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Incubo di famiglia
Incubo di famiglia
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E-book463 pagine6 ore

Incubo di famiglia

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Info su questo ebook

«Il thriller svedese ha una nuova regina.»
Corriere della sera

Un grande thriller
Dall'autrice del bestseller Segreto di famiglia

È un giorno di metà agosto, quando la giornalista di cronaca nera Ellen Tamm lascia Stoccolma per tornare a casa della madre a Örelo.
Ha avuto un crollo psicologico dovuto al caso della piccola Lycke, una bambina scomparsa, che l’ha fatta sprofondare nell’abisso del suo passato traumatico. Quando aveva otto anni, sua sorella gemella, Elsa, è morta affogata, e i ricordi vaghi e sconnessi di quel giorno la tormentano. Giunta a casa trova una terribile notizia ad attenderla: in un paese vicino è stato ritrovato il corpo senza vita di una donna sconosciuta, picchiata a morte. Nessuno pare in grado di identificare la vittima o spiegare cosa ci facesse lì. Nonostante abbia un disperato bisogno di riposo, Ellen, incapace di dimenticare il suo ruolo di giornalista investigativa, decide di indagare. Inizia così a fare domande e prova a ottenere informazioni dagli agenti di polizia, senza grandi risultati. Più si addentra nel complicato intrigo di ciò che è accaduto, più si rende conto che l’idilliaca cittadina di provincia nasconde segreti. E alcuni dei più inconfessabili riguardano proprio Ellen e la sua famiglia.

L’autrice del bestseller Segreto di famiglia
Ai primi posti nelle classifiche in Svezia e in Italia

«Il thriller svedese ha una nuova regina: Mikaela Bley.» 
Corriere della Sera

«La scrittrice svedese Mikaela Bley ci racconta che gli incubi peggiori nascono in famiglia.»
Tuttolibri - La Stampa

«Una storia potente che invita a cercare il male dentro casa. Mikaela Bley è la nuova regina del giallo svedese.»
Vanity Fair
Mikaela Bley
È nata nel 1979, vive a Stoccolma con il marito e i loro due figli. Ha lavorato come produttrice per il canale televisivo TV4 e ora fa la scrittrice a tempo pieno. Ha esordito con Segreto di famiglia. Dopo l’incredibile successo internazionale del libro, l’autrice sta lavorando a una serie che ha per protagonista l’ostinata giornalista Ellen Tamm.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ago 2017
ISBN9788822713070
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    Anteprima del libro

    Incubo di famiglia - Mikaela Bley

    LUNEDÌ 18 AGOSTO

    ELLEN

    Ore 10:00

    I pensieri si susseguivano rapidi mentre Ellen attraversava vasti campi, foreste profonde e piccoli villaggi. Quando entrò sulla statale 52, abbassò il finestrino. Il rumore del vento attutiva almeno in parte l’ansia.

    L’ultima settimana era stata terribile, come non le capitava da tempo.

    Non avrebbe neppure dovuto guidare. Era stremata, stanca e avrebbe soltanto voluto dormire. Le medicine le rendevano difficile concentrarsi e pensare con chiarezza. Per tenersi sveglia, masticava un chewing-gum; accese anche la radio, ma la rispense altrettanto rapidamente, per poi accenderla di nuovo. Dopo un po’ cambiò canale, alzò e abbassò il volume. Come se servisse a qualcosa. Sentiva un fastidioso formicolio lungo tutto il corpo.

    Niente era come se l’era immaginato.

    Il sole era intenso e il calore tremolava sopra la superficie dell’asfalto. Ellen sistemò gli occhiali da sole.

    L’estate l’aveva trascorsa a letto, con l’unica compagnia della pioggia che tamburellava sulle tegole del tetto. Dopo la cronaca sul caso Lycke alla fine di maggio, a malapena aveva messo piede fuori dalla porta e aveva relegato il mondo all’esterno.

    Era una di quelle estati che sembravano non cominciare mai veramente, preceduta da una primavera fredda e piovosa. Il tanto agognato caldo era arrivato soltanto nel mese di agosto. Ed era stato allora, quando finalmente il mare sotto Skeppsbron aveva cominciato a brillare, mentre i gabbiani strillavano e gli allegri turisti mangiavano gelati sul molo, ridendo tanto che le loro risate arrivavano fino alla sua camera da letto, era stato allora che la stanza si era ribaltata. Tutto a un tratto aveva avuto come la sensazione di essere sul soffitto e di osservare se stessa dall’alto. Aveva dimenato le braccia e urlato, aveva tentato di capovolgersi, di tornare indietro, ma era come se non riuscisse a riconoscere se stessa. Come se fosse diventata un’altra, o come se non esistesse più.

    Se in quel momento non fosse arrivato Philip… Non riusciva neppure a pensarci, non voleva immaginare cosa sarebbe potuto succedere se lui non avesse avuto le chiavi di casa sua e non l’avesse portata all’ospedale.

    Philip aveva lavorato al trucco per le riprese del reality Paradise Hotel per tutta l’estate e si era preoccupato quando non era riuscito a mettersi in contatto con Ellen. Quando era tornato a Stoccolma, era andato difilato a Skeppsbron e aveva visto in quali terribili condizioni versasse.

    Philip la conosceva meglio di chiunque altro. Erano stati amici del cuore sin da quando frequentavano insieme il liceo del collegio di Lundsberg. Entrambi vi erano stati spinti contro la propria volontà: Ellen perché i suoi genitori volevano sbarazzarsi di lei e Philip perché era omosessuale, il che non era ammissibile in casa della famiglia af Lester. E ora erano colleghi al canale tv4.

    Dopo una giornata al pronto soccorso psichiatrico del Sankt Göran, era stata dimessa con la prescrizione di ulteriori cure, congedo per malattia e assunzione di farmaci. Dal momento che abitava da sola, le avevano raccomandato per i giorni successivi di vivere insieme a qualcuno che potesse tenerla d’occhio.

    Philip si era fermato da lei per qualche giorno, ma quando era stato costretto ad andare nell’arcipelago per delle nuove riprese, si era messo d’accordo con i genitori di Ellen per farla tornare a casa a Örelo, perché potesse essere accudita e sorvegliata dalla madre, nonostante avesse ormai trentacinque anni.

    L’indicatore del livello di carburante emise un bip e il cruscotto mostrò che il livello era al minimo. Si fermò dal benzinaio del piccolo centro abitato di Stentuna per fare rifornimento.

    Il calore la investì non appena scese dall’auto e percepì un lieve senso di malessere.

    Inserì nel foro la pistola della pompa e inalò nei polmoni le esalazioni della benzina. Il sudore le colava lungo la schiena e le strade polverose le avevano seccato la bocca. Quando il serbatoio fu pieno, fu presa dalla strana voglia di leccare la pistola, ma rabbrividì di fronte a quell’idea raccapricciante ed entrò per pagare. Quel distributore di benzina era uno dei pochi a non essere nelle mani dei grandi colossi. Per lo meno non ancora.

    Dentro il negozio faceva se possibile ancora più caldo e c’era un odore acre di carne e olio. Nonostante fosse agosto, il locale era un potpourri di decorazioni natalizie kitsch. Babbi Natale e orsi polari erano infilati in mezzo ad accessori per auto e audiolibri. Era sempre stato così, sin da quando riusciva a ricordare, benché il distributore avesse cambiato proprietario più volte nel corso degli anni.

    «Benzina alla tre», disse Ellen all’uomo anziano dietro alla cassa, indicando per chiarezza fuori dalla vetrina rivestita di festoni e piena di grosse palle natalizie scintillanti.

    «Certo, c’è solo una macchina là fuori, non è difficile da indovinare». L’uomo sorrise e scacciò una mosca con la mano. «Desidera altro?».

    Ellen gli chiese una bottiglietta d’acqua, delle gomme da masticare e un pacchetto di sigarette. Se conosceva bene sua madre, ce ne sarebbe stato bisogno.

    Aprì subito la bottiglietta e bevve tutto quanto in un sorso.

    «Fa caldo», spiegò, come se dovesse giustificare la propria sete e sollevò la camicia per lasciar passare un po’ d’aria.

    «Fanno 851 corone, grazie».

    Ellen inserì la carta e digitò il codice. Mentre aspettava l’autorizzazione al pagamento, lesse le prime pagine dei giornali della sera.

    ondata di calore c’era scritto in neretto a caratteri maiuscoli con il disegno di grossi soli. disordini al derby di stoccolma. record di villette in vendita. divorzi in aumento dopo un’estate catastrofica.

    «È qui per l’omicidio?».

    Ellen sollevò lo sguardo sull’uomo. «Come scusi?»

    «Vedo che c’è scritto tv4 sulla macchina. Lei è una giornalista?»

    «Sì…». Sul lunotto posteriore c’era un piccolo adesivo che indicava il suo luogo di lavoro, ma di solito non era quello ad attrarre l’attenzione della gente, bensì la Porsche rosa.

    «Ora la riconosco. Devo averla vista al telegiornale. Spero che non sia qui per diffamare la nostra piccola cittadina. Stentuna diventerà famosa per l’omicidio?»

    «Che cosa è successo?»

    «Sa di quanto aumenteranno le accise sulla benzina? Faccia piuttosto un programma su questo e sull’effetto che avrà sulla comunità».

    «Aspetti, non ci capisco niente. Di che omicidio sta parlando? È stato ucciso qualcuno qui a Stentuna?»

    «Sì, ma non una del posto, nessuno sa chi sia. Non è, anzi mi scusi, non era, una della comunità locale». L’uomo si chinò in avanti e parlò con voce sommessa, benché non ci fosse nessun altro nel negozio. «Era completamente deturpata. Il signor Ahlvarsson l’ha trovata questa mattina presto mentre spargeva il sale sulle strade. All’inizio abbiamo pensato che fosse venuta a far visita a qualcuno, ma a quanto pare nessuno sa chi sia. Non siamo in tanti a vivere in questo posto. Speriamo che non succeda come a Malexander».

    «Non credo che ci sia questo pericolo», disse Ellen e poi si trattenne, prima di informarlo sul numero delle persone che ogni anno venivano massacrate a morte senza che i media ne parlassero.

    «Non ne sarei così sicuro. A quanto sembra è stato un omicidio brutale. La macchina era parcheggiata in bella vista sul ciglio della strada e, quando Ahlvarsson è passato, ha capito che c’era qualcosa di storto. È sceso per controllare e lei era lì distesa, morta. Completamente deturpata. Ahlvarsson ha detto di non aver mai visto niente di peggio».

    «Dov’è successo?»

    «Accanto ai campi di Ahlvarsson, sulla strada verso Ålberga». Indicò la direzione.

    Ellen sapeva esattamente dove fosse. «Sa quanti anni aveva la donna?».

    Il benzinaio si strinse nelle spalle. « Ahlvarsson ha detto che era bella».

    Ellen prese una penna dal bancone e scrisse il proprio numero di telefono sul retro dello scontrino. «Mi chiami pure se dovesse sentire qualcosa di interessante».

    «Se la chiamo, comparirò in televisione?»

    «Credo che farebbe un figurone in tv», gli rispose con un sorriso, prima di uscire dalla porta.

    Una volta fuori dal benzinaio, restò ferma in piedi, mentre un freddo senso di indolenzimento si diffondeva in tutto il corpo.

    La morte. La perseguitava.

    Era appena uscita dalla porta che già la sentiva alitarle in faccia.

    All’improvviso delle risate provenienti dall’altro lato della strada attirarono la sua attenzione. C’era la scuola di Stentuna e il cortile era pieno di bambini che giocavano. Quei rumori la avvolsero e per un breve attimo desiderò di potersi unire a loro. Sembravano così spensierati. Erano davvero felici e indisturbati.

    Ellen si sedette in macchina e poggiò la testa al finestrino. Avrebbe voluto poter rifare tutto da capo. Vivere di nuovo la propria vita dall’inizio.

    Quello che desiderava davvero era fuggire, fuggire via da tutto. Ma in realtà stava tornando là dove tutto era cominciato.

    Com’era potuto succedere che tutto andasse storto in quel modo?

    HANNA

    Ore 10:15

    I bambini erano riuniti in gruppo nel cortile della scuola. Si muovevano irrequieti qua e là, punzecchiandosi l’un l’altro. Quei giochi di potere, come li chiamavano a scuola, avevano preso il sopravvento. Erano rituali di mortificazione, violenza e umiliazione a cui era difficile porre un freno. Durante la riunione del corpo insegnanti di quella domenica avevano visto un filmato in cui tre ragazzi maltrattavano un bambino. Gli sputavano e lo prendevano a calci, mentre lui, steso a terra, supplicava per avere salva la vita. Qualcuno aveva ripreso l’intera scena, l’aveva pubblicata su diversi forum in rete e quel video aveva avuto una diffusione incredibile. La polizia non aveva ancora identificato nessuno dei responsabili e spiegava che quello che accadeva nel filmato non era poi tanto raro. Hanna temeva che se non avessero messo fine a questa storia, presto qualcuno sarebbe morto e non sopportava l’idea che uno dei bambini del filmato potesse essere suo figlio.

    Dov’era Alice? Hanna si guardò intorno. Si voltò di trecentosessanta gradi. I battiti del cuore aumentarono. «Alice, dove sei? Non ti vedo. Vieni subito fuori, per favore!».

    Perché non aveva tenuto d’occhio meglio la figlia? Si asciugò il sudore e la polvere dalla fronte. I riccioli si appiccicavano al viso e, prima di dirigersi in tutta fretta verso la sabbiera, raccolse in uno chignon i lunghi capelli pesanti. Se non c’è, mi metto a urlare per chiedere aiuto, pensò, slittando sulla ghiaia asciutta. Quando alzò il coperchio, un paio di grandi occhi la fissarono dal basso. Il piccolo volto di bambola aveva un’espressione estremamente seria e Hanna ebbe una strana visione di chi sarebbe stata Alice da grande.

    «Mamma, che fai! Chiudi il coperchio!».

    «Non puoi sparire in questo modo. Ora esci!». Hanna la afferrò per il braccio e la tirò fuori dalla cassa, benché la bambina si ribellasse.

    «Ma gli altri mi vedranno…». Alice scalciava con le gambe. «Lasciami!».

    «Quando ti chiamo, devi venire subito! Hai capito?».

    Alice era esperta nello scomparire e negli ultimi tempi la situazione era peggiorata, faceva cose che non aveva mai fatto prima. Hanna non aveva la forza di sopportare un ulteriore carico d’ansia; quella che le procurava Karl era già più che sufficiente.

    «Mi dispiace mamma, ma sono stata costretta…». Alice increspò il viso come faceva sempre appena prima di mettersi a piangere. Gli occhi si riempirono subito di lacrime.

    Come al solito, Hanna si sentì colpita dritto al cuore. «No, sono io che devo chiederti scusa». Cercò di sorridere. Attirò Alice verso di sé e affondò il viso nel suo collo, tra le due trecce. «Non avevo intenzione di urlare in quel modo, non so cosa mi sia preso. Scusami, tesoro mio. A cosa state giocando?».

    La figlia si sottrasse rapida all’abbraccio. «A niente».

    «Sai che puoi raccontarmi tutto».

    «Non è niente». Alice corse via, verso i compagni nel cortile della scuola.

    Karl era in mezzo al gruppo e la guardava in cagnesco, con gli occhi celesti ereditati dal padre. Era tra i più grandi della scuola ormai ed era più alto degli altri di quasi una spanna. I bambini di tutte le classi lo guardavano con ammirazione e gli si radunavano intorno.

    Doveva andare da loro per vedere cosa stava succedendo, o forse un suo intervento avrebbe solo peggiorato le cose? Avevano già abbastanza problemi. L’ansia crebbe, di pari passo con il mal di testa che le era venuto dopo la sbronza del giorno prima.

    Lentamente esplorò con lo sguardo lo spiazzo di ghiaia e la bella scuola antica in legno rosso e decorazioni bianche che era stata per lei fin da subito un amore a prima vista.

    L’aria era immobile e lo stendardo sull’asta alzabandiera penzolava flaccido. A un tratto il bosco dietro la scuola le sembrò oscuro e minaccioso. Il suo sguardo venne attratto dalle auto che attraversavano Stentuna a una velocità esagerata lungo la statale. Il rumore dei bambini che urlavano e ridevano si stendeva sullo sfondo come un brusio incomprensibile. Il suo cuore galoppava e Hanna non riusciva a liberarsi della sensazione che qualcuno la stesse osservando.

    «Ahi». Si voltò di scatto quando sentì un pizzicotto sul sedere. «Johan, piantala. Che accidenti fai?». Riaffiorarono i ricordi del giorno prima e Hanna avrebbe voluto poter riavvolgere il nastro. Non avrebbe dovuto bere tanto vino e soprattutto non avrebbe dovuto lasciarsi sedurre.

    «Non rispondere in questo modo, i bambini potrebbero sentirti». Johan sghignazzò.

    Hanna lo guardò con disgusto. «Smettila! Non hai alcun diritto di toccarmi. Non capisci che i bambini potrebbero vederti? Vuoi che crescano pensando che i maschi possono comportarsi in questo modo con le femmine? In quanto direttore hai una certa responsabilità». Le sembrava inconcepibile dovergli spiegare certe cose.

    «Ohi, ohi, calmiamoci adesso! Mi sembra che ieri tirasse un’aria del tutto diversa. Già, pensa a quanto sarebbe orribile se crescendo diventassero come me. Quel brutto cattivone di Johan». Tese i muscoli.

    «Potrei denunciarti per molestie sessuali». Le si infiammarono le guance e dovette fare uno sforzo per riuscire a controllarsi.

    «Certo, fallo pure». Adesso sghignazzava ancora di più. «Difendi i tuoi diritti. Schierati per la lotta. E dato che ci sei, trascinati dietro le altre calze rosse della sala insegnanti. Che stanno facendo?». Accennò con il capo ai bambini e tutto a un tratto assunse un’aria seria.

    «Non lo so, ma non mi piace. Alice sembrava spaventata a morte e si era nascosta nella sabbiera poco fa».

    «Solo perché Alice è tua figlia non vuol dire che tu debba preoccuparti soltanto di lei».

    Hanna annuì, ben consapevole del fatto che Johan aveva ragione, anche se ormai avrebbe dovuto sapere che non c’era nessun bisogno di farglielo presente. Lavorare come insegnante nella stessa cittadina in cui abitava comportava un’alta probabilità di avere come alunni i propri figli e la cosa non sempre era priva di complicazioni. Il più delle volte era Alice a pescare il biglietto perdente e a ricevere minori attenzioni, perché Hanna faceva di tutto affinché genitori e bambini non pensassero che riservasse alla figlia un trattamento di favore. Comunque si comportasse, sbagliava. Era successo lo stesso con Karl quando frequentava le prime classi delle elementari. Benché fosse difficile affrontare certi pensieri, Hanna sapeva che questo aveva influenzato negativamente il loro rapporto e che era stato allora che Karl aveva cominciato ad allontanarsi da lei. Forse la vedeva più come un’insegnante che come una mamma ed era probabilmente per questo che Hanna lottava strenuamente per far sì che la stessa storia non si ripetesse con Alice.

    «È stato bene indire una riunione ieri», disse. «Dovremmo organizzarne al più presto una anche per i genitori».

    Johan annuì. «A proposito, quella storia dell’omicidio è orribile. Voi avete visto qualcosa? Vivete proprio lì vicino».

    Hanna non rispose e continuò a tenere d’occhio i bambini, che diventavano sempre più chiassosi, mentre l’atmosfera nel cortile sembrava farsi quasi carica d’odio.

    «Fammi sapere se vuoi che venga a trovarti quando tuo marito non c’è. Immagino che ieri fosse via, vero?». Johan le diede un colpetto sul fianco e si impettì. La sua presenza fisica era altrettanto ingombrante quanto il suo ego e si comportava come gli pareva. Per lui la vita era un gran buffet, dove tutti potevano servirsi e prendere ciò che volevano quando volevano. «Hai visto qualcosa?», le chiese di nuovo.

    «No, solo gli sbarramenti e le volanti stamani».

    Prima che Johan potesse aggiungere altro, Hanna suonò la campanella che teneva in mano.

    «Ma che fai?». Johan guardò l’orologio. «La ricreazione non è finita, mancano ancora cinque minuti».

    Ma a lei non importava, voleva tornare dentro, le sembrava che fuori non fosse sicuro ed era arrivato il momento di separare i bambini. «I giochi sono finiti, voglio vedere tutti dentro», gridò, continuando a suonare la campanella, mentre scrutava il cortile.

    Le restava ancora la sensazione che qualcuno la stesse osservando. Cercò di convincersi che era una sua fantasia, ma se non lo fosse stata?

    Doveva telefonare a Stoffe non appena avesse avuto modo di parlare indisturbata. Praticamente non aveva avuto il tempo di rivolgergli parola dopo che la polizia era stata da loro quella mattina. Quando avevano riferito della donna uccisa, Hanna sulle prime non aveva saputo che dire o come reagire. Ma la menzogna che era seguita le era venuta del tutto naturale. I bambini erano stati molto schivi nel rispondere alle domande e lei aveva ringraziato il cielo che non avessero raccontato niente di troppo.

    Poteva sperare che quella sera Stoffe sarebbe tornato a casa, ma forse ormai era cambiato tutto? Dovevano mantenere un comportamento riservato e agire con discrezione.

    Hanna tenne la porta aperta per far entrare i bambini, contandoli mentre scorrazzavano dentro. Perse il conto più volte e fu costretta a ricominciare da capo quando furono riuniti nell’atrio del guardaroba.

    Alcuni bambini le sollevarono la tunica. «Ah, ah, ti abbiamo visto le tette!».

    «Le hai più grosse di quelle della mia mamma».

    Risero.

    Quando un altro bambino le sollevò la tunica, cacciò un urlo. Troppo forte e con un tremito evidente nella voce.

    Vide Alice che si rintanava in un angolo e trasse un profondo respiro. «Allora, adesso andate dentro e sedetevi ai vostri posti».

    Prima di chiudere la porta, diede un’ultima occhiata in cortile. Vuoto.

    Chiuse la porta ed entrò in classe.

    ELLEN

    Ore 10:35

    Invece di proseguire sulla statale 52 in direzione di Örelo, Ellen svoltò nella strada che portava alla fattoria di Ahlvarsson. Stringendo il volante, promise a se stessa che avrebbe solo dato una rapida occhiata al posto e poi sarebbe andata a casa.

    Non conosceva né il signor Ahlvarsson, né la sua fattoria, ma quella strada di campagna l’aveva percorsa più volte nella sua vita. Da un lato la foresta cresceva alta e folta e dall’altro i campi di avena si stendevano a perdita d’occhio. Le sembrava di essere diretta verso i confini del mondo.

    Benché sapesse che doveva starne alla larga, se ne sentiva attratta, dalla morte. Era come se la chiamasse a sé, o come se fosse una droga. Concentrandosi sulle sofferenze altrui, riusciva a distogliere l’attenzione dalle proprie e questo la faceva sentire meglio. Almeno sul momento.

    Quando arrivò a un posto che evidentemente doveva chiamarsi Solbyn, trovò la strada sbarrata. Si fermò accanto a un cartello che segnalava la possibile presenza di bambini che giocavano, a due volanti della polizia e al furgoncino della Scientifica con il portabagagli sul tettuccio, parcheggiati in fila indiana accanto al nastro segnaletico bianco e azzurro. Era stata recintata una zona molto vasta. Scese dall’auto e inalò l’aria calda nel profondo dei polmoni.

    In realtà avrebbe dovuto tornare a sedersi in macchina e andarsene da quel posto. Quello che stava compiendo era un atto autolesionistico. A fare quell’analisi era stato uno di tutta una lunga lista di psicologi che aveva consultato. Invece di incidersi le braccia, andava a scavare nelle atrocità, nelle morti improvvise.

    A centocinquanta metri dal nastro segnaletico c’era una macchina che Ellen pensò appartenesse alla donna, una Golf blu, rivolta in direzione di Ålberga. Doveva essere arrivata da Nyköping. Sembrava che avesse voluto infilarsi nel campo e uno degli pneumatici era finito nel ciglio della strada. Come se si fosse fermata per via di qualcosa o di qualcuno, in una posizione in cui non risultasse d’intralcio per il traffico.

    Accanto all’auto della donna la polizia aveva innalzato un tendone. A quanto pareva, la macchina nascondeva il corpo. I tecnici, con indosso tute simili a quelle degli astronauti, lavoravano a pieno ritmo per raccogliere prove.

    Ellen prese il cellulare e scattò delle foto. Zoomò sulla targa e inserì le cifre e le lettere direttamente nell’app della motorizzazione. Risultò che la macchina era stata presa a leasing, ma non era possibile vedere da chi.

    Senza riflettere, aprì il proprio account di posta elettronica per la prima volta dopo varie settimane. La casella della posta in entrata venne sommersa ed Ellen non riusciva neppure a pensare a quante mail non lette dovessero esserci. Invece di controllare, scrisse direttamente alla collega Gialletta che svolgeva un lavoro di ricerca nella redazione del telegiornale. Il suo vero nome era Ann, ma Philip ed Ellen la chiamavano Gialletta perché leggeva di nascosto romanzi gialli.

    Ellen le chiese di controllare chi fosse il proprietario dell’auto. Dal momento che era in congedo per malattia, non avrebbe dovuto trovarsi su una scena del crimine, né scrivere mail con delle richieste al lavoro, ma per la prima volta dopo tante settimane sentiva di nuovo il sangue circolare nel corpo e provava un senso di liberazione.

    La stupiva che non ci fossero giornalisti sul posto. O la polizia era riuscita a mantenere un profilo basso, oppure il caso non era abbastanza interessante. Forse era già stato accantonato come un omicidio a sfondo sessuale o forse nel mondo stavano accadendo altri fatti il cui valore mediatico era più importante del destino di quella donna.

    Ellen lasciò spaziare lo sguardo nel campo. Una squadra cinofila stava effettuando una perlustrazione poco più in là. C’era una tale quiete. L’avena oscillava dolcemente nel vento leggero. Gli uccelli si muovevano splendidi nel cielo. In fondo al campo riusciva a scorgere quella che pensava fosse la fattoria di Ahlvarsson e dovette trattenersi per non andare a sommergerlo di domande. La curiosità era sempre stata il suo lato forte, ma poteva anche diventare una debolezza, quando le permetteva di prendere il sopravvento. Poco lontano, dall’altro lato della strada, sorgeva Solbyn, una piccola frazione di Stentuna, che consisteva soltanto in tre case rosse disposte in fila, circondate da uno steccato dello stesso colore.

    Il sole era intenso ed Ellen andò a prendere gli occhiali che aveva lasciato in macchina sul sedile del passeggero.

    Dei bambini in bicicletta si fermarono accanto al nastro bianco e azzurro.

    Avevano degli zaini dai colori sgargianti e i capelli appena tagliati. Fronti sudate e gambe segnate da ferite estive. Erano carini e agghindati per l’inizio della scuola, tutti in abiti nuovi, con pantaloncini, magliette e scarpe da ginnastica. In preda a un misto di sensazioni, Ellen ricordò com’era tornare a scuola dopo le vacanze estive.

    I bambini ridevano e indicavano con le dita. Qualcuno sghignazzò rivolto a Ellen e lei abbassò lo sguardo.

    Sono solo curiosi. Non capiscono la gravità della situazione, pensò quando si allontanarono pedalando per la loro strada.

    «Scusate», gridò avvicinandosi al nastro. «Mi chiamo Ellen Tamm e sono una giornalista di cronaca nera di tv4. C’è qualcuno con cui posso parlare?».

    Un poliziotto le venne incontro malvolentieri. Portava un giacchetto segnaletico simile a quelli indossati da chi pratica la pesca con la mosca, gli occhi erano piccoli e i capelli biondi arruffati. «Qui sul campo non possiamo rispondere a nessuna domanda e abbiamo bisogno di lavorare in pace», spiegò scacciando con la mano gli insetti che gli ronzavano intorno.

    Ellen si tolse gli occhiali da sole. «Capisco. Vi lascerò continuare il vostro lavoro, ma potrebbe riferirmi brevemente quello che sapete?»

    «Sospettiamo si tratti di un crimine efferato. È tutto quello che posso dirle. Se ha altre domande, può parlare con Börje, il capo per le indagini preliminari. Börje Swahn. Telefoni al centralino».

    Prima che le desse le spalle, Ellen gli fece un’altra domanda: «Conoscete il nome della vittima?».

    L’uomo sospirò e la guardò come se non avesse tutte le rotelle a posto, probabilmente desideroso di poterla scacciare come aveva fatto con le mosche.

    In un certo senso aveva ragione. Era raro per lei incappare in un omicidio in quel modo, senza nessuna informazione precedente. «Ci sono delle impronte? Qualcuno è sceso dalla macchina?». Probabilmente non erano rimaste tracce di pneumatici dopo che Ahlvarsson aveva cosparso di sale la strada. Era difficile che rimanessero delle impronte quando il terreno era così asciutto.

    Il poliziotto scosse la testa.

    «Avete trovato qualcosa? Suvvia, qualche informazione potrà pure fornirmela, no?»

    «No, non posso». Girò i tacchi e se ne andò. «Telefoni a Börje».

    Accidentaccio, pensò Ellen seguendolo con lo sguardo.

    Poteva darsi che la donna si fosse fermata per chiedere un passaggio? O forse c’era qualcuno con lei in macchina? Ma in tal caso come si era allontanata l’altra persona da quel posto? Ellen avrebbe dovuto controllare la circolazione di veicoli nella zona e chiamare Börje Swahn.

    Il telefono emise un trillo. Non si era ancora abituata al fatto di averlo acceso e la domanda era se fosse pronta per dare il benvenuto alla realtà, prendere posizione sul web, affrontare l’odio, le minacce e tutte le altre schifezze. No, in verità non lo era, ma non poteva isolarsi dal mondo per sempre.

    Dove sei? Mamma

    Ellen emise un profondo sospiro e lanciò un’occhiata fugace in direzione della fattoria di Ahlvarsson, prima di tornare alla macchina.

    ELLEN

    Ore 11:15

    A ogni fila di tigli centenari che oltrepassava lungo il viale, l’ansia si faceva più intensa. Non era più stata a casa a Örelo dall’inizio dell’estate, appena dopo il caso Lycke. Aveva resistito due giorni, prima di sentirsi inghiottire dall’isola. Nello specchietto retrovisore vide che si formava una grossa nuvola di polvere dalla strada sterrata. Se avesse potuto scegliere, non sarebbe tornata, per lo meno per qualche tempo.

    Per attutire la crescente sensazione di disagio, aprì il browser del telefono ed entrò sul sito dell’«Aftonbladet», mentre con l’altra mano reggeva il volante.

    La prima pagina era dominata dai disordini per il derby di calcio della sera precedente, durante i quali un uomo era stato ucciso in Sveavägen, a Stoccolma. La seconda notizia riguardava l’ondata di calore e la terza uno dei partecipanti alla stagione primaverile di Paradise Hotel che aveva venduto droga in un club di Växjö.

    Dovette scrollare molto più giù per trovare un trafiletto sull’omicidio di Stentuna.

    Una donna è stata trovata morta stamattina alla periferia di Stentuna. La polizia ha aperto delle indagini preliminari sul decesso, che potrebbe anche rivelarsi un omicidio. Stando a quanto affermano le forze dell’ordine, il corpo è stato rinvenuto all’aperto e, date le circostanze, non si può escludere che si tratti di un crimine. Se qualcuno avesse visto qualcosa, è invitato a contattare la polizia al numero 114 114.

    Quando Ellen arrivò in cima alla collinetta e vide il castello, fu colpita dal puzzo dei maiali. Tirò su i finestrini, rallentò e proseguì lenta lungo lo spiazzo di ghiaia perfettamente rastrellata dove ogni sassolino aveva sempre avuto il suo posto preciso sin da quando il castello era stato edificato nel Settecento.

    Si riversò su di lei un’ondata di malessere non appena uscì dalla macchina. Difficile dire se dipendesse dal caldo, dal fetore o dall’isola.

    Con un profondo sospiro osservò il bell’edificio sontuoso con la sua orribile facciata gialla. Ricoperta di edera fino alle camere da letto per tenere lontano i ladri, così si diceva. Piuttosto ironico, considerato il fatto che eventi inquietanti si erano già insinuati dentro quella casa.

    «Eccoti, finalmente. Mi stavo preoccupando e tu non rispondi al telefono». Mamma Margareta uscì dalla porta della cucina ed esordì, come suo solito, con una frase negativa.

    Ellen richiuse la portiera della macchina. «Ora però sono qui».

    Margareta era vestita nelle tonalità del grigio, con una camicia chiara e dei pantaloni lunghi più scuri con la piega. La lacca teneva a posto i capelli argentei. Una volta alla settimana andava dalla parrucchiera, a differenza di Ellen, che legò svelta i propri capelli scarmigliati in uno chignon sopra la testa per non far venire un colpo a sua madre.

    Si scambiarono un rapido abbraccio.

    «Fatti guardare». Margareta fece un passo indietro. «Come sei dimagrita. Non hai mangiato quest’estate?».

    Senza rispondere, Ellen aprì il bagagliaio.

    «Sei favolosa, stai benissimo. Se perderai qualche altro chilo potrai entrare nei vestiti che avevo alla tua età. E li comprai dopo aver avuto voi due gemelle».

    Era difficile ignorare l’orgoglio nella sua voce.

    «Ho sempre sognato che una di voi due li indossasse…».

    Ellen non era a casa neanche da cinque minuti e sua madre era già riuscita a introdurre tutti gli argomenti che le facevano venire voglia di scappare da quel posto: il fatto che aveva perso sua sorella gemella, che era single e lontana dal costruirsi una famiglia propria, che non si faceva mai sentire, che non era morta… Ma Ellen sapeva che non sarebbe stata una brillante idea cominciare a discutere con la madre, questo ormai lo aveva imparato. Si morse invece con forza il labbro.

    «Vuoi che ti aiuti con le valigie?». Margareta si avvicinò a Ellen e sbirciò nel bagagliaio. «Questo è tutto quello che ti sei portata? Lo sai, no, che devi restare finché non ti sarai ristabilita?».

    Ellen tirò fuori il borsone per i fine settimana. «Lo so», disse richiudendo il bagagliaio. «Non mi serve niente più di questo».

    «Ok, se lo dici tu. Vai in casa a lavarti per rinfrescarti dal viaggio mentre io apparecchio con del tè freddo giù alla rimessa delle barche. L’ho preparato io stessa, con la menta del giardino. E forse dovresti cambiarti d’abito e indossare qualcosa di più appropriato?»

    «E perché mai? Fa qualche differenza cosa indosso in questo posto?», chiese Ellen, abbassando gli occhi sui pantaloncini di jeans sdruciti e sul reggiseno rosa che traspariva dalla camicetta bianca sgualcita.

    A un tratto sullo spiazzo di ghiaia giunse un suv, che parcheggiò accanto alla macchina di Ellen. Ne uscì un uomo, che richiuse la portiera sbattendola con fragore.

    «Accidenti, che puzzo di maiali c’è in questo posto!».

    «Papà», disse Ellen, «che ci fai qui?». Non riusciva a ricordare quand’era l’ultima volta che lo aveva visto a Örelo.

    «Dobbiamo parlare insieme di questa faccenda. Non posso occuparmi di te da sola», spiegò sottovoce Margareta a Ellen, mentre guardava il proprio ex marito.

    «Ciao», disse lui, dando alla figlia un abbraccio fugace, in cui Ellen però ebbe il tempo di riconoscere il profumo della sua acqua di colonia e di sentire che aveva ancora addosso il fresco del condizionatore.

    Si tolse gli occhiali da sole scuri ed Ellen poté constatare che era elegante come sempre. Quando era piccola, pensava che fosse il papà più bello del mondo e qualunque cosa facesse restava sempre il migliore. Tutto ciò che toccava diventava oro.

    Doveva essere quello il motivo per cui era stato così doloroso vedere quell’immagine ribaltarsi. Quando le aveva abbandonate.

    «Ciao Erik», rispose Margareta socchiudendo gli occhi contro il sole.

    «Ciao», rispose lui dandole un bacio sulla guancia.

    Ellen avrebbe voluto non vedere come sua madre arrossiva.

    «Scendete pure verso il lago», disse Margareta, «io intanto prendo qualcosa da bere».

    Fecero come aveva suggerito. Con Ellen che camminava qualche metro dietro al padre, oltrepassarono il castello e discesero il piccolo sentiero che portava alla rimessa per le barche.

    «In questo posto è sempre tutto uguale», disse lui guardandosi intorno nel giardino e lungo il lago. «Non venivo qui da, be’, quanto sarà? Dieci anni». Ne sembrava quasi orgoglioso, come se stesse parlando di un posto che aveva solo visitato qualche volta, non del luogo dove aveva vissuto, messo su famiglia e perso una figlia.

    Quando arrivarono giù al lago, lui andò sul molo e tirò leggermente gli

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