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Il tormento della sua anima
Il tormento della sua anima
Il tormento della sua anima
E-book507 pagine12 ore

Il tormento della sua anima

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Info su questo ebook

Non dire niente, a meno che tu non ne sia davvero sicuro.
È un concetto semplice, che ho ripetuto più e più volte, ma alcune persone sembrano non volerlo afferrare. Dovresti scegliere con attenzione ogni sillaba che pronunci, perché non sai mai quando arriverà qualcuno che ti costringerà a tener fede alle tue parole.
Qualcuno come me.
Non sono un brav’uomo. Non lo sono, lo so. 
C’è così tanta oscurità dentro di me da poter spegnere tutte le luci del mondo. Tuttavia c’è una luce a cui non potrò mai fare del male, una che non avrò mai la forza di oscurare.
Karissa.
Lei pensa che io sia un mostro e forse lo sono. La provoco con le mie carezze, mi eccito a tormentare la sua anima. Ma non sono l’unico mostro. Il mondo ne è pieno e io non sono nemmeno il più pericoloso. Neanche lontanamente…
Che Dio mi aiuti, io l’amo.
Davvero.
E che Dio aiuti chiunque proverà a portarmela via.
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2021
ISBN9788855312714
Il tormento della sua anima
Autore

J.M. Darhower

J.M. Darhower lives in a tiny town in the Carolinas with her family.

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    Anteprima del libro

    Il tormento della sua anima - J.M. Darhower

    Capitolo 1

    La mia vita dovrebbe essere un caso di studio sull’ingordigia.

    Se vi aspettate delle scuse al riguardo, da parte mia, rivolgetevi altrove. Non ne sono neanche minimamente dispiaciuto. Tutto ciò che faccio, lo faccio in eccesso; tutto ciò che posseggo, è più di quello di cui avrò mai bisogno.

    Che posso dire? Non mi nego nulla.

    Ho ucciso oltre una dozzina di uomini. Più di due dozzine, se vogliamo essere onesti. Ho smesso di contarli secoli fa, ormai. Uccido e faccio del male alla gente ma, fino a poco tempo fa, avevo amato davvero una sola persona.

    Maria Angelo.

    Pensavo sarebbe rimasta l’unica, l’unica in grado di arrivare a me, e di scalfire l’armatura martoriata che indosso. Pensavo che la mia capacità di amare fosse morta con lei, e la cosa mi stava anche bene. Vivo una vita di eccessi perché così mi sento appagato. L’amore, invece, è in grado di farti soffrire come un cane.

    Lo so.

    Credetemi, lo so.

    Avevo visto l’amore morire davanti ai miei occhi; boccheggiare, battersi per ottenere solo un altro respiro che però la vita non le aveva concesso. Avevo deciso, in quel momento, che avrei preferito morire piuttosto che provare di nuovo quell’emozione.

    Poi è arrivata lei.

    Mi fermo sulla soglia della cucina e mi appoggio alla cornice della porta, a osservare Karissa che cucina. O meglio, che prova a cucinare. L’olio che sfrigola in una padella sui fornelli sta saltando da tutte le parti: sta friggendo del pollo, ma ormai è così carbonizzato che è quasi irriconoscibile. C’è anche una pentola sul fuoco, ma l’acqua che bolle sta fuoriuscendo dal bordo e, appena tocca la fiamma, il fornello sibila. Dal forno, intanto, si propaga del fumo.

    «Merda, merda, merda» si lamenta, togliendosi gli auricolari dalle orecchie e sistemandosi la cuffia intorno al collo. Afferra un paio di presine e apre lo sportello, provando a scacciare via il fumo con la mano. Una nebbia densa si diffonde rapidamente in tutta la stanza e parte immediatamente un acuto segnale acustico.

    Lei lancia un’occhiataccia inviperita al vicino rilevatore di fumo, poi tira fuori dal forno una teglia e la getta sul bancone, mentre scaglia un’altra serie di imprecazioni in direzione della roba che ha bruciato, di qualunque cosa si tratti. Biscotti, se non sbaglio, anche se a me sembrano delle cacchette.

    Appetitosi.

    Mi avvicino e allungo un braccio per aprire il rilevatore di fumo e togliere la batteria, in modo che smetta di fare quel chiasso. Karissa mi guarda, rivolgendomi un mezzo sorriso timido, ma non mi parla.

    Le parole sono un regalo raro da parte sua, ultimamente. Prima me ne ha rovesciate addosso di feroci e caustiche, inondandomi di amarezza, poi ha smesso completamente di parlarmi ed è iniziata questa fase di silenzio assoluto.

    Aspetto che termini, ma il suo silenzio è assordante.

    Frustrante.

    In alcuni giorni, molto simile a una tortura.

    Gira per casa con quelle cuffie nelle orecchie e la musica sparata a palla per isolarsi dal mondo. Se non può sentirmi, può fare finta che io non esista. Se non può sentirmi, è convinta che non sprecherò fiato per parlarle.

    Torna a dedicarsi al forno, al suo cibo bruciato. Di solito, è più brava di così, ma è stressata per qualcosa. Non so cosa.

    «Tutto okay, Karissa?»

    Spegne entrambi i fornelli, mentre borbotta: «Tutto fottutamente fantastico.»

    Il suo tono mi fa stringere la mandibola, ma provo a non reagire. Non prendo bene le mancanze di rispetto, e lei mi mostra spesso il suo disprezzo, come se lo meritassi.

    Diavolo, forse è così.

    Forse, me lo merito davvero.

    Ma non mi piace.

    Per niente.

    Invece di insistere per avere una risposta, una risposta migliore, esco dalla cucina e la lascio a occuparsi di una cena che sa che non mangerò. Cucina ogni sera ormai, è diventata un’abitudine, una routine che si è consolidata da questa estate e da cui non si discosta più.

    Si comporta in modo prevedibile, quasi robotico. È come se provasse a tenere le sue emozioni sotto controllo quando è vicina a me. È come se il ripetere sempre le stesse azioni, tutti i santi giorni, alla fine possa rendermi accondiscendente e farmi dimenticare la sua presenza. Come se potesse farmi scordare di lei. Quasi sia questa la chiave per fuggire via. Non si rende conto che è proprio così che catturo le persone: quando credono di essersi mescolate tra la folla, è allora che per me diventano più visibili.

    Sta tentando di distrarsi con queste cene disastrose, questi comportamenti ripetitivi, ma non servono a impedirle di pensare. Di pensare troppo. I silenzi forzati alimentano i più cupi pensieri. Io lo so. Credetemi, lo so. E servono solo a peggiorare le cose.

    È una bomba a orologeria.

    Tic tac.

    Tic tac.

    Tic tac.

    È solo questione di tempo prima che tocchi il pulsante sbagliato e lei esploda.

    Mi dirigo in sala hobby e, dopo essermi seduto alla mia scrivania, prendo il cellulare e chiamo un ristorante cinese poco distante. Ordino lo speciale del giorno e il piatto preferito di Karissa, lo mein con manzo senza verdure.

    Riesco a sentirla che si muove per la cucina, sbatte le ante della credenza e sposta con foga gli oggetti da un posto a l’altro. Mi stendo all’indietro sulla mia poltrona e ascolto i rumori che produce, assorbendone l’impatto come se mi stesse prendendo a pugni.

    Non era mia intenzione innamorarmi di lei.

    Non era mia intenzione nemmeno provare simpatia per lei.

    Ma è successo… siamo successi noi… e sto ancora cercando di capire come gestire la cosa.

    Il ragazzo delle consegne arriva in meno di trenta minuti. Ogni volta è un tizio diverso, e diversi sono i posti da cui ordino, in modo che nessuno possa prevedere quale sarà il ristorante che mi preparerà da mangiare per quel determinato giorno. Non è un piano a prova di bomba, ma di sicuro è cibo più sicuro di quello preparato da Karissa.

    Pago la consegna e poi, curioso, mi dirigo in sala da pranzo. È tutto buio, ma Karissa è seduta al tavolo da sola. La luce proveniente dalla cucina mi permette di vedere che ha un piatto davanti e che gira e rigira il cibo con la forchetta, senza mangiare, mentre ha di nuovo gli auricolari piazzati nelle orecchie.

    Non ne sono sorpreso.

    Un’altra parte della sua routine: non ammettere la sconfitta.

    Senza dire una parola, prendo la porzione di lo mein e la sistemo sul tavolo accanto a lei, poi me ne ritorno in sala hobby, lasciandola libera di mangiare quello che le pare, in pace e con parte della sua dignità ancora intatta.

    Trattare con le persone.

    Cercare oggetti.

    Le mie specialità.

    Sono seduto in sala hobby, a divorare la mia cena con i piedi allungati sulla scrivania e la schiena appoggiata alla morbida poltrona in pelle da ufficio. Gli occhi sono incollati allo schermo del computer, all’andamento della borsa. Ho una parte dei miei soldi investiti in società quotate di alto profilo, affari leciti che mi tengono fuori dal radar del governo, ma la mia attenzione, oggi, è dedicata ai piccoli investimenti, a quelle azioni che hanno un prezzo molto basso e di cui nessuno si interessa.

    Le cosiddette penny stocks.

    Trovi questi titoli, a volte neanche presenti nei listini azionari, investi e convinci un sacco di persone a fare altrettanto, persuadendoli che si tratti dell’affare del secolo, poi, appena il loro valore schizza alle stelle, tu vendi le tue quote. Il titolo precipita, dal momento che si tratta di azioni di merda, e tutti perdono il capitale investito, mentre tu, grazie a questi coglioni, te ne vai con un bel guadagno in tasca.

    È un’operazione illegale, e io non la eseguo a livello personale, ma me ne occupo per lavoro.

    Trovare oggetti.

    Sono sempre stato bravo a orchestrare piani, trovare un modo per ottenere delle cose, per guadagnare soldi, ma solo quando ho iniziato a lavorare per Ray ho davvero perfezionato le mie capacità. Ho contatti in tutto il mondo: se a qualcuno serve qualcosa, io conosco una determinata persona o conosco qualcuno che a sua volta conosce qualcuno che può fargliela ottenere. In fin dei conti, è un vantaggio che va a braccetto con il trattare con le persone. Se la gente è terrorizzata da te, o da quello di cui sei capace, non ti metteranno mai i bastoni tra le ruote né ti volteranno le spalle.

    Questa mia particolare abilità si è rivelata solo più tardi… dopo che il mio mondo è stato distrutto, trasformandomi in un guscio vuoto. Quando dentro di te non resta altro che buio, diventa molto più semplice spegnere le luci degli altri.

    Questo sono io. Faccio ciò che voglio, mi prendo ciò che voglio, e non me ne dispiaccio. Dopotutto, non sono nato così. È il mondo che mi ha reso quello che sono, e adesso deve pagare ogni giorno per questo errore. Solo una cosa, in tutti questi anni, non ero riuscito a trovare: una persona, che era riuscita a sfuggirmi, intelligente al punto da essere sempre un passo avanti a me.

    Carmela Rita.

    Johnny era stato facile da trovare. Si era comportato esattamente come si sta comportando Karissa adesso: in modo prevedibile. Si era mosso con cautela, senza correre il minimo rischio, creando una routine fissa, comprando una casa e scegliendo un lavoro schifoso che lo tenesse occupato dalle nove alle cinque, sperando così di passare inosservato e sparire nel nulla. Gli si adattava alla perfezione visto che era una nullità.

    Carmela, invece, a differenza di Johnny, aveva scombussolato tutte le sue abitudini, vivendo una vita caotica, fatta di decisioni improvvise. Ogni volta che mi avvicinavo a lei, volava via, cambiando tattica e trasferendosi altrove.

    Mi assomiglia molto, credo.

    È intelligente.

    Ma io sono più intelligente di lei.

    Ho la netta sensazione che la storia non sia finita, che la morte di Johnny non sia stata la conclusione di nulla. Vorrei che scappasse di nuovo, che si perdesse in una nuova vita, che si creasse una nuova esistenza da qualche altra parte, lontano da qui, e non si voltasse mai indietro. Purtroppo, però, so che non succederà.

    Lo so, perché è proprio quello che io non farei mai.

    Anche Carmela è piena di oscurità. L’unica luce della sua vita adesso illumina la mia casa, e tornerà per lei. Tornerà per Karissa.

    E che Dio l’aiuti quando accadrà.

    A proposito della luce della mia vita…

    I miei occhi si spostano rapidamente dal laptop a Karissa, quando entra in sala hobby e senza emettere un fiato va ad accoccolarsi sul divano. Si impossessa del telecomando, accende la TV e tiene il volume al minimo, sintonizzandosi direttamente su Food Network. Ha un taccuino aperto in grembo e una penna tra le dita, con cui giocherella mentre guarda il programma televisivo.

    Sta prendendo appunti, con l’aria di una che sta seguendo qualcosa di importante.

    Si segna delle ricette, come se le servissero delle idee.

    E studia… studia… studia, ha il naso in quel dannato block-notes per metà della giornata, quasi ci fosse un esame da sostenere alla fine o dovesse diventare aiuto cuoco di Bobby Flay o Rachael Ray o di qualsiasi altro pomposo chef che conduce uno show su quel canale.

    Chiudo il portatile e finisco di mangiare. La mia attenzione è rivolta completamente a Karissa, adesso. La osservo, la disseziono come fa lei con qualsiasi cosa intenda cucinare, analizzandola in ogni sua parte, in ogni sua componente, come gli ingredienti delle ricette che scrive nel suo quaderno.

    Mi chiedo se sappia da quanto tempo svolgo questa operazione, quanto l’abbia esaminata, quanto bene la conosca, dentro e fuori. Conosco tutti i suoi sospiri e i suoi sorrisi, il significato dietro ogni incrinatura della sua voce e ogni brivido che le increspa la pelle. Capisco quando è felice, quando è triste e quando è furiosa solo grazie a un luccichio nei suoi occhi o al modo in cui cammina. È un libro aperto, una donna allegra e comprensiva e, per quanto si sforzi di tenere sotto controllo le sue emozioni, so perfettamente cosa pensa di me.

    So che mi odia.

    Lo vedo. Lo sento.

    È evidente dalla tensione dei suoi muscoli, dal modo in cui si ritrae quando per caso mi avvicino, da come avvampa ogni volta che oso toccarla. Tuttavia, so anche che mi ama. Perché c’è un fuoco che le arde dentro e che non è alimentato solo dalla rabbia.

    Prima o poi, si dimenticherà che deve disprezzarmi, dimenticherà che non le è permesso desiderarmi.

    Dimenticherà che sono un mostro.

    E tutto ciò che ricorderà, in quel momento, tutto ciò di cui sarà certa, è che le importa di me e che sono un uomo, un uomo che ha attraversato l’inferno, un uomo che la ama e che ha giurato di non farle mai del male. E, solo per quel momento, si concederà di crederci. Si dimenticherà che sono io il cattivo della situazione e si ricorderà di com’era quando pensava che fossi il suo eroe.

    Quello che sarebbe annegato per permetterle di restare a galla.

    Mi aggrappo a questo pensiero.

    È questa la scintilla di speranza che cerco quando la osservo.

    Oggi non c’è ancora.

    È imbronciata, tesa e ha la mascella serrata. Sa che la sto guardando, ma si rifiuta persino di riconoscere la mia presenza.

    Sorrido, mentre la osservo.

    Sta tentando di ferirmi, ma tutto ciò a cui riesco a pensare è che è davvero bellissima quando è incazzata.

    Lo squillo del mio cellulare mi distrae. Lo recupero da sopra la scrivania, ma rispondo senza prendermi nemmeno la briga di controllare chi mi sta chiamando. Lo so già, grazie alla suoneria. «Dimmi.»

    «Ignazio!»

    Ray è già ubriaco fradicio. Dalla voce non si direbbe, perché è forte e ferma come sempre. Però, mi ha chiamato col mio nome di battesimo. Non lo fa mai quando è lucido.

    «Dimmi» ripeto, raddrizzando la schiena e rimettendo i piedi per terra.

    «Siamo al Cobalt» mi informa. «Vieni qui per un po’.»

    «Okay» dico, alzandomi. «D’accordo.»

    Riattacco e faccio scivolare il telefono nella tasca dei miei pantaloni neri. Avrei potuto declinare il suo invito… probabilmente, sono l’unico che può permettersi di negargli qualcosa senza subire conseguenze… ma in casa c’è un’aria troppo pesante da sopportare. Karissa ha bisogno di spazio, di stare un po’ da sola per superare quello che l’ha resa così nervosa oggi. So che sarà qui quando tornerò.

    Sarà qui, perché è consapevole che, se così non fosse, la rintraccerei e la riporterei indietro.

    Mi infilo le scarpe, mi raddrizzo la cravatta e prendo la giacca dalla spalliera della sedia. La indosso e, mentre ne chiudo i bottoni, mi avvicino alla porta. «Ho delle cose da fare.»

    Karissa non risponde, nemmeno mi guarda, ma mi ha sentito. Lo capisco dal modo in cui arriccia il naso e da come si sta mordicchiando l’interno di una guancia.

    «Potrei tornare tardi» annuncio, avvicinandomi al divano e fermandomi proprio davanti a lei. «O forse no.»

    Un’altra smorfia. Ancora silenzio.

    Resto fermo per un attimo, a contemplarla, poi mi abbasso e le do un bacio sulla testa. Lascio perdere le sue labbra. Non opporrebbe resistenza, se la baciassi, non lo fa mai, ma oggi non otterrei nulla in cambio.

    «Chiamami se hai bisogno di me.»

    Risponde con un grugnito, basso e di gola, quasi avesse ingoiato le parole che le bruciavano sulla lingua e al loro posto mi avesse offerto un suono che manifestasse il suo fastidio. Fastidio perché ho osato pensare che possa avere bisogno di me? O fastidio perché, in fondo in fondo, ha capito che è già così?

    In entrambi i casi, io sorrido di nuovo e, ridendo tra me e me, vado via.

    Il Cobalt Room è un social club di lusso nel cuore di Manhattan, non lontano dal campus della NYU. È uno di quei posti che la gente si ferma ad ammirare dall’esterno, un vecchio edificio che appartiene alle pagine delle riviste di storia, ma a cui solo pochissime persone possono accedere. È aperto solo ai soci, e si diventa soci solo tramite invito, e per ottenere un invito, di questi tempi, devi passare attraverso Ray.

    Non è il proprietario del club, ma lo controlla. Conduce la maggior parte dei suoi affari fuori dall’ufficio che ha sul retro, di solito al bar o in una delle eleganti sale da biliardo. Lui è uno che socializza tantissimo davanti al locale, conquistando la folla con la sua personalità disinvolta, ma, quando ti chiede di raggiungerlo dietro, puoi star certo che sono guai seri.

    Non mi prendo il disturbo di mostrare la mia carta d’identità, quando entro. Kelvin, il buttafuori, mi conosce; è uno di noi, dopotutto. Lavora qui per Ray quasi tutte le sere, mentre il weekend arrotonda come buttafuori in un locale a un paio di isolati di distanza, il Timbers. Era lì quella notte, la notte in cui Karissa è andata a ballare con la sua amica, la notte in cui ho deciso di fare la mia mossa.

    Kelvin mi ha contattato nel momento esatto in cui lei ha fatto la sua apparizione. L’ha riconosciuta subito e sapeva che era il mio obiettivo. Lo sapevano tutti, in realtà… ogni uomo di Ray sa perfettamente chi è Karissa.

    Kelvin mi rivolge un cenno, inclinando il capo. In parte è un saluto e in parte è un segno di rispetto, ma soprattutto è un modo per non guardarmi negli occhi.

    Poche persone lo fanno.

    I soldati di strada, feroci criminali che mentono, imbrogliano, uccidono e rubano, distolgono lo sguardo ogni volta che mi vedono, mentre la piccola Karissa, grossa la metà di me e priva di qualsiasi forza fisica, non ha mai esitato a guardarmi negli occhi. È come se, con una sola occhiata, fosse riuscita a leggermi l’anima. All’inizio, credevo che non mi vedesse davvero, che non si fosse resa conto di chi avesse davanti, poco dopo, però, ho realizzato che l’aveva capito, che mi aveva visto. Semplicemente, non le era importato.

    Non le era importato che dentro di me ci fosse così tanta oscurità da poter spegnere tutte le luci del mondo.

    Nessuno mi aveva mai guardato così, con quella sincerità, con quella fiducia e quell’affetto.

    Nemmeno Ray.

    Tranne, forse, quando è ubriaco. E stasera lo è. Mi rivolge un sorriso enorme non appena lo raggiungo nell’area privata del bar dove si trova. Sorride come lo Stregatto che ha appena trovato un’Alice da strapazzare. «Naz!»

    La sua esclamazione per poco non mi fa sussultare. Se ne accorge immediatamente, ma non si scusa, invece scrolla le spalle e fa una smorfia, come a dire: Ah, merda, mi hai beccato. Agita una mano, senza parlare, in direzione del tizio seduto nella poltrona di pelle imbottita accanto alla sua, per indicargli di sloggiare, e io prendo subito il suo posto. Richiamo la cameriera e le dico di portarmi il solito: una bottiglia di pale ale fredda, ancora sigillata. Lei ritorna con la mia ordinazione, senza fare domande e senza esitazioni, e io uso l’apribottiglie che ho attaccato al portachiavi per stapparla.

    «Allora, abbiamo venduto le azioni dell’azienda di surgelati, questa mattina» dice rapidamente Ray, appoggiandosi all’indietro sulla sua poltrona. «Ci abbiamo guadagnato quasi un quarto di milione.»

    «Fantastico» commento, abbandonandomi contro la mia poltrona. «Quindi, il mio drink lo metto sul tuo conto, stasera?»

    «Non c’è problema, lo sai» risponde, sollevando il suo bicchiere di scotch on the rocks e facendolo tintinnare contro la mia bottiglia. «Tu continua così e io ti compro un’intera birreria.»

    Ridendo, bevo un sorso della mia birra. «Ti prendo in parola.»

    «Ne sono certo.»

    Il morale è alto e l’alcol scorre a fiumi. Ray ride e scherza, il suo buonumore è contagioso. Lo assecondo, sorrido, provo a rilassarmi e accantonare qualsiasi altro pensiero, ma Karissa continua a tornarmi in mente.

    Potrebbe sembrare una serata di divertimento, ma questo è lavoro per gente come noi. Complottare, tramare, chiacchierare, socializzare… è la parte che odio di questo lavoro. Non è che odio le persone in generale. Non è così. Semplicemente, sono più felice quando non mi stanno tra i piedi.

    Tranne lei.

    La stramaledetta Karissa.

    La mia eccezione. Sempre.

    Quello che non avrebbe mai dovuto essere.

    È mezzanotte passata quando arrivano le donne. Solitamente, non sono invitate, non è permesso loro l’ingresso al Cobalt, però, quando Ray è in vena di festeggiamenti, tutti lo accontentano.

    Prostitute. Anche se loro si fanno chiamare escort. Io le chiamo troie. Per lo più, sono ragazze con troppo trucco e poco cervello.

    Arriva anche Brandy, la ragazza impicciona di Ray, e si stringe sulla poltrona con lui, sedendoglisi in grembo e strusciandogli il naso contro il collo. Un tempo, anche lei si prostituiva, ma Ray si è infatuato e l’ha voluta tutta per sé.

    La sua "bambolina personale", come la definisce lui.

    Tutti gli altri iniziano a lasciarsi andare, mentre io mi irrigidisco sempre di più. L’alcol non è servito affatto a calmare il mio nervosismo.

    Non aiuta che un’amichetta di Brandy venga ad appollaiarsi sul bracciolo della mia poltrona. È una nuova, ovviamente. È la prima volta che la vedo da queste parti. Mi guarda e mi sorride, con quelle pupille nere come il marmo. È strafatta. «Ehi, bellissimo, ti va di folleggiare stanotte?»

    La fisso, la mia espressione è impassibile. Una sua gamba striscia contro la mia, col piede mi accarezza il polpaccio. Brandy se ne accorge e cerca di intervenire per fermarla, balbettando ubriaca, ma Ray le piazza una mano sulle labbra per farla stare zitta e mi guarda in faccia, con un ghigno sul viso.

    Vuole vedere la mia reazione.

    A volte, quest’uomo mi fa sentire uno dei suoi giocattolini.

    Io finisco la mia birra, la quarta dall’inizio della serata, e lascio la bottiglia vuota sul tavolino accanto a me. Raddrizzando la schiena, faccio cenno alla ragazza di avvicinarsi. Lei si china verso di me, sorridendomi in maniera seducente, pensando che bacerò quelle sue labbra al silicone; invece accosto la bocca al suo orecchio. «Ti taglio la gola, se mi tocchi un’altra volta.»

    A giudicare dalla risata fragorosa di Ray, l’espressione della tizia deve essere di puro terrore. Non me ne frega niente. Mi alzo e mi volto verso l’uscita, senza guardarmi indietro. «Ci vediamo, Ray.»

    «Ciao, Naz.»

    Questa volta, sussulto.

    Non è il nome in sé a infastidirmi. L’ho sempre preferito a Ignazio. È solo che sentirlo mi fa ricordare dell’uomo che ero un tempo, l’uomo che ero prima. Naz era pieno di speranze. Pieno d’amore.

    Naz è morto di una morte crudele.

    Ho detto a Karissa di chiamarmi Naz. L’ho detto in un breve momento di debolezza, perché mi ha guardato con così tanta luce negli occhi, con un’espressione così innocente, da farmi pensare in quel momento che poteva esistere un riflesso del vecchio me stesso.

    Beata ignoranza.

    Ho perso la mia strada in quella occasione, ho dimenticato chi fossi e ancora non so come diavolo tornare indietro e riprendere il vecchio percorso.

    È l’una di notte quando torno. La casa è buia e silenziosa. Mi tolgo la giacca appena entro, e mi allento il nodo della cravatta, sospirando. La sala hobby è vuota, la televisione spenta e il telecomando posizionato sul tavolino da caffè, sopra il blocco degli appunti di Karissa. Scosto il telecomando e prendo il block-notes, sollevando la copertina per leggere la prima pagina. È una ricetta di un piatto a base di patate, con degli appunti sul margine inferiore del foglio: "Come cucinare la bistecca perfetta".

    Rimetto a posto il taccuino, quando da un lato spunta una lettera. Mosso dalla curiosità, la tiro fuori e vedo che è indirizzata a Karissa dalla New York University.

    È sbagliato da parte mia, lo so, ma sbircio lo stesso: sfilo il foglio e leggo la lettera.

    Gentile signorina Reed, bla bla bla, eccetera eccetera, ha perso la sua borsa di studio, pertanto necessitiamo del pagamento della sua retta.

    Una retta da quasi venticinquemila dollari.

    Mi sfugge un fischio, mentre rimetto la lettera nella busta e la busta all’interno del block-notes, dove l’ho trovata.

    Non c’è da stupirsi che fosse di cattivo umore.

    Capitolo 2

    «Vuoi…?»

    «No.»

    Mi interrompo, a metà domanda, e fisso Karissa che è seduta sul divano, con il blocco sulle gambe, a guardare un programma di cucina. Solita merda, giorno diverso. Sento la musica uscire debolmente dalle sue cuffie poggiate attorno al collo, questo mi permette di parlare con lei per il momento.

    «Posso almeno finire di parlare, prima di avere una risposta?»

    Lei non dice nulla, scrive qualcosa che ha appena visto in TV, comportandosi di nuovo come se non esistessi.

    Dopo un respiro profondo, chiedo: «Vuoi venire con me…?»

    «No.»

    Provo a ingoiare la mia frustrazione, ma ritorna fuori sotto forma di gemito.

    Questa donna è incredibilmente esasperante.

    Scuoto la testa ed esco dalla sala hobby, senza disturbarmi a porle la domanda per la terza volta. Agguanto le chiavi ed esco di casa, sbattendomi la porta alle spalle.

    Mi ha fatto saltare i nervi.

    Cerco di lasciarmi scivolare addosso il suo atteggiamento.

    Cerco di restare calmo e controllato. Sono allenato a non mostrare le mie emozioni. Ma lei è l’unica che sa come farmi incazzare.

    Ancora una volta, lei è la mia eccezione.

    Sempre una maledetta eccezione.

    Il tragitto fino a Manhattan sembra interminabile, oggi pomeriggio. Mentre me ne sto intrappolato nel traffico, faccio scrocchiare le nocche e il collo, in modo da allentare un po’ di quella tensione che pare aumentare di giorno in giorno. Invece di migliorare, invece di sistemarsi, la situazione è stagnante e noi sembriamo fermi alla griglia di partenza.

    La pazienza è sempre stata una mia caratteristica predominante, ho passato quasi due decadi a rintracciare Carmela, ho atteso anni per vendicarmi di Johnny, ma sto raggiungendo il mio limite di sopportazione per quanto riguarda la loro figlia.

    Mi dirigo al Greenwich Village, lascio l’auto in un garage vicino a Washington Square e poi faccio il giro del palazzo. La segreteria della NYU è al primo piano: Ufficio Economato.

    L’edificio è luminoso e sorprendentemente affollato per essere estate. Aspetto un paio di minuti, prima che la signora di mezza età, seduta dietro un’enorme scrivania all’ingresso, si accorga della mia presenza.

    «Ho bisogno di parlare con qualcuno per il pagamento di una retta universitaria.»

    La donna inizia a blaterare, lamentandosi del fatto che gli studenti possono organizzare i propri pagamenti online, ripetendomi la solita tiritera, ma la interrompo subito. «No, non devo pagare una rata, vorrei pagare la retta annuale, tutta insieme. Oggi.»

    Un’ora dopo, esco dall’università più povero di venticinquemila dollari, e a provarlo ho solo la copia di una ricevuta cartacea, su cui spicca il timbro Pagamento Completo accanto al nome di Karissa.

    Sta già tramontando il sole, quando torno a Brooklyn e parcheggio l’auto nel vialetto di casa. Prima ancora di aprire la porta, mi accoglie della musica sparata a tutto volume. Muovo solo alcuni passi nell’ingresso, dove chiamo a gran voce Karissa, ma, oltre il baccano, mi raggiunge il suono di una risata.

    È femminile e familiare, ma non è la risata di Karissa.

    Melody.

    Il sangue accelera nelle vene e le dita si flettono per l’improvvisa scarica di irritazione. Chiudo le mani a pugno per impedire loro di tremare, ma non serve a molto. Vorrei uccidere quella risata, reprimere l’insopportabile chiacchiericcio e farlo smettere.

    Mi sta dando sui nervi e li sta maciullando.

    Il chiasso arriva dalla sala hobby, l’unica stanza in cui mi sento a casa. L’unico fottuto posto in cui mi sento al sicuro.

    Invitare qualcuno in casa mia è come lasciare toccare agli altri il mio cibo o farmi servire da bere: qualcosa per cui serve una fiducia che io non concederò mai. Sono stato spiato con delle cimici, in passato, il mio telefono è stato intercettato, ed è facilissimo che qualcosa mi sfugga, che mi scappi da sotto il naso. Non lascio entrare le persone nella mia vita, e lei ha aperto il mio santuario a qualcuno che conosco a malapena.

    Melody Carmichael. Suo padre lavora a Wall Street. Sua madre è una casalinga ed è la presidentessa di un club del libro. Sono l’immagine della famiglia perfetta, ma è un’immagine di cui io non mi fido. Sotto sotto, nascosta sotto la superficie, c’è sempre un’altra storia, segreti sepolti che un uomo come me sa sempre come disseppellire.

    C’è sempre un rovescio della medaglia per ogni cosa, un lato oscuro in chiunque, e quelli che si muovono nell’ombra sono molto più convincenti di quelli che sembrano cercare solo la luce del sole.

    Il mio migliore amico mi ha sparato al petto, ma almeno ha avuto la decenza di guardarmi negli occhi mentre premeva il grilletto.

    Evito la sala hobby e mi dirigo in cucina, in cerca di qualcosa di forte da bere per calmare i nervi, ma rimango bloccato sui miei passi, appena varco la soglia. C’è un casino da paura. Piatti sporchi e avanzi dovunque, padelle ancora sul piano cottura con residui attaccati sul fondo. Si sente puzza di bruciato e, se si considerano i due cartoni di pizza abbandonati sul bancone e ancora pieni per metà, probabilmente è il risultato di un altro tentativo di cena fallito.

    Sento che sto per esplodere e serro la mascella. Chiudo gli occhi, prendo un respiro profondo e provo a tenere a freno la rabbia. Rilassati. Stai tranquillo. Conto fino a dieci per calmarmi, ma è inutile. Nel momento in cui riapro gli occhi, infatti, ho la vista annebbiata e devo far ricorso a ogni grammo di autocontrollo di cui dispongo per non perdere la testa.

    La mia pazienza è ufficialmente terminata.

    Afferro le padelle, le sbatto contro la pattumiera per far staccare tutto il cibo incrostato, poi le scaravento sul bancone, infischiandomene del rumore che producono quando si scontrano con il piano di marmo.

    Riempio il lavello di acqua calda e sapone, creando vapore e una schiuma che per poco non straborda, finendo per terra. Ci getto dentro i piatti e, con la mente oscurata da pensieri negativi, mi tolgo la giacca e arrotolo le maniche della camicia fino ai gomiti.

    Strofino e strofino e strofino; l’acqua bollente per poco non mi ustiona la pelle. Digrigno i denti, provando a distrarmi col dolore che mi procuro, provando a concentrarmi sul bruciore per interiorizzarlo, ma è controproducente. Ogni risata, ogni sospiro, ogni sillaba che arriva alle mie orecchie dalla sala hobby azzera tutto, e il mio risentimento ricomincia a crescere, ancora e ancora.

    Ha davvero una bella faccia tosta.

    Il mondo intorno a me scompare, le mani continuano a muoversi per conto loro. Sfrego tutto ciò che trovo in giro finché non ho le mani scorticate; raschio una padella con una paglietta d’acciaio con così tanta forza che mi sanguinano le dita. Nel buio più completo, ripulisco ogni cosa per provare a liberarmi dai miei propositi di vendetta, ma sono ancora tutti presenti.

    Quando sono in questo stato, questi pensieri mi mangiano vivo.

    Sono così in preda alla rabbia, così consumato dalla collera che non la sento arrivare, non mi accorgo della sua presenza finché non si accendono i faretti della cucina. La luce per un attimo mi paralizza. Stringo un bicchiere con un’energia tale che le nocche della mia mano da rosse diventano bianche come la cocaina.

    È una stramaledetta fortuna che il bicchiere non si rompa.

    Da un lato vorrei si spaccasse in mille pezzi.

    Che una scheggia mi ferisse e mi squarciasse una fottuta vena.

    «Naz?»

    La sua voce, mentre sussurra il mio nome, è vicinissima e non fa che aggiungere benzina alle fiamme già altissime della mia ira. Chino il capo, sentendomi tremare fin nel profondo.

    Davvero una bella faccia tosta, cazzo.

    «Vattene» ordino sottovoce, con tono così freddo che è quasi irriconoscibile alle mie stesse orecchie. Ho bisogno che ritorni dove stava e mi dia il tempo di calmarmi, di ripulire questo casino e rimettere ordine nel mio mondo, prima che me la prenda con lei.

    «Cosa?»

    «Vattene, Karissa. Non ti conviene fare questa cosa adesso.»

    «Non mi conviene fare cosa?»

    Non le rispondo, ma lei non se ne va.

    No, invece si avvicina ancora di più. Finalmente, mi accorgo dei suoi passi, calmi e misurati, mentre attraversa la cucina per raggiungermi. Cammina lentamente, ma a me la sua andatura lenta risulta comunque fastidiosa. Inspiro profondamente, per impedirmi di reagire, restando il più immobile possibile, e chiudo gli occhi quando lei parla ancora.

    «Ignazio?»

    Mi mette una mano sulla schiena, in una carezza titubante, ma è sufficiente a farmi scattare. Il bicchiere mi scivola dalle mani, precipitando nell’acqua e sapone, mentre io mi volto bruscamente. Karissa non se l’aspettava e infatti indietreggia immediatamente, per allontanarsi, ma io le afferro un polso e la tiro verso di me.

    Trasalisce, a occhi sbarrati, mentre io la spingo di schiena contro il bancone della cucina, bloccandola in un angolo col mio corpo.

    «Era questo che volevi? Eh?» La guardo dritto negli occhi scuri, mentre mi chino su di lei. «Volevi prenderti gioco di me? Volevi provocarmi?»

    «Eh?» La parola le esce dalle labbra tremolante. «Di che stai parlando?»

    «Sto parlando di quello che stai facendo» chiarisco. «Di quello che stai facendo a me.»

    «Io non ti sto facendo proprio niente.»

    Le si inumidiscono gli occhi. Sono ancora abbastanza in me da allentare la presa sul suo polso, nel caso le stia facendo male, ma non cambia nulla. Una lacrima le scivola lungo la guancia, mentre ricambia il mio sguardo e si irrigidisce, come se stesse trattenendo il respiro per il fatto di dover stare accanto a me.

    A me.

    Non riesce a stare vicino a me, cazzo.

    Mi sono aperto totalmente con lei, le ho mostrato le mie vulnerabilità, parti di me che nessuno conosce e che lei ha accettato. Le ha accettate, e amate, anche se non le capiva. E, quando finalmente gliele ho spiegate, mostrandole come sono diventato una vittima, come sono stato ferito, come la mia vita è stata distrutta, ha iniziato a comportarsi come se fossi io quello in errore.

    «Ti ho concesso il tuo spazio, Karissa. Te l’ho concesso nonostante ogni parte di me mi dicesse di non farlo, perché sapevo che era quello di cui avevi bisogno. Ti ho concesso tempo e spazio, e tu come mi ripaghi? Provocandomi. Invitando persone estranee in casa mia, nel mio spazio, senza nemmeno consultarmi. Vuoi che ti conceda il tuo spazio? Lasciami il mio, e smettila di trattarlo in modo irrispettoso!»

    «Io non ho…»

    «Sì, invece» la interrompo. «Il tuo atteggiamento da innocentina non mi incanta… non più. Sei perfettamente conscia dei tuoi comportamenti. Ne sei consapevole. Sai che effetto hanno le tue azioni su di me, eppure persisti. Te l’ho permesso, perché avevi bisogno di tempo e di pazienza da parte mia, ma ora il tempo è scaduto, Karissa, perché la mia pazienza si è esaurita. Vuoi giocare a questo gioco? Vuoi rompermi le palle finché non ottieni una reazione? D’accordo. Ti darò esattamente ciò che vuoi.»

    Mi premo contro di lei, sfrego il mio naso contro il suo, mentre lei si dimena per liberarsi dalla mia stretta. Inclino la testa e mi piego ancora di più, fermando le mie labbra a un soffio dalle sue.

    Voglio baciarla.

    Darei qualsiasi cosa affinché ricambiasse il mio bacio.

    Riesco quasi ad assaporarlo, quando sussurra: «Lasciami andare.»

    «Costringimi. Ti sfido.»

    Mi spinge con la mano libera, scivolando via, così velocemente che non ho il tempo di reagire. Le lascio andare il polso un secondo troppo tardi e lei trasalisce quando il braccio le si torce in modo innaturale. Si afferra il polso

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