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Il bersaglio su di noi
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E-book439 pagine5 ore

Il bersaglio su di noi

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Info su questo ebook

Il modo migliore per mantenere una promessa è non farla.
Non molto tempo fa, in una cappella di Las Vegas, ho giurato di amare Karissa per il resto della mia vita. Ma nessuno può promettere un numero infinito di giorni. Nessuno può garantire quanto durerà.
Per uno come me, poi, il futuro è ancora più incerto. A volte, tutto ciò che si può avere è il presente.
Carpe diem.
Cogli l’attimo.
Ho sperato che fosse finita e che avremmo potuto essere felici, ma ci sono persone che continuano a ostacolare la mia intenzione di vivere in pace. In passato, le mie mani si sono macchiate di tanto sangue e adesso qualcuno vuole che io paghi per questo.
Ogni vero uomo che aspira al “vissero per sempre felici e contenti” è disposto a lottare affinché il suo desiderio si avveri, e ora che hanno messo un bersaglio anche su Karissa, oltre che su di me, non resterò inerme. Nessuno sarà mai al sicuro, quando si tratta di proteggere la donna che amo e la vita per cui mi sono battuto.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mag 2021
ISBN9788855312936
Il bersaglio su di noi
Autore

J.M. Darhower

J.M. Darhower lives in a tiny town in the Carolinas with her family.

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    Anteprima del libro

    Il bersaglio su di noi - J.M. Darhower

    Capitolo 1

    Karissa

    «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.»

    Giuseppe Vitale non è uno che usa giri di parole, di solito. Spesso, parla per enigmi, caratteristica che suo figlio ha ereditato da lui, ma ciò che intende dire è sempre molto chiaro, mai sottointeso. È uno che ha le sue convinzioni e certezze e, quando arriva il momento, non esita a farti sapere quello che pensa.

    Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.

    Sta parlando di Ignazio.

    «È una persona diversa ora» ribatto, abbassando gli occhi sul tavolino in legno tra di noi, come se, inconsciamente, dubitassi delle mie parole. Lui è diverso rispetto a prima, è vero, ma sono consapevole che potrebbe non significare che sia cambiato realmente.

    Può davvero cambiare? Non lo so.

    E io dovrei volere che cambi?

    È trascorso un anno da quando un proiettile mi ha trapassato il petto, nell’ingresso di casa nostra, a Brooklyn, anche se a volte mi fa ancora così male che sembra successo ieri. Da un punto di vista fisico, la mia ferita si è rimarginata, ma il mio cuore è un’altra storia.

    Ha delle crepe, qua e là.

    E probabilmente resterà per sempre così.

    Sei settimane fa, Naz mi ha chiesto di sposarlo. Me l’ha chiesto per davvero, a differenza delle altre volte. E questa volta, quando ho risposto di sì, sapevo esattamente con chi mi stessi impegnando. So che tipo di uomo è. So le cose che ha fatto e quelle che aveva intenzione di fare. Abbiamo detto lo voglio quella stessa notte, nella cappella dell’MGM Grand, a Las Vegas, e ho trascorso ogni notte, da allora, a convincermi di aver preso la decisione giusta.

    Perché lui è diverso.

    Davvero.

    Ma cosa significa esattamente diverso?

    Giuseppe allunga un braccio e appoggia una sua mano ruvida e callosa sulla mia, stringendomela leggermente per richiamare la mia attenzione. Ha un sorriso sulle labbra, ma non è un sorriso di felicità. È molto più vicino alla pietà.

    Riesco quasi a sentire cosa pensa.

    Povera ragazza, non sai in che guaio ti sei cacciata.

    «Sai, si dice che, se metti una rana in una pentola di acqua bollente, quella salterà fuori» racconta. «Ma, se metti la rana in una pentola di acqua fredda e poi pian piano aumenti la temperatura, resterà esattamente dove l’hai infilata, come se nulla fosse. Capisci dove voglio andare a parare con questo discorso?»

    Aggrotto le sopracciglia per il repentino cambio di argomento. «No.»

    «Tu sei la rana, fanciulla, e Ignazio? Ti sta cuocendo viva senza che nemmeno te ne accorga.»

    Vorrei ribattere a questa sua affermazione. Vorrei dirgli che si sbaglia. Perché è così. Si sbaglia. Ma le uniche parole che mi vengono in mente sono lui è diverso, e non saprei nemmeno bene da dove cominciare per fargli capire cosa intendo. È sempre Naz, il solito spaventoso Ignazio, ma Vitale non si è fatto vedere... non da me, almeno.

    Capisco, però, che Giuseppe non riesca a distinguere le diverse maschere. Guarda suo figlio e vede solo il mostro in cui si è trasformato nel corso degli anni. Non riesce a vedere l’uomo che era, o l’uomo che è, l’uomo che giura sta cercando di diventare.

    Sparisce ancora di notte, a volte. Ci sono ancora delle conversazioni telefoniche sussurrate. È sempre paranoico e iperprotettivo, ed esageratamente cauto, ma il punto fondamentale è che non è crudele. Non è subdolo. Io capisco lui. Lui capisce me. Non mi tratta con i guanti di velluto, ma non mi mette nemmeno davanti a cose che non posso tollerare. Mi tratta come una persona, non una sua proprietà, sebbene, sì... il suo atteggiamento possessivo in alcune occasioni sia ancora piuttosto forte.

    Quell’uomo è un enigma. Un puzzle bellissimo, e a volte terrificante, di cui ancora sto mettendo insieme i pezzi, poco alla volta.

    Giuseppe, invece, non ha nessun interesse nella guarigione di suo figlio. Non gli interessa che sia diverso. Dal suo punto di vista, Naz è così rotto da non poter essere riaggiustato.

    Prima di riuscire a pensare a qualcosa con cui ribattere a Giuseppe, qualcosa che non sia il solito ma lui è diverso, la porta della gastronomia si apre con un rumoroso scampanellio. C’è qualcosa nel modo in cui Naz fa il suo ingresso, una vibrazione nell’aria, un calore provenire dal suo sguardo, che mi avvisa che è qui, che è arrivato.

    Giuseppe non si gira a controllare, ma so che l’ha percepito anche lui.

    «Porca vacca» borbotta in italiano, dopo un sospiro profondo, mentre toglie le mani dalle mie e si alza, rimettendo a posto la sedia su cui era seduto. I suoi occhi rimangono puntati sul mio viso, la pietà ha lasciato il posto alla frustrazione. «Ti vanno i biscotti? Vuoi degli Snickerdoodle

    Si allontana, senza aspettare la mia risposta.

    Alcuni secondi dopo, la sedia di fronte a me viene spostata di nuovo e qualcun altro ci si accomoda sopra. Sollevo lo sguardo su di lui, sorridendo, quando lo sento bofonchiare: «Proprio come una puttana in una chiesa, quando entro qui.»

    Sono molto simili, Naz e suo padre, ma non mi beccherete mai a rivelarlo a nessuno dei due. Uomini testardi.

    «Con tutti i posti che ci sono...» continua con un sopracciglio alzato, mentre mi fissa dall’altro lato del tavolo. «Avrei potuto ottenere un tavolo a Le Bernardin all’ultimo minuto, avrei potuto portarti di nuovo al Paragone, ma no... tu mi chiedi di incontrarci per pranzo al Da Vitale, Specialità Gastronomiche Italiane.»

    Scrollo le spalle. «Il cibo qui è ottimo.»

    «Non lo discuto, ma l’atmosfera lascia un po’ a desiderare.»

    In quel momento, Giuseppe torna e mi mette davanti un piattino di biscotti. Sono appena sfornati, riesco addirittura a sentire il profumo dello zucchero caldo alla cannella. «Oh, sei un dono del cielo» esclamo, afferrando un biscotto e addentandolo. Delizioso.

    Naz alza gli occhi al cielo. Alza gli occhi al cielo.

    Penso di non averglielo mai visto fare, prima.

    «Hai intenzione di ordinare qualcosa?» domanda Giuseppe impaziente, lanciando un’occhiata al suo unico figlio. «O hai solo intenzione di bazzicare qui intorno?»

    «Dipende» risponde Naz.

    «Da cosa?»

    «Se sei disposto a servirci o meno.»

    Giuseppe brontola tra sé e sé, mentre si dirige dritto dietro il bancone e spalanca con violenza la porta a vento.

    Sparisce in cucina.

    «Quindi, ehm, significa che mangiamo qui?» domando.

    «Significa che sto ordinando qualcosa» chiarisce Naz. «O è andato sul retro a prepararci il pranzo oppure è andato a chiamare la polizia per denunciarmi di nuovo per violazione di domicilio. Ma ho troppa fame e penso valga la pena correre il rischio.»

    Naz si alza e si dirige al bancone per ordinare due speciali.

    Dopo aver pagato, si gira per tornare al tavolo, ma si ferma sui suoi passi e si volta di nuovo. «Non è che per caso hai il giornale di oggi, vero?» chiede al ragazzino alla cassa, uno dei tre impiegati che Giuseppe paga perché gli diano una mano in negozio. Di solito, per chissà quale ragione, tende a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro da solo. Orgoglio, forse. Più probabilmente, ostinazione.

    Prima che il ragazzo possa rispondere, Giuseppe urla dalla cucina: «Comprati il tuo fottuto giornale!»

    Scuotendo la testa, Naz ritorna a sedersi. «Suppongo sia ovvio, adesso, da chi ho preso la mia stronzaggine.»

    «Non è stronzo» replico, rimpinzandomi ancora di biscotti. «Nessuno di voi due lo è, se è per questo. Siete solo, sai... un po’ impetuosi.»

    «Impetuosi» ripete Naz. «È un modo di vederla.»

    Impetuoso è proprio ciò che è. La sua intensità non ha paragoni. I suoi luminosi occhi azzurri mi bruciano l’anima, mentre, lentamente, attentamente, scrutano il mio viso e mi osservano mordere il biscotto, come quando è eccitato. Sento le guance andarmi a fuoco. «Perché mi stai fissando?»

    Lui si china verso di me, con un sorrisetto sulle labbra che gli mette in mostra le fossette. «Perché no?»

    Dopo solo pochi minuti, il nostro cibo è pronto. A quanto pare, Giuseppe ha deciso di servirgli da mangiare. Io affondo la forchetta nel piatto nell’istante stesso in cui mi viene messo davanti, mentre Naz tentenna. Solleva il sandwich con due dita e lo studia con occhi socchiusi, ispezionandone il contenuto.

    «Per l’amor di Dio, Ignazio» urla Giuseppe, uscendo dalla cucina. «Mangia quel dannato coso!»

    Passa un secondo.

    Poi, un altro.

    E un altro ancora.

    Penso che non lo mangerà, invece alla fine... lo mangia. Lo avvicina alla bocca e tira un piccolo morso, masticando attentamente. Porca puttana.

    Non vorrei farne un caso di Stato, dare più importanza di quella che ha al fatto che sta mangiando una delle specialità di suo padre, cibo che appena poco tempo fa non avrebbe neanche toccato. Non vorrei agitare le acque con i miei commenti, ma Giuseppe non ha minacciato nemmeno una volta di sbatterlo fuori a calci nel sedere. Non vorrei gongolare, ma non posso farne a meno. Sento spuntarmi in viso un sorriso di soddisfazione. È una persona diversa. Lo è.

    Te l’avevo detto sono le parole che ho sulla punta della lingua.

    «Visto?» dico, invece, quasi euforica, mentre guardo Naz mangiare. «Lo sapevo che voi due...»

    Non ho la possibilità di finire la mia battuta arrogante. Le parole mi muoiono in gola, quando una serie di spari riecheggiano nel locale, uno dopo l’altro.

    Bang.

    Bang.

    Bang.

    Non ho neanche il tempo di reagire che Naz è già scattato in piedi, ha afferrato il nostro tavolo e l’ha capovolto davanti a noi, spingendomi sotto di lui sul pavimento a scacchi. Sbatto contro il pavimento. Forte. Con una smorfia di dolore, stordita, cerco di sbirciare oltre il tavolo e osservo, con orrore, la vetrata frontale che si crepa colpita da una pioggia di proiettili.

    Proiettili.

    Fottuti proiettili.

    Qualcuno sta sparando contro la gastronomia.

    Tutti quanti si gettano per terra, corrono istintivamente a nascondersi. Tutti, tranne Naz... e suo padre, se è per questo. Entrambi gli uomini se ne stanno in piedi e guardano dritto davanti a sé, mentre il vetro scuro si scheggia e si incrina senza però sgretolarsi.

    È a prova di proiettile.

    Un paio di secondi. È il tempo in cui si svolge tutto il putiferio. Una dozzina di colpi di pistola in rapida successione, poi una macchina si allontana, sgommando e sollevando fumo. Riesco a malapena a vedere attraverso il vetro frastagliato, ma senz’ombra di dubbio è una macchina nera, una massa indistinta di metallo scuro che si toglie di mezzo a tutta velocità, prima che possa essere fermata.

    Il cuore mi martella contro la cassa toracica, così forte che mi fa male il petto. Inspirando a bocca aperta, provo a riprendere fiato, ma è difficile. Maledettamente difficile. Un silenzio assordante sovrasta la gastronomia, subito dopo la sparatoria. Sembra durare un’eternità. Siamo tutti storditi. Alla fine, Naz, volta la testa e abbassa lo sguardo su di me, che sono ancora accucciata sul pavimento, e mi porge la mano.

    «Stai bene?» chiede, anche se non sembra per nulla allarmato. Non capisco se quest’uomo è insensibile a questo genere di cose o se, forse, era certo che fossimo al sicuro.

    «Io, ehm...» La voce trema, così come le mie gambe, mentre lascio che mi aiuti ad alzarmi. «Sì, penso di sì.»

    Naz mi dà una controllata, tenendomi ancora stretta per mano, poi riporta la sua attenzione sulla vetrata. La gente intorno a noi si sta rimettendo in piedi e alcuni scappano via in preda al panico. Giuseppe, invece, è ancora fermo dov’era, sta zitto e fissa il vuoto.

    È sconvolto.

    Non so cosa dire. Non so cosa fare.

    Qualcuno ha appena sparato contro la gastronomia, cazzo.

    Qualcosa mi dice che qualcuno la pagherà cara per questo.

    Ma non sono sicura di quale dei due Vitale, a questo punto, presenterà il conto.

    «Tu» tuona Giuseppe, con una rabbia nella voce che non gli sentivo dalla prima volta in cui Naz mi ha portato in questo posto. È il suono di un’ira crescente, della collera, del disgusto. Gira la testa e punta gli occhi su suo figlio. Naz si volta verso suo padre non appena lo sente parlare, con espressione stoica. «Fuori di qui! Vattene, e non tornare!»

    Sono troppo sconvolta, per fare altro che starmene ferma, impalata, a osservare la scena. Naz, d’altra parte, non sembra affatto sorpreso. Fissa suo padre per un momento, poi torna a rivolgere a me la sua attenzione e mi spinge contro di sé. Mi abbraccia e io ricambio il suo abbraccio, tenendolo stretto.

    «La prossima volta» sussurra «scegli un altro posto in cui andare a pranzo.»

    Dopo, mi lascia andare.

    Ed è sparito.

    Succede in un battito di ciglia. La campanella sulla porta trilla e Naz non è più accanto a me, prima ancora che riesca a capire cos’è successo. Con le sopracciglia aggrottate e il corpo ancora tremante, corro verso la porta, sorpresa che le gambe mi reggano ancora. La apro ed esco sul marciapiede, urlando il suo nome. «Naz? Naz!»

    Guardo a destra e sinistra, lo cerco, ma si è dileguato. Alla velocità della luce. È svanito dalla gastronomia, lasciandomi da sola.

    Mi ha semplicemente... lasciata qui.

    Come ho detto, è una persona diversa.

    Il vecchio Naz non avrebbe mai fatto una cosa del genere.

    In lontananza, si sentono delle sirene, che man mano si avvicinano, mentre io sono ferma fuori dalla gastronomia e mi guardo intorno. Alcuni frammenti di vetro sono disseminati sul marciapiede, così come alcuni bossoli che sono rimbalzati. Il vetro antiproiettile ha impedito loro di penetrare all’interno, ma non è rimasto del tutto immune alla distruzione.

    C’è un gran casino.

    Le persone corrono su e giù per la strada, urlandosi l’un l’altra, e il vicinato è nel caos più totale.

    Una sparatoria da un’auto in corsa in pieno giorno.

    È uno dei pericoli da cui mi aveva messo in guardia mia madre, una delle storie dell’orrore sui mostri che infestano queste strade che le piaceva raccontarmi. Naz mi ha sempre ripetuto che non devo mai avere paura, che non c’è niente per cui debba essere spaventata, ma lo sono... sono spaventata.

    Che diavolo è appena accaduto?

    Ritorno in gastronomia, proprio mentre arriva la polizia. Giuseppe ha finalmente ripreso a muoversi e sta aiutando le persone ad alzarsi o sta cercando di calmare i clienti rimasti. Parla con voce pacata, quasi rassicurante, ogni traccia di rabbia è sparita con suo figlio.

    Mi appoggio alla parete accanto alla porta e scivolo giù sul pavimento, sedendomi con le braccia attorno alle ginocchia, mentre la polizia invade la scena. Sono in uno stato di stordimento, sento ma non ascolto niente di quello che accade intorno a me, il mondo è solo una grande macchia indistinta, finché qualcuno non chiama il mio nome.

    «Signorina Reed?»

    Sollevo lo sguardo e mi ritrovo faccia a faccia con un volto familiare che mi scruta dall’alto. È così vicino che la sua ombra mi avvolge, racchiudendomi in un cono di buio. È una presenza inquietante. Detective Jameson.

    L’ultima volta in cui l’ho visto è stato quando mi hanno sparato. È venuto in ospedale, mentre ero ricoverata, per chiedermi la mia versione dei fatti. È stato come se si aspettasse che confutassi la dichiarazione di Naz, che gli rivelassi che in qualche modo avesse fatto qualcosa di sbagliato, ma non ho potuto. Nonostante tutte le volte in cui Naz può avermi messo in pericolo, quel giorno mi ha salvato la vita. L’ha ribadito anche il dottore. Naz mi ha salvato la vita. Il detective se n’è andato dicendomi che la sua porta era sempre aperta se avessi cambiato idea, ma nemmeno una volta mi è passato per la mente di denunciare l’uomo che amo.

    Perché, nonostante tutto quello che è successo, Dio mi aiuti, io lo amo.

    Lo amo molto più di quanto pensavo fosse possibile.

    Mi schiarisco la gola, sorpresa che la voce mi funzioni, quando affermo: «Vitale.»

    Jameson aggrotta le sopracciglia, mentre mi si accovaccia di fronte. È come se pensasse che, mettendosi al mio livello, possa dire qualcosa di più sensato. «Cosa?»

    Allungo la mano sinistra e gli mostro l’anello sul mio dito. «Non mi chiamo più signorina Reed.»

    Riesco a vedere sul suo viso il momento in cui gli si accende la lampadina: il suo atteggiamento disinvolto sparisce. Allunga un braccio e mi afferra la mano, inclinandola per osservare meglio l’anello. È semplice, relativamente parlando... per quanto possa essere semplice Naz. È una vera d’oro su cui sono incastonati dei piccoli diamanti.

    Era la fede di sua madre.

    «L’ha... l’ha sposato davvero.» La sua voce rispecchia la sua espressione. «Quando è successo?»

    «Un paio di settimane fa» rispondo piano, allontanando la mano. Non mi piace che mi tocchi e so per certo che non piacerebbe neanche a Naz. Non gli piacerebbe nemmeno scoprire che il tizio mi sta parlando.

    «Be’, allora, signora Vitale» rimarca alzandosi, dopo aver ripreso la sua espressione imperturbabile ed essere tornato a torreggiare su di me. «Mi piacerebbe rivolgerle un paio di domande, se non le dispiace.»

    «Le dispiace» interviene una voce, intromettendosi nella discussione. Giuseppe. Sta addosso al detective, lasciandogli poco spazio di manovra. «Se ha qualche domanda, può chiedere a me. Lei non sa niente. Era seduta qui a mangiare. È una testimone innocente.»

    Jameson stringe gli occhi, infastidito per l’intrusione. «Se è così, non capisco perché non possa dirmelo lei.»

    «È già abbastanza sconvolta, il suo pranzo è stato disturbato da qualche idiota» ribatte Giuseppe, indicando alle sue spalle i tavoli rivoltati, il cibo riversato su tutto il pavimento a scacchi. «L’ultima cosa di cui ha bisogno è un detective invadente e neanche tanto bravo che le stia col fiato sul collo per farla parlare, come se fosse stata lei a fare qualcosa di sbagliato.»

    Ancora non chiamerei Giuseppe uno stronzo, ma riesco decisamente a vedere da dove Naz ha preso la sua intensità. Wow. Persino il detective sembra esitare, per un momento, restando in silenzio a valutare la mossa successiva. Prima che Jameson possa dire qualsiasi cosa, qualcuno lo chiama dall’esterno della gastronomia, così si scusa e va a raggiungere chiunque abbia richiesto la sua attenzione.

    Giuseppe osserva l’uomo mentre esce e scuote la testa, poi si volta verso di me. «Stai bene?»

    Annuisco. «Grazie.»

    «Ah, non ho fatto niente. Se Ignazio deve arrabbiarsi con qualcuno per aver sbraitato, lascia che sia con me.»

    Mi alzo, grata che le mie gambe siano più stabili adesso. «Non so nemmeno perché quel tipo è qui. È un detective della omicidi. Non è morto nessuno, giusto?»

    Oh, Dio! Non è morto nessuno, vero? Quelli all’interno del locale stanno tutti bene, grazie alle vetrate, ma fuori in strada potrebbe essere tutta un’altra storia...

    «No, stanno tutti bene» mi informa Giuseppe, spazzando via la mia preoccupazione. «Un po’ scossi, forse, ma nessuno spargimento di sangue, per oggi.» Fa una pausa e si guarda intorno. «Almeno, non qui.»

    «Allora perché lui è venuto?»

    «Secondo te perché?» Giuseppe torna a guardarmi, con le sopracciglia sollevate e la voce incredula, come se dovessi davvero conoscere la risposta alla sua domanda. E infatti è così. Nell’attimo in cui i nostri sguardi si incrociano, lo capisco. È venuto per Naz. Ecco perché è dappertutto. Non importa se è la sua giurisdizione o no... quell’uomo sta perseguendo la sua vendetta personale nei confronti di Naz. «Non è la prima volta che viene a ficcanasare da queste parti e non sarà l’ultima, non finché Ignazio sarà a piede libero. Vengono a pormi le loro domande e io dico loro la verità.»

    «Che sarebbe?»

    «Che non l’ho visto e non ne ho la minima intenzione.»

    All’improvviso, mi viene in mente una cosa, qualcosa che non avevo preso in considerazione, prima. Giuseppe tiene costantemente suo figlio a distanza, e Naz pensa che sia perché suo padre lo odi con tutto se stesso. E certamente a Giuseppe non piacciono le cose in cui è coinvolto Naz, ma forse, forse, parte di lui si comporta così nei suoi confronti in modo da poter affermare di non sapere nulla.

    In modo da non poter essere usato contro suo figlio.

    Totalmente estraneo ai fatti.

    È un atto di altruismo, in un certo senso, come se stesse sacrificando ogni tipo di rapporto con suo figlio in modo da poterlo tenere al sicuro e, benché non conosca Giuseppe così bene, mi sembra davvero una cosa tipica da lui.

    «Dovresti andartene da qui» dice Giuseppe poi, senza guardarmi, mentre i suoi occhi sono fissi sulla vetrata frantumata della gastronomia. «Usa la porta sul retro, passa dalla cucina, così non ti fermeranno.»

    Esito, ma qualcosa nel suo tono di voce mi suggerisce di non discutere. In situazioni come queste, non penso che Giuseppe sia aperto alle negoziazioni più di quanto non lo sia Naz. I poliziotti sono così occupati a raccogliere prove in strada che nessuno si è preoccupato di controllare il retro della gastronomia. Esco nel vicolo senza difficoltà, indisturbata, con una mano stretta sul petto dolorante, supero velocemente i cassonetti ricoperti di graffiti e mi allontano dalla scena del crimine.

    C’è un taxi, all’angolo, parcheggiato lungo il marciapiede. Mi avvicino alzando una mano per farmi notare, grata che nessuno mi abbia battuto sul tempo.

    «Brooklyn, per favore» comunico all’autista, recitando il nostro indirizzo con voce tesa. Mi sistemo sul sedile, allaccio la cintura di sicurezza e tengo il capo chino, per paura di guardare fuori dal finestrino. Ho quasi la sensazione di stare scappando dalla polizia. Vi prego, non seguitemi. L’autista è giovane, sui venticinque anni, forse. Mi mostra una fila di denti bianchissimi quando mi sorride attraverso lo specchietto retrovisore, mentre si immette nel traffico.

    Se Naz mi ha insegnato qualcosa nel nostro tempo insieme, è di stare sempre molto attenta a tutto ciò che mi circonda, di osservare e tenere a mente. Vale più la pratica che la grammatica. Me l’ha ripetuto diverse volte. I miei occhi si spostano istintivamente sulla licenza del tassista, appesa al cruscotto. Abele Abate.

    Strano nome.

    A Naz non piace che io prenda i taxi. Non si fida degli altri per quanto riguarda la mia sicurezza. Ma, data la situazione, immagino non avrà molto da ridire.

    Durante il viaggio, la mia mente si estranea e penso a dove possa essere andato, a cosa stia facendo in questo preciso momento.

    Una parte di me ha paura di scoprirlo.

    Impiego quasi un’ora ad arrivare a casa, a causa del traffico, e mi costa sessanta dollari. Bleah! Do all’autista un biglietto da cento dollari e gli dico di tenere il resto. Lui sembra sorpreso dal mio gesto, mi rivolge un altro sorrise e mi ringrazia a bassa voce.

    Per tutto il percorso, non ha provato a rivolgermi la parola neanche una volta.

    L’ho apprezzato.

    La casa sembra silenziosa, quasi in modo inquietante. Non mi piace più tanto stare qui, soprattutto da sola.

    Ci sono troppi ricordi, e alcuni non proprio gradevoli... ricordi delle nostre litigate, di quella volta in cui ho messo della droga nel cibo di Naz... ricordi di un tempo in cui lui stava prendendo in considerazione di togliermi la vita, in cui ho capito che dentro di lui abitava un mostro. In due sere differenti, siamo entrambi quasi morti nell’atrio, e, anche se ho pulito tutto diverso tempo fa, a volte, se guardo il pavimento, riesco ancora a vedere delle tracce di sangue.

    Abbiamo parlato di trasferirci... lo ripetiamo spesso... ma, per qualche ragione, non abbiamo ancora preso la decisione definitiva, troppo presi dalla vita di tutti i giorni per passare all’azione.

    Troppo presi dal cercare di adattarci alle nostre nuove vite.

    La sua, quella di chi si è chiamato fuori, per quanto possa davvero esserlo uno come lui.

    La mia, quella di essere sua moglie.

    Pazzesco.

    Uso le mie chiavi per aprire la serratura della porta d’ingresso, entro in casa e reinserisco le mandate. Killer, il mio cane, dorme in salotto. Alza la testa appena entro, poi ciondola verso di me scodinzolando, felice di poter giocare. Io gli accarezzo la testa, gli gratto le orecchie enormi, ma sono troppo stanca per fare altro, oggi.

    Sospirando, mi tolgo le scarpe e le lascio lì dove sono e poi mi dirigo in sala hobby, con il cane alle calcagna. Forse, schiaccerò un pisolino sul divano, se riesco a staccare la mente e addormentarmi. Solo Dio sa quando Naz tornerà a casa. Potrebbero essere ore. Oppure giorni.

    «Non ci hai messo molto.»

    Lancio uno strillo nel secondo esatto in cui sento la voce inaspettata. Mi ha spaventato molto di più dei colpi di pistola. Ma che diavolo? Mi tremano le ginocchia e per poco non cado a terra, in preda al panico, mentre cerco il proprietario della voce con lo sguardo. Naz è seduto alla sua scrivania, in sala hobby, ha tra le mani un quotidiano e gli occhi incollati sulle pagine aperte.

    «Gesù Cristo, Naz, che stai facendo?»

    «Leggo il giornale di oggi.»

    «Leggi il giornale di oggi» ripeto.

    Sta leggendo un cazzo di giornale? Sul serio?

    «Sì» conferma. «Ne ho comprato uno mentre tornavo a casa.»

    «Ne hai comprato uno» insisto, incredula. «Mentre tornavi a casa.»

    Il suo sguardo si sposta su di me, poi alza un sopracciglio. «Perché stai ripetendo quello che dico?»

    «Perché sto ripetendo quello che dici?»

    Non può essere serio, vero?

    Cristo, è serio.

    Stiamo scherzando?

    Naz scuote la testa, appoggia il giornale sulla scrivania, poi si appoggia all’indietro contro la sedia, ruotando leggermente verso di me. «Adesso capisco perché non sopporti quando lo faccio io. È piuttosto fastidioso.»

    «Io...» No, davvero, ma che diavolo? «Non so nemmeno cosa dire. Non so cosa sta succedendo. Tu... che stai facendo?»

    Aggrotta le sopracciglia, come se fossi io quella che si sta comportando in modo insensato, ma sono assolutamente sconcertata. Perché è qui? È sparito dalla gastronomia, lasciandomi lì a cavarmela da sola, per tornare dritto a casa a leggere un dannato quotidiano?

    Questo è insensato.

    «Come sei tornata a casa?» chiede, scrutandomi con sospetto.

    «Ho preso un taxi.»

    «Pensavo di averti detto...»

    «Sì, be’» lo interrompo prima che possa rimproverarmi per non avergli obbedito. «Come diavolo avrei dovuto tornare a casa?»

    «Avresti potuto chiamare una macchina con autista» risponde. «Avresti impiegato venti minuti, al massimo, per tornare qui da Hell’s Kitchen, dove ti trovavi.»

    «Be’, non sarebbe stato affatto un problema se tu non te ne fossi semplicemente andato.»

    «Mi ha cacciato» replica Naz, disinvolto, riprendendo in mano il giornale e voltandosi. «Cos’altro avrei dovuto fare?»

    «Ehm... portarmi con te. Non dovevi lasciarmi lì.»

    «Eri al sicuro.»

    «Ero al sicuro?» esplodo, beffarda. «E come lo sai?»

    «Perché io non c’ero più.»

    Il suo tono è pragmatico. Non so davvero cosa rispondere. «Ma come sai che...?»

    Abbassa di nuovo il giornale, questa volta sbuffando in modo esagerato per il fastidio, come se non volesse dover parlare di questo argomento. Probabilmente, non dovrei insistere, ma voglio sentire cosa ha da dire.

    Voglio una spiegazione.

    Me la merito.

    «Non sei ottusa, Karissa, quindi non comportarti come tale» afferma, fissandomi intensamente. «Continui a rifiutarti di vedere l’insieme, quando è sempre stato davanti ai tuoi occhi. Come so che quei proiettili erano rivolti a me? Dimmi una cosa, dolcezza... chi altro, in quel posto, aveva un bersaglio dietro la schiena? C’è solo un motivo per cui qualcuno fa quello che hanno fatto loro, e quel motivo lo stai guardando dritto in faccia.» Indica se stesso. «Quindi, sì, ero certo che saresti stata al sicuro, dopo che io me ne fossi andato. Ti va bene come risposta?»

    Vorrei rispondere che, no, non mi va bene, ma so che non l’accetterà mai. Tuttavia, non riesco a trattenermi. «Non è colpa tua, sai?»

    «Di chi, allora? Tua?»

    «Perché deve essere necessariamente colpa di qualcuno?» domando, avvicinandomi a lui e appollaiandomi su un angolo della sua scrivania di legno. «A volte, le cose succedono e basta.»

    «Senti, apprezzo ciò che stai cercando di fare, ma... fermati» ribatte. «Mi sono scavato la fossa, e ho accettato da tempo che prima o poi dovrò sdraiarmici dentro. Niente di quello che faccio, o non faccio oggi, cancellerà quello che ho fatto ieri.»

    «Che hai fatto ieri?»

    Lui mi rivolge un’occhiataccia, e so che a un certo punto dovrò darci un taglio, perché non è dell’umore per le mie spacconate. Sembra arrabbiato. Sembra quasi Vitale. «Sai cosa intendo, Karissa. Il presente non cancellerà il passato.»

    «Sì, ho capito» replico. «Anche se ti scusi, non significa che verrai automaticamente perdonato.»

    «Esattamente» ribadisce. «E, nel mio caso, non mi sono neanche scusato.»

    «Sei dispiaciuto?»

    «No.»

    Non dovrei ridere, perché non è divertente, ma lo faccio. Scoppio a ridere. Sempre senza peli sulla lingua. Naz mi guarda e non si lascia sfuggire nemmeno un sorrisino, ma vedo che la sua espressione si rilassa ed è meno rigido.

    Restiamo seduti in silenzio per un po’, io a osservare lui e lui il giornale, poi il silenzio diventa insopportabile. «Ancora non significa che sia colpa tua, però.»

    Lui sbatte il quotidiano sulla scrivania con un lamento, prima di strofinarsi una mano sul viso. «Karissa...»

    «Ascolta, tutto ciò che sto dicendo è che noi siamo responsabili delle nostre azioni. Non dei comportamenti altrui.» Ha la faccia di uno che non si sta bevendo manco mezza parola, ma io continuo comunque. «Quindi, la responsabilità di qualunque cosa tu abbia fatto ieri, è vero, è la tua; ma quello che è stato fatto oggi di conseguenza? È responsabilità loro, Naz. Nessuno li ha costretti a contrattaccare.»

    «Dobbiamo rassegnarci a non essere d’accordo su questo argomento.»

    «Pfft, ho ragione e lo sai» proseguo. «La ritorsione è sempre una scelta. Chiaro e semplice. Tu hai scelto di vendicarti. Hai sempre avuto la possibilità di dimostrarti superiore.»

    Naz mi fissa come se mi fosse spuntata un’altra testa. Non so se sto riuscendo a farmi capire, ma lo spero. Perché, tutto questo? Voglio semplicemente

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