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Una vita migliore
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E-book346 pagine4 ore

Una vita migliore

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Info su questo ebook

Palpitante, raffinato, ricco di suspense, il fantastico romanzo d’esordio di Allott vibra di atmosfere hitchcockiane.
Booklist

In questo memorabile esordio letterario Susan Allott ricostruisce gli effetti devastanti della turpe vicenda dei bambini rubati australiani.
Sunday Times

Una rappresentazione suggestiva e convincente del modo in cui tutte le decisioni che prendiamo, come individui e come collettività, saranno gravide di conseguenze nel corso degli anni.
The Guardian

Emotivamente straziante. Wall Street Journal

Una storia ramificata e piena di mistero.
New York Journal of Books

Un debutto ricco di tensione narrativa e splendidamente realizzato. Esplora il deterioramento delle relazioni e le verità terribili che nascondiamo a coloro che amiamo.
Telegraph

Londra, 1997.
Nel cuore della notte Isla Green viene svegliata da una telefonata. È suo padre, dall’Australia. La polizia lo sospetta per la scomparsa di una donna, la loro ex vicina di casa, avvenuta molti anni prima. Ed è stato proprio lui a vederla viva per l’ultima volta.

Sydney, 1967.
In un tranquillo sobborgo di Sydney, fatto di villette a schiera, giardini curati e bianche staccionate, due coppie vivono vicine. Louisa e Joe, immigrati dall’Inghilterra, con la loro bambina di quattro anni, Isla. E Mandy e Steve, che di mestiere fa il poliziotto. Sembrano felici, giovani e spensierati, ma in realtà non tutto è come appare. Louisa è disperatamente nostalgica e vorrebbe tornare a Londra. Mandy ha il terrore di rimanere incinta e di diventare madre. Steve, che invece vorrebbe moltissimo un figlio, è distrutto dal nuovo compito affidatogli dalla polizia: strappare bambini aborigeni dalle loro famiglie, per inserirli in un programma statale di reinserimento sociale. Ogni giorno, ognuno di loro racconta una piccola bugia, destinata a costruire un fragile castello, pronto a crollare al minimo soffio di vento…

Sono passati trent’anni da allora, ma sotto le ceneri di quel castello covano ancora le fiamme di molti altri segreti che solo Isla può scoprire. Segreti sul male di cui possono essere vittime gli innocenti ma anche le persone più amate. Squarciare quel velo di silenzio è l’unica strada per salvare il padre, ma la verità potrebbe essere più dolorosa del previsto.

Susan Allott ci regala un noir letterario e un mistero avvincente che si dispiega sotto i nostri occhi. Acclamato dalla critica, scava in colpe inconfessabili e remote, sepolte nel cuore delle persone, delle famiglie e di intere nazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2021
ISBN9788830527621
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    Anteprima del libro

    Una vita migliore - Susan Allott

    David

    1

    Londra, 1997

    In un seminterrato di Hackney squilla il telefono. Sono le due del mattino e Isla Green è in corridoio. In pigiama, mezza addormentata e completamente sobria. Una circostanza positiva, anche se un po’ fragile; un po’ insolita. Nessuna ondata di vergogna la aspetta, nessun dolore pronto a emergere. Si sente linda e pulita come una scolaretta. Ha in gola il sapore del dentifricio.

    Al terzo squillo alza la cornetta. Se scatta la segreteria allora sentirà la voce di Dom, e quella voce la riporterà indietro. Se n’è andato da tre mesi e ogni giorno lei si ripromette di cancellare il messaggio. Porta la cornetta all’orecchio appena in tempo.

    «Pronto?»

    Ci vuole un momento per riconoscerlo. «Papà?»

    «Non ti ho svegliata, vero?»

    Non sa perché stia stringendo forte la cornetta, adesso. Perché le sia risuonato in testa un segnale di paura. È bello sentire la voce di suo padre, che ormai è più australiana della sua. Ha sbagliato a calcolare il fuso orario, tutto qui. In fondo alla strada, una sirena della polizia inizia la sua nenia ascendente e poi si interrompe. La luce azzurra lampeggia silenziosa.

    «Che ore sono da te?»

    «Non lo so.» Isla stiracchia il braccio libero sopra la testa, inarcando la schiena. Nelle otto settimane e tre giorni dal suo ultimo bicchiere ha dormito il sonno dei giusti.

    «Ti richiamo più tardi?»

    «No, no. Va tutto bene?»

    «Volevo parlarti» dice. «Tua madre non sa che ti sto chiamando. È andata in centro.»

    Si siede sulla moquette. Ecco la stranezza che non riusciva a individuare, quella che avrebbe dovuto riconoscere fin dall’inizio. Suo padre non l’ha mai chiamata, nei dieci anni in cui lei ha vissuto a Londra. È sempre sua madre a fare le telefonate, a lasciare i messaggi in segreteria. Suo padre scrive lettere. Detesta il telefono.

    «Che succede?»

    «Non volevo che lo sapessi da tua madre. Non l’ha presa bene. Volevo dirtelo di persona.»

    China la testa tra le ginocchia. Pensa: Se sta per morire, avrò bisogno di bere. Pensieri lucidi, pragmatici: ora metterà giù il telefono e si vestirà. A Clapton Pond c’è un takeaway aperto tutta la notte dove vendono di straforo lattine di birra in confezione da sei.

    «È venuta la polizia» dice lui.

    «La polizia?»

    «Cercano una donna che conoscevo.»

    Isla alza la testa. Sta sudando. Si passa una mano tra i capelli umidi. «Quale donna?»

    «Era una nostra vicina, quando ci eravamo appena trasferiti a Sydney. Non puoi ricordartene.» Tossisce. «A quanto pare è scomparsa da tempo. Non la vede nessuno da trent’anni.»

    L’auto della polizia passa lentamente lì fuori, proiettando la sua luce azzurra sulle pareti.

    «E tu cosa c’entri?»

    «La polizia pensa che la sua scomparsa sia sospetta. E che io sia stato l’ultima persona ad averla vista prima che scomparisse.»

    «Ed è vero?» Cerca di suonare calma. «Sei stato l’ultima persona a vederla?»

    «Non è possibile. È andata via con suo marito. Ho già detto alla polizia che dev’esserci un errore.»

    Suo padre si accende una sigaretta, soffia via il fumo. Lei pensa a Dom, sorridente dietro una fiamma.

    «È morta?»

    «Dev’esserlo per forza, pensano così.» Suo padre parla a bassa voce. Una voce da cattive notizie. «Non c’è nessuna traccia di lei, nemmeno una per tutto questo tempo. Suo padre è morto il mese scorso e le ha lasciato gran parte delle sue proprietà, ma lei non si è fatta viva. Suo fratello ha chiesto in giro, ha cercato di rintracciarla. Ha trovato alcune cose su cui adesso sta indagando la polizia.» Ride in modo poco convincente. «Una di quelle cose sono io.»

    Isla trova una striscia di peletti che stanno ricrescendo sul polpaccio. Ci passa sopra l’unghia del pollice, avanti e indietro, finché non le fa male.

    «La polizia sta cercando negli archivi» dice suo padre. «Tengono un registro delle persone morte senza essere state identificate.»

    «E se si scopre che è stata uccisa?»

    «Sarebbe la peggiore delle ipotesi, tesoro. Significherebbe un’indagine per omicidio.»

    «Gesù.»

    «Senti, non voglio farti preoccupare.»

    «Ma se sei stato l’ultimo a vederla…»

    «Non è così.» Lo grida. «Te l’ho detto, non sono stato io l’ultimo.»

    Isla appoggia la testa sulle ginocchia. Nella penombra vede la posta sullo zerbino, sporcata dall’impronta lurida dei suoi anfibi. La bici appoggiata alla parete, con il cestino strapieno di volantini pubblicitari. Su un gancio accanto alla porta, il cappotto elegante con la cintura che mette per andare in ufficio. Tutto le è familiare, sempre uguale a se stesso.

    «Sei ancora lì?»

    «Sono qui.»

    «Scusa se ho alzato la voce.»

    «Papà.» Sente caldo, ma la sua pelle è fredda. Il pigiama le si è appiccicato addosso. «Come si chiamava?»

    Lui esita. «Mandy.»

    Mandy. Isla sente odore di ferro caldo premuto sulle lenzuola di cotone. Eucalipto.

    «Badava a te un paio di giorni alla settimana, prima che iniziassi la scuola. Quando tua madre lavorava da Hordern & Sons.»

    «Aveva una corda per il bucato in giardino» dice Isla, ricordando mentre parla. «Le porgevo le mollette quando stendeva i panni.»

    «Davvero?»

    Isla non ricorda il viso di Mandy, ma ricorda se stessa insieme a lei. Di essere piaciuta a qualcuno che le piaceva. Una facilità e una piacevolezza che facevano sembrare le altre persone inferiori.

    «Tua madre vuole annullare la festa per il mio compleanno» continua lui. «È in pensiero da quando è venuta la polizia. Non riesce a toglierselo dalla testa.»

    Si sente sbattere una porta in uno degli appartamenti al piano di sopra. Voci alte. Isla si tira su a sedere. Ora capisce perché suo padre ha chiamato.

    «Lei ti crede, papà?»

    «Non penso. No.»

    Lei stringe il telefono. Nelle ultime settimane nuove possibilità di connessione si stanno aprendo nel suo cervello, alimentate dall’acqua minerale e dal sonno. Ricordi improvvisi la sorprendono sull’autobus; sulle scale mobili di Bethnal Green; in auto in mezzo a un ingorgo su Essex Road. La sua vita ha una terribile nitidezza, ora che non c’è più quella nebbia alcolica a proteggerla. È seduta a gambe incrociate sulla moquette nel mezzo della sua vita, ora, proprio a metà, sulla nitida piega al centro del foglio. Ha trentacinque anni, è alta e magra; bella, dice la gente. Un corpo che è stato trascurato ma è ancora forte, sorprendentemente adattabile. Una folta chioma tagliata corta all’altezza della nuca. Ciocche bionde sulla sommità del capo che crescono verso l’alto e in fuori, come un dente di leone. Una donna la cui vita è colata a picco, che si sta rialzando, che deve stare attenta. Il cui padre tace all’altro capo del telefono, chiedendole senza parole di tornare a casa.

    «Potrei tornare per un paio di settimane» si trova a dire. È l’unica cosa possibile da dire. «Potrei aiutarvi con la festa. Far ragionare la mamma.»

    «Potresti?»

    «Penso di sì. Ho un po’ di ferie arretrate.»

    «Sarebbe splendido, Isla.» La sua voce ha ripreso colore. «Ma come farai con l’appartamento? Non stai comprando casa?»

    L’appartamento. Un trilocale su Sinclair Road con i soffitti alti e un balcone alla Romeo e Giulietta. È bellissimo, in un’ottima posizione e molto al di sopra del suo budget. Mancano tre settimane al rogito. Si massaggia la fronte con il palmo della mano. «Posso occuparmene per telefono.»

    «Possono fare a meno di te al lavoro?»

    «Dovranno.»

    «Sei sicura che sia un buon momento per te?»

    No, non è sicura. Non vuole andare a Sydney, dove ci sono ore vuote da riempire e persone che non vede da dieci anni. Vuole dormire, lavorare e nascondersi.

    «Sono sicura. È ora» dice.

    La pioggia sferza Londra mentre il sole sorge. Isla è appena sotto la superficie del sonno, rifiuta i sogni che vogliono riportarla di nuovo a quando aveva quattro anni, farla aggirare in stanze che sono familiari ma non sono casa. Inizia la giornata, si veste. La voce del padre nella sua testa è squillante e impaurita, rintrona a ripetizione, acquisisce note di panico. Mette su il caffè, si dice che non le serve nulla di più forte. Sta rimuginando troppo su questa storia. Suo padre non mente.

    2

    Sydney, 1966

    Mandy immaginò che Steve avesse sempre aperto i regali in quel modo. Strappando la carta e appallottolandola con malagrazia, un rapido bacio e un «grazie, tesoro» e basta così. Niente cerimonie, nessun commento sul modo in cui Mandy aveva fatto combaciare il motivo a righe sulla carta da pacchi. Apprezzava il regalo in sé, di certo, purché fosse qualcosa di pratico da usare o da indossare, e non troppo diverso da qualcosa che possedeva già.

    Niente di nuovo su quel fronte, tranne che quell’anno Mandy lo trovava fastidioso e avrebbe voluto prenderlo a botte. Sapeva di essere irrazionale. Perché mai Steve avrebbe dovuto notare la carta? Era lo stesso uomo con cui era sposata da sette anni. Ed era sciocco aver fatto quella roba allineando le righe. Era diventata una di quelle donne che prendono sul serio la carta da regalo. Com’era potuto succedere?

    Sedette sul letto accanto a lui e si rigirò tra le mani il regalo che le aveva fatto. Un pacco più grande di quanto si aspettasse. Stuzzicò con il pollice un pezzo di nastro adesivo e lo tirò via dalla carta, lentamente. Fece lo stesso sull’altro lato della scatola.

    «Perché non la strappi e basta, Mand? Di questo passo saremo ancora qui a Capodanno.»

    Lei gli scoccò un’occhiataccia. «Ho voglia di prendermela comoda.»

    Girò la scatola sul lato, infilò la mano sotto la carta e riuscì a tirarla via senza strapparla e senza rovinare il cartone del pacco. Steve la raccolse, come se volesse appallottolarla, ma poi ci ripensò e la rimise dove l’aveva trovata.

    «Un orologio!» Non se lo aspettava. «Mi hai regalato un orologio?»

    Lui si alzò a sedere, si sistemò i cuscini dietro la schiena e sorrise. «Vediamo come ti sta.»

    Lei si allacciò il cinturino e girò l’orologio per centrare il quadrante. Era disegnato per una donna dai polsi ossuti. Una donna fragile, scheletrica, che non sarebbe riuscita a sollevare niente di più pesante. Con quello addosso il suo braccio sembrava enorme, muscoloso. Era orribile.

    «Ecco, stringe bene. Al punto giusto» disse. Prima bugia del giorno: «Mi piace molto». Seconda bugia: «Che bella sorpresa».

    Steve si girò sul fianco e la fece sdraiare accanto a lui. «Buon Natale» disse. Allungò una mano sul suo sedere. «Sapevo che ti sarebbe piaciuto.»

    Lei gli si avvicinò per non farsi vedere in faccia. La camicia da notte strusciò contro il pigiama di lui producendo elettricità statica. «Sei così imprevedibile, tu» disse, appoggiando le labbra alla pelle morbida del suo collo. «Pensavo che mi avresti comprato la collana che ti avevo fatto vedere.»

    «Quale collana?» Lui la fece girare e le scostò i capelli dal viso. «Non hai parlato di una collana.»

    «Non importa» disse lei, in tono allegro. «Scusa. È un bell’orologio. Non intendevo…»

    Lui fece saettare gli occhi di qua e di là, cercando di ricordare. «Non hai detto niente su una collana.»

    «Te l’avevo solo fatta vedere. Nel mio catalogo. Una catenina d’oro con un ciondolo.» Posò un dito alla base del collo, dove avrebbe potuto posarsi il ciondolo. «Te l’ho fatta vedere un po’ di tempo fa. C’era una piccola A, come Amanda. Un ciondolo.»

    Lui scosse la testa. «Devi dirmelo chiaro e tondo, Mand. Se vuoi una collana, dimmi che vuoi una collana. Non puoi aspettarti che io colga un accenno del genere.»

    Lei sorrise e gli pizzicò le guance fino a far sorridere anche lui. «Ti piace la giacca?»

    «Mi piace molto, tesoro. È comoda per il furgone, quando guido di notte.»

    «È quello che ho pensato.»

    Gli voltò le spalle e raccolse la carta da regalo dell’orologio, rossa con campanelle d’oro, la scatola ancora integra. Da quella posizione, ancora sul letto, poteva vedere un calzino di Steve accanto alla cesta del bucato, dove doveva averlo tirato sbagliando mira. Aveva lasciato la giacca nuova sulla moquette ai piedi del letto e la carta a righe era strappata, abbandonata sul pavimento. I biglietti d’auguri che Mandy aveva disposto sul comò erano caduti di lato e l’acqua nel vaso di vetro in cui aveva sistemato le orchidee qualche giorno prima andava cambiata. Anche il resto della casa aveva bisogno di una passata. Doveva darsi una mossa.

    «Posso portarlo indietro» disse lui, alzandosi a sedere. «L’orologio. Ho tenuto lo scontrino. Credo.»

    «Non dire sciocchezze.» Mandy appallottolò la carta e si domandò quanto a lungo sarebbe riuscita a fingere che l’orologio le piacesse. Non molto oltre Santo Stefano, pensò. «Ho fame.» Tirò giù i piedi dal letto. «Va’ a fare la doccia, intanto io preparo la colazione.»

    «Non c’è fretta, no?» Steve batté la mano sul materasso e la guardò speranzoso.

    Erano solo le nove e mezza, secondo il Timex che aveva appena ricevuto, e già si sentiva una stronza. Doveva tornare a letto con lui, lo sapeva. Ricominciare la giornata. Il sesso mattutino era una tradizione che non le dispiaceva, in generale. Già meglio del Natale. Ma ultimamente non si divertiva più e non se la sentiva di fingere.

    «Sono settimane che non…»

    «Non è vero.» Mandy strinse più forte la pallina di carta. «Non è passato tutto questo tempo» disse, pronunciando con un sorriso la terza bugia della giornata. «Stai esagerando.»

    «Torna a letto, Mandy.»

    «Prima di pranzo vengono i Walker. Devo pulire la casa.»

    «Sono le nove e mezza, Mand…»

    «So che ore sono, accidenti.»

    «Quindi ci stiamo ancora provando o no?»

    Il cuore le sobbalzò in petto a quella domanda, così nuda nella luce mattutina della loro stanza. Era tipico di Steve dire proprio la cosa che andava detta; la cosa che lei cercava di fingere non fosse una cosa.

    «Certo che ci proviamo. Solo non adesso.»

    «Ho di nuovo sbagliato il momento?»

    «Non ricominciamo, Steve. Ti prego… Lascia stare. Per favore.»

    Lui tirò uno schiaffo a un cuscino e diventò paonazzo. Non la guardò. «E va bene» disse, rivolto al cuscino. «Vado a fare la doccia.»

    In cucina Mandy si appoggiò al bancone, si stropicciò il viso e sospirò. Faceva così caldo, lì dentro. Si girò a guardare il giardino, aprì la finestra e sentì il ronzio delle cicale. Il caldo stava stringendo la sua morsa: se ne percepiva la forza già a quell’ora. La nuvola si era già dissipata. Sarebbe stata una giornata torrida.

    Aprì leggermente la porta sul retro, si sedette sul gradino e si accese una sigaretta. Distese il braccio e cercò di farsi piacere l’orologio, di cambiare idea. Era un bell’orologio, se riusciva a perdonarlo di non essere la collana che avrebbe voluto, e di essere troppo piccolo per un donnone come lei. Aveva un cinturino placcato d’oro e un piccolo quadrante ovale, con tacche al posto dei numeri e una rotella sul fianco che faceva muovere le lancette. Avrebbe preferito un orologio con i numeri, perché doveva servire a dirle che ore erano. Perché togliere i numeri da un orologio?

    Ma non era quello il problema. Non le piaceva il modo in cui suddivideva il mondo in tanti piccoli tic tac ordinati. Non aveva mai fatto caso ai secondi, e invece ora eccoli a fremere tutt’intorno al quadrante, a interferire con il suo ritmo naturale. Ecco perché non aveva mai posseduto un orologio, adesso che ci pensava. Le piaceva fare le cose quand’era pronta, con i suoi tempi. Quell’orologio cercava di darle ordini.

    Sentì Steve che cantava sotto la doccia. Era un uomo allegro, il suo Steve. Non serbava rancore a lungo. Appoggiò la schiena allo stipite e fumò la sua sigaretta guardando l’orizzonte, una sottile linea azzurra poco più scura del cielo, visibile tra gli alberi in fondo al giardino. Da lì si potevano sentire le onde, quando le cicale si fermavano un attimo a riprendere fiato: un rombo basso, poi silenzio, poi un altro rombo. Ecco un ritmo che riusciva ad apprezzare.

    «Dovrai smettere con quelle, Amanda.» Steve era in cucina, un asciugamano intorno ai fianchi, e gocciolava sul linoleum. Dal collo in giù era più pallido che sul volto, e i peli sul petto erano più scuri dei capelli. «A quanto pare fa male alla salute. Ai polmoni. L’ho letto sull’Herald

    «Lo so, l’ho letto anch’io.» Mandy si girò verso il giardino. «Anche tu ne fumi una ogni tanto.»

    «Smettiamo insieme, allora.»

    «Da quando in qua sei diventato un salutista?»

    Steve si sedette accanto a lei, stringendosi addosso l’asciugamano, a ginocchia unite. C’era spazio a malapena per tutti e due sul gradino. La pelle umida di lui le bagnava la manica della camicia da notte. Si vedeva il segno lasciato dal pettine tra i capelli.

    «Può far male anche al bambino, dicono.» La guardò schiacciare la sigaretta nel posacenere. «Dannoso per il nascituro.»

    «Non ho letto quella parte.»

    «Dicono che il bambino rischia di nascere troppo piccolo.»

    Mandy rivolse lo sguardo al giardino e riuscì a non dire che un bambino piccolo le sembrava meglio di uno grande, dal punto di vista logistico. «Smetterò se resto incinta» disse. «Che ne dici?»

    «Mandy.» Lui le prese la mano. «Sarai un’ottima mamma, lo sai.»

    Mandy fece correre il pollice avanti e indietro sul palmo della mano di lui e tenne la bocca chiusa. Lui non sapeva. Poteva solo sperare. Se Mandy si fosse rivelata anche solo vagamente simile a sua madre, sarebbe stata un disastro. E lei aveva una paura crescente, che non voleva esprimere a voce alta affinché non diventasse irreversibilmente vera, di somigliare moltissimo a sua madre. Sua madre, per esempio, avrebbe snobbato un regalo gentile e benintenzionato da parte del padre di Mandy, l’avrebbe riportato al negozio il minuto successivo all’apertura. Mandy guardò il Timex che portava al polso e lasciò la mano di Steve, sperando che andasse a vestirsi e la lasciasse sola per un po’.

    Lui non si mosse.

    Un’altra cosa che Steve non sapeva era che Mandy non aveva ancora smesso di prendere la pillola contraccettiva. Ogni mattina, mentre schiacciava il blister e vedeva uscire la pastiglietta bianca, si diceva che era solo temporaneo. Quando si fosse sentita pronta per la maternità avrebbe smesso di prendere la pillola e sarebbe rimasta incinta. Senza dubbio a un certo punto avrebbe iniziato a desiderare un figlio; avrebbe sentito la necessità di essere incinta e non sarebbe riuscita a pensare ad altro. Louisa, la vicina, le aveva raccontato di essersi sentita così prima di restare incinta di Isla. Si sentiva pronta, ed era una sensazione totalizzante. Le aveva detto che anche lei si sarebbe sentita così prima o poi. Ma neanche Louisa poteva saperlo.

    Mandy si appoggiò a Steve e sentì il suo mento sulla testa: le sue braccia forti, protettive attorno a lei. Gli posò la testa sulla spalla. Aveva due incudini al posto delle spalle, il suo Steve.

    «Hai sicuramente ragione tu» disse.

    Quarta bugia del giorno. Mandy sapeva che la Bugia del Bambino era quella che rendeva tutto il resto una bugia, e rendeva inutile contare le piccole bugie bianche. Sapeva anche, da qualche parte nascosta dentro di lei, che si stava disamorando di suo marito. E non si opponeva a quello sbiadimento, a quella luce che piano piano moriva. Perché rendeva più facile dire la bugia.

    «Stavo pensando» disse lui. «Potrei partire per quel lavoro già domattina. Così mi tolgo il pensiero.»

    «Eh?» Sperò di essere riuscita a non sembrare contenta. «Di già?»

    «Tanto vale. Non diventerà più facile se aspetto.»

    «Probabilmente hai ragione, amore.» Sentiva la salsedine nell’aria. «Starai via alcuni giorni, quindi?»

    «Ho paura di sì, tesoro. Sai che preferirei stare a casa con te.»

    «Lo so.» Si alzò e ripose le sigarette nel cassetto, sotto i tovaglioli. «Questo lo so.»

    3

    Ivanhoe, Nuovo Galles del Sud, 1966

    Fu Steve a vederla per primo, in ginocchio nel fango sulla riva del ruscello. Sembrava contenta. Con lei c’erano cinque o sei ragazzini più grandi, che cercavano di infilzare qualcosa nell’acqua con un bastone. Si girò, tenne il piede sull’acceleratore e pregò Dio che lei scappasse prima che Harry potesse vederla. Sentiva la camicia bagnata contro il sedile dell’auto. Canticchiò qualcosa per spezzare il silenzio e si consentì per un attimo di credere che non avrebbe dovuto farlo; avrebbe detto a Ray che non era riuscito a trovarla. Con un po’ di fortuna avrebbero avuto qualche mese molto impegnato e la faccenda sarebbe passata in secondo piano. Quella notte sarebbe riuscito a dormire.

    Ma non ebbe fortuna. La bambina scattò in piedi e gridò agli altri di venire a vedere, venite, guardate qua. Agitò il bastone in aria. Steve continuò a guidare, continuò a canticchiare, e lei continuò ad agitare il bastone e a gridare. Perché lo faceva?

    «Eccola!» Harry si alzò di scatto. «Laggiù, vicino al ruscello.»

    Steve frenò. Spense il motore. «Hai occhio, amico.»

    Harry andò da lei, tranquillo e sereno, come se fosse il suo zio preferito venuto a trovarla. Iniziò a parlarle, accovacciandosi sulla riva. Steve sapeva cosa le avrebbe detto: «Ti porto a fare un giro sul furgone della polizia». Diceva sempre così. «E poi ti farai una piccola vacanza.»

    Steve scese dal furgone e aspettò. Harry allungò la mano e la bambina la prese. Era affascinata da lui, si vedeva. Lo guardava e sorrideva. Forse sarebbero riusciti a completare il lavoro in fretta e senza dare nell’occhio.

    «C’è anche un bambino piccolo» disse Harry, a voce alta quanto bastava per farsi sentire da lui. «Un maschio.»

    «Dobbiamo farlo oggi?»

    «Secondo me sì.» Harry lo guardò come se fosse pazzo. «Concludiamo il lavoro, no? Non serve a niente tirarla per le lunghe.»

    Steve distolse lo sguardo, girandosi verso il ruscello dove giocavano i bambini. Ora se n’erano andati. C’era silenzio; solo un cane che abbaiava, una porta che sbatteva. Qualcuno doveva aver dato l’allarme. Avevano nascosto i figli sotto i letti, negli armadi. I più grandicelli dovevano essersi già rifugiati nel bush, ormai.

    «Preferirei evitare.» Tenne la voce bassa. «Perché non lasciamo stare, Harry? Non è mai facile con i piccoli.»

    «Non sta scritto da nessuna parte che debba essere facile.» Harry tenne la portiera aperta per la bambina, ancora con quel sorriso da bravo ragazzo addosso. «Non saresti qui se fosse facile» disse, richiudendo la portiera alle spalle di lei.

    «Non è facile per loro, voglio dire.» Alzò lo sguardo sulla casa dietro di loro, dove viveva la famiglia. «Non mi sembra giusto, no?»

    «Gesù, Steve. Che stai dicendo?»

    Steve guardò Harry. Un altro cane iniziò ad abbaiare, più vicino del primo. «Niente» disse.

    La bambina si sporse dal finestrino. «Dove vado in vacanza?» Sembrava diffidente. «Posso salutare il nonno?»

    «Ci parlo io con lui» disse Steve. La sua voce suonava falsa, come quella di una comparsa con una sola battuta. «Lo avverto io.»

    «Sbrighiamoci, forza» disse Harry. «E non ti intenerire. È tutto approvato.»

    La casa era immersa nel silenzio. Una veranda con il tetto di lamiera e un cane che dormiva all’ombra. Bussò, non troppo forte, ma sentì subito un rumore di passi. Si fece forza.

    «Che succede?» Un vecchietto aprì la porta. Era più scuro della bambina: pelle nera e capelli bianchi, come un negativo fotografico. Quello che Ray avrebbe chiamato un aborigeno purosangue. Non era molto contento di vedere un poliziotto sull’uscio di casa, e aveva visto anche il furgone giù al ruscello. «Qual è il problema?»

    Un bambino piangeva piano in salotto, invisibile. Accanto all’uomo il cane si era alzato sulle zampe, mostrava i denti, ringhiava.

    «Sono qui per i bambini» disse Steve. «Lei è il nonno?»

    «Che vuol dire?» L’uomo guardò meglio il furgone e vide la bambina sul sedile posteriore. Arretrò per lo sconcerto. Cercò di farsi avanti, gridò il suo nome. Dora.

    «Senti, non rendere tutto più difficile.» Steve lo prese per la spalla e lo spinse indietro nella casa, con forza sufficiente per far capire che faceva sul serio, ma non di più. «Lasciami entrare.»

    Era buio dentro, e un nugolo di mosche circondava un pezzo di carne su un piatto accanto al fornello. Tre bottiglie di birra vuote erano allineate

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