceruso – esperto di mafia e già autore per Newton Compton di diversi saggi su questo tema – passa in rassegna la vita del famoso capoclan, svelando dettagli poco noti degli inizi della sua “carriera criminale” e gli inimmaginabili vincoli che gli hanno permesso di scalare passo dopo passo tutta la gerarchia di Cosa nostra. Un ritratto a trecentosessanta gradi che permette al lettore di comprendere più da vicino il carisma, la crudeltà, l’intelligenza dell’ultimo padrino, l’insospettabile viddano che con i suoi pizzini ha saputo tenere per decenni l’Italia sotto scacco dal suo nascondiglio a pochi chilometri da Corleone.

La morte di Provenzano segna la fine di una stagione criminale o l’inizio di un nuovo capitolo della storia della mafia?

43 anni di latitanza, condannato a più ergastoli, imputato nel processo stato-mafia: la vita e l’eredità di uno dei più spietati criminali di tutti i tempi.

«Un pugno nello stomaco. [...] Una ricostruzione di storie emblematiche che corrono accanto agli ultimi decenni di storia di mafia “ufficiale”.»
Attilio Bolzoni, autore di Il capo dei capi

«È un libro durissimo, quello di Ceruso [...]. Ricostruisce le troppe ambiguità a cavallo tra la mafia e una religiosità distorta e oscena.»
Gian Antonio Stella, autore di La casta
Vincenzo Ceruso
È nato a Palermo, dove vive e lavora. Allievo di padre Pino Puglisi, ha lavorato per circa vent’anni con la Comunità di Sant’Egidio con minori a rischio di devianza, in alcuni dei quartieri più difficili di Palermo. Ha collaborato con il Comitato Addiopizzo e scrive di mafia su varie testate. Per la Newton Compton ha pubblicato La Chiesa e la mafia; Uomini contro la mafia; Il libro che la mafia non ti farebbe mai leggere; Dizionario italiano-mafioso, mafioso-italiano e, con Pietro Comito e Bruno De Stefano, I nuovi boss.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2016
ISBN9788854158412
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    Anteprima del libro

    Provenzano. L'ultimo padrino - Vincenzo Ceruso

    123

    I fatti narrati nel presente saggio fanno riferimento a varie inchieste giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: luglio 2016

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5841-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Cover: Elaborazione da © Agostino Pacciani / Anzenberger/Contrasto

    Vincenzo Ceruso

    Provenzano

    L’ultimo padrino

    Vita, ascesa e caduta del profeta della mafia

    Questo libro è dedicato

    a tutti coloro che hanno combattuto

    Bernardo Provenzano e il potere della mafia

    a rischio della propria vita

    Io con il volere di Dio voglio essere un servitore.

    Bernardo Provenzano

    Abbiamo concluso un’alleanza con la morte,

    e con gli inferi abbiamo fatto lega.

    Isaia 28, 14

    Prologo

    Il regno di Binnu: i messaggeri del male

    L’uomo era a terra, steso nel suo sangue. Non poteva scappare, né alzarsi. Il sicario, secondo una tecnica che aveva affinato in decine di omicidi, lo aveva prima colpito alle gambe e poi gli si era avvicinato. Lo aveva guardato negli occhi e aveva appoggiato la canna della pistola alla tempia della sua vittima. Amava leggere il terrore negli occhi di chi uccideva. Premette il grilletto con un sorriso.

    Nasceva allora la leggenda di Bernardo Provenzano.

    Il mafioso che sparava come un dio¹.

    Molti anni dopo, l’11 aprile del 2006, lo stesso sorriso beffardo e crudele sarebbe entrato nelle case di tutti gli italiani.

    È stata la prima vera immagine di Provenzano dopo tanti identikit più o meno riusciti, mentre gli uomini della polizia guidati da Renato Cortese lo trascinavano in prigione, ponendo fine a 43 anni di latitanza. Quando lo hanno catturato, sorrideva. Era il giorno seguente alle elezioni per il rinnovo del Parlamento e l’Italia scrutava dubbiosa l’orizzonte dell’incerta politica nazionale. Il capomafia si trovava in una masseria vicino Corleone, nella contrada di Montagna dei Cavalli. Tanto vicino che la moglie poteva fargli avere con facilità, attraverso una catena di postini, il bucato pulito. Nel suo covo vennero trovati rosari e immagini sacre, ma anche volantini elettorali. C’era il necessario per preparare la ricotta. E più di una Bibbia, a confermare l’alone di religiosità di cui amava ammantarsi.

    La carriera mafiosa di Provenzano è iniziata percorrendo a cavallo gli immensi feudi che circondavano Corleone, portando a tracolla un fucile caricato a lupara. La sua storia criminale prende avvio tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Dopo di allora Bernardo, Binnu, ha sviluppato i suoi interessi delinquenziali molto lontano dal luogo di nascita. A Palermo il padrino ha sostituito le armi tradizionali con il mitra e il kalashnikov, ma ha anche imparato a muoversi nei meandri della burocrazia e nelle segreterie dei partiti politici. Ad un certo punto, nel corso degli anni Settanta, il corleonese ha smesso di sparare e si è spostato dietro una scrivania per dare ordini. O consigli, come preferiva chiamarli. In realtà si trattava delle vere e proprie direttive di un amministratore delegato. Provenzano era diventato un imprenditore.

    I suoi interessi spaziavano dagli agrumeti di Bagheria, nel cuore della Conca d’Oro, alle banche di New York, passando per Zurigo. Più diventava potente e meno si sapeva di lui. Per decenni ha attraversato la storia d’Italia e della mafia come se non esistesse. Non appariva quasi mai, ma tutti sapevano che era presente. O almeno, lo sapevano tutti coloro che contavano. Il potere esercitato è sempre stato immensamente più grande delle cariche formali che ha ricoperto nell’organizzazione mafiosa. Parafrasando la celebre espressione dell’ex ministro Scajola, Provenzano governava a insaputa degli altri. Nemmeno dopo la cattura di Salvatore Riina ha preteso una qualche investitura. Anzi, ha fatto di tutto per evitarla. Ha esasperato la manipolazione delle regole, tipicamente corleonese, in cui Riina era un maestro, per giungere allo svuotamento del tradizionale ordinamento mafioso. Ha dominato a lungo Cosa nostra con un pugno di anziani uomini d’onore che rispondevano solo a lui e con un esercito di burocrati e professionisti che gli erano ancora più fedeli dei picciotti regolarmente affiliati. Nessuno di loro, infatti, lo ha mai tradito.

    Lo hanno chiamato in molti modi: ù viddanu, cioè il contadino; oppure ù tratturi, il trattore abituato a passare sopra i problemi e gli avversari. Negli ultimi anni è divenuto il fantasma. I suoi nemici lo hanno definito la belva, ma era anche, a suo modo, un sentimentale. Un uomo riconoscente. Mezzo secolo dopo conservava i legami con coloro che avevano aiutato la sua latitanza negli anni Cinquanta, quando si nascondeva nelle campagne intorno a Corleone. Concludeva molti dei suoi pizzini con una formula tratta dal libro dei Numeri: «Ti benedica il Signore e ti protegga»². Molti altri, più semplicemente, lo hanno chiamato zio, titolo onorifico spesso usato a Palermo e dintorni. Gli amici e i soci in affari hanno imparato a conoscerlo come il ragioniere, ma non era un epiteto troppo gradito. Il ragioniere in famiglia, infatti, era suo nipote, Carmelo Gariffo, che aveva superato anche qualche esame in economia e commercio, prima di essere arrestato per associazione mafiosa nel 1997³.

    Una volta divenuto anziano e decimato dagli arresti l’entourage che ne aveva garantito la latitanza, Provenzano si è affidato sempre di più ai parenti. Tra i suoi custodi c’era anche Calogero Lo Bue, il cui figlio, Giuseppe, ha sposato una nipote del padrino. Quella dei Lo Bue era una famiglia importante a Corleone. Da generazioni svolgevano le mansioni di campieri presso il feudo dei Provenzano, una discendenza di notabili e possidenti corleonesi solo omonimi del capomafia. Dopo l’arresto di Binnu, gli inquirenti avrebbero accusato il fratello di Calogero, Rosario Lo Bue, di essere divenuto il nuovo rappresentante del mandamento di Corleone⁴. Alla cerchia familiare di Totò Riina apparteneva invece Francesco Grizzaffi, che assumerà per conto di Provenzano tutta una serie di incombenze legate alla sua latitanza. Ma non tutti i suoi uomini erano parenti. Bernardo Riina, accusato di essere il vivandiere di Binnu, era legato a lui da un’amicizia di antica data, risalente agli anni Sessanta. Tutti e tre – Calogero Lo Bue, Francesco Grizzaffi e Bernardo Riina – sono tornati a circolare per le strade di Corleone nel 2012, dopo avere scontato la loro pena⁵.

    Provenzano ha avuto tantissimi complici, ma non molti amici. Il suo unico, vero amico si chiamava Calogero Bagarella. Ma quella era un’amicizia speciale, nata nei vicoli del paese e cresciuta sui sentieri che percorrono gli immensi boschi della Ficuzza, nelle notti fredde della latitanza, coprendosi le spalle l’un l’altro e sparando senza pietà al nemico di turno. Calogero, fratello maggiore di Leoluca Bagarella – che lo avrebbe sostituito come sicario negli squadroni della morte corleonesi – è morto da mafioso oltre quarant’anni fa. O meglio, sarebbe morto da killer, a quanto hanno raccontato i collaboratori di giustizia, sparando a fianco di Binnu nella strage di Viale Lazio del ’69. E forse è stata l’ultima volta che Provenzano ha sparato. Da allora c’è una tomba su cui nessuno piange. C’è un cadavere che non trova riposo. Secondo un’ipotesi investigativa, il corpo di Bagarella sarebbe stato gettato nel loculo di Bernardino Verro, leader contadino e sindaco socialista di Corleone ucciso dalla mafia il 3 novembre 1915⁶. Sepolto prima in un cimitero di Termini Imerese, a pochi chilometri da Palermo, i resti di Verro erano stati traslati dalla famiglia in un’altra tomba nel cimitero palermitano dei Rotoli. Gli amici di Bagarella ne avrebbero approfittato per occupare il loculo di uno dei nemici della mafia con il corpo di un mafioso. Macabra ironia? O ultimo spregio verso uno dei loro storici avversari?

    Pochi mafiosi hanno amato l’uso della simbologia religiosa come don Bernardo. Questo, unitamente al suo arresto in una masseria di campagna, perlustrata dai media in ogni possibile angolo alla ricerca dei particolari più esotici, ha contribuito a perpetuare il mito di un boss rimasto fuori dal tempo. Incredibile errore. Non c’è niente di arcaico in un capoclan che comunica citando i versetti della Bibbia e impartisce benedizioni ai suoi soldati. Al contrario, nulla è più moderno dell’uso politico della religione. Ma si sa, i miti sono rassicuranti. Come il mito che vuole relegare la mafia a un fenomeno regionale o, tutt’al più, meridionale. Proprio per ribaltare quest’ottica, le cronologie che vengono proposte nel libro – al di là dell’arbitrarietà nella scelta degli avvenimenti e quand’anche la mafia brilla per la sua assenza – hanno lo scopo di ricordare che non è possibile una storia d’Italia senza quella dell’Onorata società. Provenzano e la sua avventura criminale sono indissolubilmente intrecciate con le vicende del Belpaese. Come ha spiegato uno storico, la narrazione della mafia non coincide con l’autentica storia della Sicilia né, tantomeno, con quella della nazione, ma «è una delle storie d’Italia, e non tra le minori»⁷.

    E chi, più di Bernardo Provenzano, ha incarnato le metamorfosi di Cosa nostra nell’arco di mezzo secolo? Ha iniziato il suo apprendistato nella selvaggia mafia agraria della Sicilia più profonda, quella al servizio dei padroni contro i contadini; ha rappresentato la nuova mafia urbana, che si nutriva di cemento e appalti; si è inserito con i suoi soci corleonesi nella guerra per la conquista dei mercati, legali e illegali, più redditizi; mentre quasi tutti i boss erano impegnati ad arricchirsi con la droga e reinvestivano in terre e palazzi, lui andava per primo alla scoperta di nuovi business nel campo sanitario.

    Ha stretto accordi con politici di tutte le stagioni, con i massoni e con alcuni carabinieri, con poliziotti corrotti e con servizi segreti più o meno deviati. Quando tutti cercavano Totò Riina, lui estendeva la sua rete di alleanze da un punto all’altro della mafia isolana:

    mentre Riina si muoveva come il capo di una gerarchia militare, Provenzano aveva intessuto tante di quelle relazioni, a prescindere dai gradi e dai territori, che la sua rete di fidati era diventata quasi una Cosa nostra parallela. Che aveva un solo potere decisivo, quello della conoscenza di segreti su affari, complicità e delitti⁸.

    Il suo ultimo capolavoro diplomatico prima dell’arresto è consistito in un’opera di ricucitura, per sanare vecchi rancori e stringere accordi con i nuovi padrini siculo-americani.

    La sua filosofia era quella di un altro libro della Bibbia, l’Ecclesiaste: «Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo»⁹. C’è un tempo per ogni cosa. C’era stato un tempo in cui uccidere. È seguito il tempo degli affari. C’era stato un tempo per la vendetta, era arrivato il tempo del perdono. Al capomafia Nino Rotolo, contrario a consentire il rientro in Sicilia delle famiglie sconfitte negli anni Ottanta e successivamente esiliate, aveva scritto:

    non so niente di più di quanto mi dite ognuno che me ne parla di questo argomento. Io sento, ma non posso dare un parere come il mio cuore desiderasse, per più ragioni. Il mio motto è: che Dio ci potesse dare la certezza… di avere sbagliato… di rimettirisi… e perdonare¹⁰.

    C’era stato un tempo per fare la guerra allo Stato, a cui è seguito il tempo delle trattative.

    All’indomani delle stragi, il popolo di Cosa nostra ha seguito Provenzano con la fiducia con cui si segue un profeta, non un semplice capo criminale. Uomini d’onore allo sbando cercavano qualcuno in grado di indicare una strada per il futuro. I servizi segreti hanno definito il corleonese «l’ultimo boss carismatico»¹¹ della mafia siciliana. Il soldato di Cosa nostra ha bisogno di capi da rispettare e da emulare, che incarnino i valori mafiosi. Alcune sentenze, meglio di psicologi e sociologi, hanno descritto questo «atteggiamento mistico-psicologico» che definisce la mentalità dell’uomo d’onore. È in tale orizzonte che si spiega «il connubio, che per gli esterni alla mafia appare inconciliabile, tra il delitto, spesso connotato da estrema ferocia anche verso i più inermi, e le espressioni di fede cristiana»¹².

    Il carisma di Provenzano è consistito nella capacità di prospettare una visione, un futuro possibile dopo i disastri procurati dalla guerra allo Stato (di cui è stato uno dei protagonisti).

    Per il boss il futuro era immaginabile solo tornando indietro a una maggiore clandestinità, alla tradizionale segretezza che era stata la vera forza del connubio criminale. I soldati di Cosa nostra potevano trovare nei suoi pizzini un distillato della saggezza mafiosa, insieme a consigli pratici su come comportarsi nei rapporti con l’esterno. A un seguace che gli chiedeva come rispondere a un uomo politico che voleva mettersi a disposizione dell’organizzazione, il capomafia aveva risposto:

    oggi come oggi, non c’è da fidarsi di nessuno, possono essere Truffardini ? possono essere sbirri ? possono essere infiltrati ? e possono essere dei sprovveduti ? e possono essere dei grandi calcolatori, mà se uno non sà la via che deve fare, non può camminare, come io non posso dirti niente¹³.

    Provenzano ha indicato a un’organizzazione devastata dal pentitismo e travolta in molti dei suoi quadri dalla repressione statale, la via da percorrere nel nuovo millennio: rafforzare la coesione interna, accrescere la prudenza nei rapporti con le altre entità socio-economiche con cui Cosa nostra era abituata a rapportarsi, accentuare la mimetizzazione della mafia tra le pieghe della società civile fino a renderla invisibile.

    I pizzini sono la più evidente manifestazione del suo metodo di governo, basato su elementi apparentemente inconciliabili tra loro, quali la segretezza, il consenso e l’inclusione. La segretezza nelle informazioni, innanzitutto. Mezzi di comunicazione decisamente arcaici – bigliettini arrotolati e avvolti nello scotch, in cui il capomafia scriveva i suoi messaggi – essi sono serviti a dare scacco ai più sofisticati strumenti investigativi. Già negli anni Novanta, un pizzino presentava i vantaggi di Skype, senza dover utilizzare un computer. Era un sistema impermeabile alle intercettazioni telefoniche e ambientali. Gli svantaggi erano due: la lentezza nel far pervenire le comunicazioni ai sottoposti e il numero spropositato di uomini che occorreva per trasmetterne uno in ogni parte della Sicilia.

    Ma Provenzano è sempre stato un maestro nel trasformare le debolezze in punti di forza. Il tempo che occorreva per far giungere i suoi messaggi poteva giustificare la sua volontà di temporeggiare, la sua abitudine di non prendere mai posizioni chiare. Era l’ambiguità mafiosa portata all’esasperazione. Quanto agli uomini, non sono mai mancati al boss corleonese. Il magistrato Pietro Grasso, a chi gli chiedeva di quantificare su quante persone potesse appoggiarsi Binnu per la trasmissione dei suoi messaggi, aveva risposto:

    Migliaia e tutte ben felici di aiutarlo perché si tratta del capo riconosciuto dei corleonesi e di Cosa nostra. Di fronte ad un esercito di queste dimensioni e operando in territori dove qualsiasi estraneo viene immediatamente identificato, gli strumenti tradizionali di polizia, e mi riferisco innanzi tutto al pedinamento, vengono facilmente vanificati¹⁴.

    Il suo sistema di comunicazione è stato quindi composto da insospettabili rappresentanti poco virtuosi della società civile, attratti nel modello di mafia voluto da Provenzano; o da uomini d’onore, vecchi e giovani, che condividevano la sua stessa filosofia di Cosa nostra.

    Non erano semplici postini.

    Rappresentavano i messaggeri del male.

    Note

    ¹ La ricostruzione è basata sull’intervista del collaboratore di giustizia Angelo Siino, rilasciata al grande giornalista, scomparso da poco, Giuseppe D’Avanzo, Vi racconto la vera storia di Provenzano, «la Repubblica», 14 aprile 2006.

    ² Nm. 6, 24.

    ³ «Carmelo Gariffo fu arrestato insieme con Leoluca Guccione, lontano parente di Leoluca Orlando nel 1997. In tribunale fu condannato a 4 anni e sei mesi di reclusione», http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/03/23/cosa-nostra-fa-bancarotta-manette-ai-cugini.html.

    ⁴ G. Bianconi, E i boss processano il giovane Riina, «Corriere della Sera», 17 dicembre 2008.

    ⁵ http://www.cittanuovecorleone.net,dopo-sei-anni-tornano-a-corleone-i-postini-di-bernardo-provenzano.

    ⁶ «Giornale di Sicilia», 29 gennaio 2013.

    ⁷ S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 1997, p. 264.

    ⁸ S. Palazzolo – M. Prestipino, Il codice Provenzano, Laterza, Bari, 2007, p. 108.

    ⁹ Qo. 3, 1.

    ¹⁰ S. Palazzolo – M. Prestipino, op. cit., p. 34.

    ¹¹ Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza, 2007, p. 39.

    ¹² Corte di Assise di Firenze, Sentenza contro Tagliavia Francesco, 5 ottobre 2011, p. 244.

    ¹³ Molti dei pizzini di Provenzano qui citati sono stati reperiti sul sito http://www.bernardoprovenzano.net.

    ¹⁴ S. Lodato – P. Grasso, La mafia invisibile, Mondadori, Torino, 2001, p. 36.

    I

    LE RADICI DEL POTERE

    1933 – 1949

    Cronologia

    31 gennaio 1933. Bernardo Provenzano nasce a Corleone, nell’anno

    XII

    dell’era fascista, lo stesso in cui il ministro del Reich Joseph Goebbels si reca in visita a Roma, l’iscrizione al Partito Fascista diviene obbligatoria per accedere ai concorsi pubblici, lo scrittore Curzio Malaparte viene arrestato e inviato al confino nell’isola di Lipari.

    5 luglio 1943. Le truppe anglo-americane sbarcano in Sicilia. Le terre italiane sotto controllo alleato vengono sottoposte a un governo militare d’occupazione, l’Allied Military Government of Occupied Territories (

    AMGOT

    ).

    4 giugno 1944. Gli Alleati entrano a Roma.

    25 aprile 1945. Viene proclamato lo sciopero generale insurrezionale. Mussolini abbandona Milano e si dirige verso Como per tentare di passare in Svizzera. Verrà catturato e ucciso con la compagna, Claretta Petacci. I loro corpi verranno esposti in piazzale Loreto a Milano.

    2 giugno 1946. Si svolgono il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente.

    22 dicembre 1947. Viene approvata la Costituzione repubblicana.

    14 luglio 1948. Palmiro Togliatti viene ferito da un estremista di destra. Nel Paese scoppiano gravi disordini.

    12 luglio 1949. Il Sant’Uffizio decreta la scomunica dei comunisti.

    Per oltre mezzo secolo Corleone è stata il santuario della mafia siciliana e Provenzano ne è stato il sacerdote, garante dell’ortodossia mafiosa. Un vescovo itinerante, che portava il verbo criminale ai suoi seguaci senza risparmiarsi.

    Sebbene i suoi adepti abbiano spesso amato ammantarsi di religiosità, Cosa nostra non ha mai avuto un santuario come quello della Madonna di Polsi. Qui, in un’abbazia del Cinquecento situata sulle pendici dell’Aspromonte calabro, si trova la statua della Madonna della Montagna, meta di numerosi fedeli in pellegrinaggio. Qui gli uomini della ’ndrangheta si riunivano una volta l’anno per eleggere i loro vertici.

    È pur vero che diversi luoghi di culto hanno rivestito una certa importanza nella vita quotidiana dei cosiddetti uomini d’onore, tutt’altro che estranei alla vita religiosa della società in cui vivono. È il caso del Santuario della Madonna di

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