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Aspenia n. 99 - Estremo Occidente
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E-book318 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Dopo il voto di midterm del novembre 2022 l’America va incontro a due anni di “governo diviso”, secondo una formula che, storicamente, preannuncia lo stallo dell’agenda legislativa. Il presidente in carica ha limitato i danni, perdendo la Camera ma non il Senato; gli sfidanti repubblicani hanno recuperato di misura il controllo della House e acquisito molti nuovi elettori, con il governatore Ron DeSantis in Florida e nell’elettorato ispanico. E hanno conquistato storici collegi democratici nello stato di New York.

Di questo e molto altro scrivono nel numero 99 “Estremo Occidente” di Aspenia rivista diretta da Marta Dassù – autori di primissimo livello tra i quali Mario Sechi, Chad P. Bown, Angus Deaton, Nouriel Roubini, Massimo Gaggi, Federico Rampini, Giulio Sapelli, Erik Jones, Carlo Jean, Vittorio Emanuela Parsi, François Heisbourg, Vittorio Emanuele Parsi, Charles Grant e Ian Lesser.

L’effetto Trump ha giocato, in seggi decisivi per il Senato, in senso negativo. Si è aperta così una resa dei conti all’interno del partito repubblicano, che condizionerà fortemente il percorso verso il 2024. Fra Donald l’originale e il “trumpismo light” di DeSantis il confronto è ormai aperto. La battaglia per le presidenziali del 2024 è già cominciata. Il minore fascino esercitato dalle posizioni estreme vale a destra, ma anche a sinistra. Non a caso, i più probabili candidati democratici alle presidenziali del 2024, ammesso che il presidente in carica venga sfidato, difficilmente verranno dall’ala sinistra del partito che nelle ultime elezioni ha registrato una grave sconfitta.

La globalizzazione avviata negli anni Novanta cambia pelle, si colgono meglio i suoi pro e i suoi contro: il rapporto tecnologico con la Cina è una vittima predestinata di questo cambio di passo e di prospettiva. La logica del nazionalismo economico americano – da cui entrambi i partiti non sono immuni - impatterà anche sui rapporti con l’Europa: i sussidi introdotti a favore del “made in America” dall’Inflation Reduction Act dell’agosto 2022 rischiano di spiazzare una parte dell’industria europea. Che – fra costi dell’energia, forza del dollaro e sussidi degli Stati Uniti – sta contemplando di abbandonare il vecchio continente. Scegliendo, in un mondo dominato dalla competizione fra Stati Uniti e Cina, di spostarsi verso l’Atlantico – Estremo Occidente – e in parte verso il Pacifico. Senza perdere di vista alcune lezioni della guerra in Ucraina: non esiste ad esempio un vantaggio comparato a favore di paesi come la Russia, che si pensava (e si temeva) avrebbero meglio manipolato le nuove tecnologie e sfruttato le vulnerabilità delle nostre “società aperte” occidentali. Le forze russe hanno fatto ben poco di ibrido, se non contro istituzioni dell’UE, quasi nulla di innovativo, e stanno invece subendo il contrattacco dell’ esercito ucraino. Anche l’ammirazione di alcuni per il modello “tecnoautoritario” cinese sta scemando a fronte della gestione della pandemia nella Repubblica popolare, tra vaccini apparentemente assai meno efficaci di quelli occidentali, sistema sanitario vetusto e ricorso massiccio alla migliore specialità del regime – la repressione militare, casa per casa.

La tenuta della democrazia americana è più solida di quello che si pensasse, come ha confermato il midterm; e la tenuta degli sfidanti autoritari lo è meno di quanto non si temesse . La battaglia per il “tecnopotere” non cambierà, ma rafforzerà questo dato di fatto. Anche per questo, investire nella “scienza pura” come chiede il Rapporto Aspen pubblicato da Aspenia è indispensabile e resta una fondamentale politica di sicurezza. Un messaggio che l’Europa, alle prese con la difficile congiuntura attuale, dovrebbe non trascurare.
LinguaItaliano
Data di uscita29 dic 2022
ISBN9791254830673
Aspenia n. 99 - Estremo Occidente

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    Anteprima del libro

    Aspenia n. 99 - Estremo Occidente - AA.VV.

    editoriale

    Il voto di midterm del novembre 2022 ha in qualche modo cambiato l’America. Hanno inizio due anni di governo diviso, secondo una formula che, storicamente, preannuncia lo stallo dell’agenda legislativa. Poi si vedrà fino a che punto. Potrà essere uno stallo cattivo, con i due partiti pronti a combattere in anticipo – l’un contro l’altro, armati ma anche fortemente divisi al proprio interno – la battaglia per le presidenziali del 2024. Battaglia che è in effetti già cominciata. O potrà essere uno stallo morbido, come spera Joe Biden, che lascerà spazi bipartisan per gli aiuti all’Ucraina e la stretta verso la Cina. Le incognite sono tali che non è chiaro il punto di arrivo, come evidenziano da prospettive diverse le analisi di Mario Sechi, Alessandro Fugnoli, Massimo Gaggi, Federico Rampini: andiamo verso un re-match delle elezioni di quattro anni fa o è cominciato un gioco nuovo? È un ritorno al passato, per la democrazia degli Stati Uniti, o l’anticipo di un futuro almeno in parte diverso?

    Aspenia n. 99

    La politica americana resta fortemente polarizzata, certo. Ma la tendenza emersa al midterm non è da sottovalutare: la polarizzazione estrema sembra rendere meno alle urne e quindi potrebbe conoscere un parziale declino come strategia politica – o almeno essere messa in discussione. Mentre Donald Trump continua a guardare indietro (a quello che ritiene tuttora il voto rubato del 2020), la maggioranza degli elettori sembra piuttosto guardare avanti.

    Peraltro, il minore fascino esercitato dalle posizioni estreme vale a destra ma anche a sinistra, visto che Joe Biden, al di là di tutte le sue carenze, è riuscito di fatto a legittimare un approccio moderato e centrista. Non a caso, i più probabili candidati democratici alle presidenziali del 2024, ammesso che il presidente in carica venga sfidato, difficilmente verranno dall’ala sinistra del partito. Che ha preso una botta al midterm. Il presidente in carica ha limitato i danni, perdendo la Camera ma non il Senato; gli sfidanti repubblicani hanno recuperato di misura il controllo della House e acquisito molti nuovi elettori, con il governatore Ron DeSantis in Florida e nell’elettorato ispanico. E hanno conquistato storici collegi democratici nello stato di New York. Ma l’effetto Trump ha giocato, in seggi decisivi per il Senato, in senso negativo. Si è aperta così una resa dei conti all’interno del partito repubblicano, che condizionerà fortemente il percorso verso il 2024. Fra Donald l’originale e il trumpismo light di DeSantis il confronto è ormai aperto.

    Un effetto collaterale (cioè, probabilmente non pianificato) del trumpismo è stato di mettere in difficoltà il classico approccio repubblicano all’economia: il taglio delle tasse è meno popolare come slogan, mentre si attende una recessione per la metà del 2023. Come nota Nouriel Roubini – di cui pubblichiamo un saggio – la storia del ciclo economico americano insegna che quando l’inflazione è superiore al 5% (oggi è al 7,7%) e quando il tasso di disoccupazione è inferiore al 5% (oggi è attorno al 3,5%) qualunque mossa restrittiva di politica monetaria ha impatti recessivi. Un remake degli anni Settanta, dove il vero interrogativo diventa: sarà una recessione abbastanza leggera (previsione prevalente) o dura e protratta? Ma l’effetto collaterale meno atteso riguarda le questioni sociali: Donald Trump ha puntato a conquistare una parte dei ceti meno abbienti con promesse che si potrebbero definire populiste (oltre che spesso contraddittorie), ma così facendo ha spostato il baricentro stesso delle scelte politiche. È diventato più arduo criticare frontalmente l’interventismo governativo alla Biden quando l’ultimo presidente repubblicano fu eletto anche per porre fine alla social carnage delle periferie più povere. Se insomma i repubblicani vogliono coltivare il voto che deriva dal disagio sociale, sarà difficile farlo con politiche liberiste o soltanto con i richiami alla identity politics cari alla destra religiosa, per quanto questa parte della destra rimanga influente.

    C’è poi un fattore generazionale che crescerà di importanza verso il 2024: gli elettori sotto i 45 anni hanno votato prevalentemente per i democratici e la percentuale è ancora maggiore se si scende di età verso i ventenni. Ma il dato anagrafico dovrebbe preoccupare anche i democratici, visto che i giovani sono complessivamente critici rispetto all’attuale leadership politica. In modo quasi parallelo, entrambi i vertici dei partiti storici non riescono a entusiasmare gli americani, visti i tassi di approvazione particolarmente bassi di Biden e Trump. Si è creato dunque lo spazio per un ricambio importante delle classi dirigenti, non soltanto nelle istituzioni – si pensi al fisiologico declino dei vecchi guru della finanza e dell’industria a fronte dell’ascesa turbolenta dei giganti digitali e dei loro leader carismatici, criticabili quanto si vuole ma capaci di immaginare il futuro.

    Le istituzioni americane restano sotto osservazione, tra indagini in corso (contro Trump) e nuove indagini minacciate (contro Biden) dalla maggioranza repubblicana alla Camera, mentre la Corte suprema è quasi irrimediabilmente ideologizzata. I saggi di Angus Deaton ed Eric Schnurer puntano il dito contro alcune delle maggiori vulnerabilità del sistema.

    È altrettanto vero però che il voto popolare porta sempre aria fresca, e la stessa Corte suprema di ispirazione nettamente conservatrice non ha certo fatto un favore al partito repubblicano con la discussa sentenza sull’aborto. In altre parole, controllare tutte le istituzioni è davvero difficile perché i tradizionali contrappesi fanno il loro lavoro, ad esempio quando i governatori continuano a emergere come protagonisti della politica locale e a produrre candidati credibili alla presidenza. Ha comunque avuto almeno parzialmente ragione Joe Biden – a differenza di quanto indicavano i sondaggi dell’autunno scorso – a insistere sul fattore democrazia nella campagna elettorale del 2022: non è soltanto l’economia a muovere i cittadini, ma li muovono le questioni identitarie, i valori sociali, addirittura alcuni aspetti di politica estera che ormai perfino gli americani (da sempre insulari) hanno imparato a considerare – dai prezzi del gas russo (che l’America peraltro non compra) fino alla competizione con la Cina, che tocca la vita dei lavoratori del Midwest.

    Proprio ora che la globalizzazione avviata negli anni Novanta cambia pelle, si colgono meglio i suoi pro e i suoi contro, ben oltre i dibattiti alla Davos e i comunicati ufficiali dei grandi vertici multilaterali. Il rapporto tecnologico con la Cina è una vittima predestinata di questo cambio di passo e di prospettiva. Ma la logica del nazionalismo economico americano potrà non risparmiare anche i rapporti con l’Europa: i sussidi introdotti a favore del made in America dall’Inflation Reduction Act dell’agosto 2022 rischiano di spiazzare una parte dell’industria europea. Che – fra costi dell’energia, forza del dollaro e sussidi degli Stati Uniti – sta contemplando di abbandonare il vecchio continente. Scegliendo, in un mondo dominato dalla competizione fra Stati Uniti e Cina, di spostarsi verso l’Atlantico – Estremo Occidente – e in parte verso il Pacifico. Una ricetta per la marginalità dell’Europa.

    Aspenia n. 99

    Se il midterm ha influenzato il corso della politica americana, è soprattutto la guerra in Ucraina a definire il quadro di riferimento ineludibile della politica in Europa. L’invasione russa mette in crisi un intero modello economico-commerciale, imperniato sulle scelte tedesche e sulla visione euroasiatica che ne conseguiva: gas a buon mercato (principalmente dalla Russia), costoso Welfare State (dunque scarsi investimenti in settori come la difesa), forte spinta sulle manifatture per l’export (dunque crescente interdipendenza con la Cina come fabbrica di beni intermedi e come mercato).

    In comune con gli Stati Uniti vi erano importanti interessi, ma in un certo senso di tipo subordinato: legame transatlantico sulla sicurezza (NATO) ma con limitati impegni europei, e tolleranza verso l’aggiramento cinese di molte regole del commercio internazionale in cambio di un effetto-calmiere sui prezzi dei beni di larghissimo consumo – che poi è stato un fondamentale ingrediente dei decenni di scarsissima inflazione, tassi d’interesse quasi a zero e politiche monetarie espansive.

    Questa combinazione, una sorta di costellazione globale, non regge più; l’Europa se ne è resa conto in modo repentino sotto la pressione del picco inflattivo, che oltretutto ha coinciso con lo sforzo in atto per perseguire la transizione energetica verde – la quale a sua volta spingeva già verso l’alto i prezzi delle fonti fossili ben prima dell’invasione russa. Simultaneamente si sono manifestate le strozzature nelle catene alimentari, che peraltro confermano quanto già emerso con le lunghe filiere della produzione e della logistica per effetto della pandemia da Covid-19: la globalizzazione rende tutte le economie fortemente interdipendenti, e quindi vulnerabili, nel bene e nel male.

    Per l’Unione Europea, tutto ciò significa quantomeno che alcuni meccanismi decisionali non sono adeguati alle sfide di oggi – ma sappiamo fin troppo bene che è estremamente difficile cambiarli. Significa anche che il mercato unico va completato – superando le eccezioni davvero importanti che riguardano energia e difesa.

    E tutto questo mentre la guerra in Ucraina cambia gli equilibri geopolitici interni all’Unione Europea: spostamento verso est e verso la Polonia dell’asse di gravità dell’Europa continentale, con una Germania che – in chiave nazionale – guarda al suo peso specifico nell’Europa baltica; perdita di centralità del vecchio motore tra Francia e Germania; relativa marginalità dei paesi mediterranei, come l’Italia, che restano esposti sul fianco sud dell’Europa e appaiono vulnerabili, anzitutto sul piano politico, ai problemi migratori.

    L’Europa risorta dopo la pandemia si divide di nuovo sotto l’impatto della crisi energetica e i costi del conflitto in Ucraina. L’unità dimostrata nel sostegno a Kyiv è essenziale ma non basta. E la domanda è se reggerà, quando la recessione colpirà più a fondo, in un contesto di tassi d’interesse in aumento e di tensioni striscianti sulla riforma del Patto di Stabilità (la cui denominazione ufficiale include la crescita, a oggi solo una speranza). La guerra in Ucraina, per l’Europa, non è solo una sfida militare. È un vero e proprio shock, politico e perfino culturale, come sostiene Vittorio Emanuele Parsi nel suo articolo. È uno shock che comunque investe il modello industriale, e dunque economico-sociale, del vecchio continente.

    Aspenia n. 99

    La competizione geopolitica che vede al centro Stati Uniti e Cina, e in posizione difficile l’Europa, si svolge sullo sfondo di una battaglia durissima per il tecnopotere. Le più recenti teorie economiche e le più innovative dottrine militari poggiano sull’uso estensivo di nuove tecnologie, ma il punto è di non travisare il senso del cambiamento tecnologico e dei suoi effetti.

    Per un verso, la guerra (come la politica) è sempre stata ibrida: coesione sociale, resilienza economica, uso della propaganda non sono affatto elementi nuovi. E la competizione per il potere è sempre stata imperniata, fin dagli albori della storia umana, sul dominio delle migliori tecnologie del momento. Semmai, abbiamo oggi una tecnologia più pervasiva che mai – quella digitale – in grado di determinare il benessere di parte dell’umanità e di accelerare l’innovazione in tutti gli altri settori della conoscenza, come un gigantesco moltiplicatore.

    Il travisamento c’è stato nel senso di immaginare un vantaggio comparato a favore di paesi come la Russia, che si pensava (e si temeva) avrebbero meglio manipolato le nuove tecnologie e sfruttato le vulnerabilità delle nostre società aperte occidentali. A giudicare dall’attacco all’Ucraina, le forze russe hanno fatto ben poco di ibrido (se non contro istituzioni dell’UE), quasi nulla di innovativo, e stanno invece subendo il contrattacco di chi – l’esercito ucraino – davvero utilizza al meglio il moltiplicatore di poche tecnologie occidentali. È vero che in guerra la quantità finisce per diventare qualità; ma per ora, la qualità è dalla parte di chi si difende, non di chi aggredisce senza scrupoli le infrastrutture civili dell’Ucraina.

    Intanto, anche l’ammirazione di alcuni per il modello tecnoautoritario cinese sta scemando a fronte della gestione della pandemia nella Repubblica popolare, tra vaccini apparentemente assai meno efficaci di quelli occidentali, sistema sanitario vetusto e ricorso massiccio alla migliore specialità del regime – la repressione militare, casa per casa. In questo contesto, non serve granché alle autorità disporre di milioni di telecamere e del controllo delle reti digitali, se poi, dopo tre anni di covid, si deve ancora scegliere tra il collasso degli ospedali e il forte rallentamento dell’economia.

    In sostanza: la tenuta della democrazia americana è più solida di quello che si pensasse, come ha confermato il midterm; e la tenuta degli sfidanti autoritari lo è meno di quanto non si temesse – anche perché stanno scoprendo di aver bisogno dei mercati globali almeno quanto l’Occidente, come spiega il Transpacific Watch in apertura di questo numero. La battaglia per il tecnopotere non cambierà ma rafforzerà questo dato di fatto. Anche per questo, come suggerisce lo studio di Aspen Institute che pubblichiamo, investire nella scienza pura è indispensabile e resta una fondamentale politica di sicurezza. Un messaggio che l’Europa, alle prese con la difficile congiuntura attuale, dovrebbe non trascurare.

    Roberto Menotti Marta Dassù

    TRANSPACIFIC WATCH

    DECOUPLING USA-CINA: IL TEST DELLA VERITÀ

    L’import americano di alcune merci cinesi ha subito un tracollo, mentre per altre è più elevato che mai. La guerra commerciale selettiva avviata da Trump e proseguita sotto l’amministrazione Biden provoca una maggiore diversificazione rispetto al passato, ma anche danni tangibili: si sta riducendo la competitività delle aziende americane sui mercati (domestici e internazionali) rispetto ai competitor non cinesi che operano al di fuori degli Stati Uniti. I dati preliminari sul decoupling delle due economie suggeriscono di agire con grande cautela.

    Da molti decenni, ormai, Cina e Stati Uniti sono legati da un abbraccio economico così stretto che adesso è difficile dire se, quanto e perché quello stesso abbraccio si stia indebolendo. Sono le tensioni montanti tra le due superpotenze, ormai al limite dell’ostilità, a spingere verso il cosiddetto decoupling, ossia la separazione, delle loro economie? Sì e no.

    Da una parte, le importazioni americane di alcuni prodotti dalla Cina – compresi semiconduttori, hardware IT ed elettronica di consumo – sono diminuite drasticamente. Persino abbigliamento, calzature e arredamento stanno arretrando. Dall’altra, però, le importazioni di laptop e schermi per computer, telefoni, console per videogame e giochi riscontrano un boom senza precedenti. La domanda di questi prodotti ha subito un’anomala impennata in risposta alla pandemia di Covid-19: bloccati in casa, gli americani hanno spostato le proprie spese dal settore dei servizi a molte di queste merci di produzione cinese.

    Le autorità americane e cinesi sembrano determinate a ridurre l’interdipendenza economica sviluppata nell’arco di decenni, ma schiacciata al momento dal peso della reciproca animosità. Finora il decoupling che si sta (e non si sta) verificando è in parte il risultato della guerra commerciale innescata dall’ex presidente Donald Trump, del percorso selettivo intrapreso e del proseguimento di gran parte di quella politica da parte dell’amministrazione Biden. Tuttavia, un più recente fattore che sembrerebbe spingere verso il decoupling è il desiderio di accrescere la diversificazione dell’import per rendere le filiere di alcune merci più resilienti. Altri elementi chiave comprendono i diritti umani, la democrazia e le tensioni geopolitiche.

    Eppure i dati economici evidenziano anche qualcos’altro. Sebbene Stati Uniti e Cina prevedano (o auspichino) benefici a lungo termine nel separare le due economie, le loro scelte implicano costi immediati. Tra questi la limitata disponibilità di prodotti, poiché le catene di approvvigionamento faticano ad adeguarsi, ma anche l’inflazione, considerato che per le aziende risulta costoso trovare nuovi fornitori. In altre parole, le imprese e in ultima analisi i consumatori devono prepararsi a pagare il prezzo della nuova realtà indotta dalla politica.

    IMPORTAZIONI IN CALO. Per 15 mesi, a partire dal luglio del 2018, l’amministrazione Trump ha applicato dazi a un numero sempre maggiore di merci importate dalla Cina. E finora l’amministrazione Biden ha scelto di mantenere tali tariffe in vigore. Nel complesso, dunque, la guerra commerciale ha ridotto i beni importati dalla Cina (figura 1)¹. Le importazioni hanno registrato un calo dopo l’imposizione di questi dazi, diminuendo poi ulteriormente a partire dal marzo del 2020, quando il commercio globale è crollato sulla scia della pandemia di Covid-19, e da allora ha recuperato solo gradualmente. Oggi l’import americano dalla Cina (linea rossa) rimane ben al di sotto dell’andamento pre-guerra commerciale (linea tratteggiata) e solo di recente è tornato ai livelli pre-guerra commerciale del giugno 2018². Al momento dalla Cina proviene solo il 18% del totale delle importazioni americane, rispetto al 22% registrato al principio della guerra commerciale.

    Figura 1 • Le importazioni americane dalla Cina sono tornate ai livelli pre-guerra commerciale solo di recente, mentre quelle dal resto del mondo sono superiori al trend

    Valore dell’import americano di merci dalla Cina e dal resto del mondo, 2016-2022 (Giugno 2018 = 100)

    Figura 1 • Le importazioni americane dalla Cina sono tornate ai livelli pre-guerra commerciale solo di recente, mentre quelle dal resto del mondo sono superiori al trend

    Nota: tendenza pre-guerra commerciale basata sull’import americano dal resto del mondo da agosto 2016 a giugno 2018.

    D’altro canto, l’import americano dal resto del mondo è il 38% più alto dei livelli pre-guerra commerciale e supera persino il trend (linea blu). Salvo poche eccezioni, tali importazioni non sono state colpite dai nuovi dazi americani³. Non solo, il loro volume ha registrato una forte ripresa dall’inizio della pandemia.

    Dopo aver condotto un’indagine ai sensi della Sezione 301 del Trade Act del 1974, l’amministrazione Trump ha iniziato a imporre dazi del 25% su un range di prodotti del valore di circa 34 miliardi di dollari di importazioni americane dalla Cina a luglio del 2018 (Lista 1) e di 16 miliardi di dollari di importazioni ad agosto (Lista 2)⁴. Quando la Cina ha reagito con le medesime misure, la guerra commerciale è proseguita con l’applicazione da parte di Trump di dazi del 10% su ulteriori 200 miliardi di dollari di importazioni nel settembre del 2018 (Lista 3), aumentando in seguito il tasso di questi dazi al 25% nel giugno del 2019. Alcuni dazi sono poi stati cancellati dopo l’annuncio iniziale della Fase 1 dell’accordo tra Pechino e Washington il 13 dicembre del 2019.

    L’EFFICACIA DEI DAZI. Come era lecito attendersi, la guerra commerciale ha avuto l’impatto maggiore sulle importazioni delle merci colpite dai dazi americani più elevati. L’import americano dalla Cina di merci che al momento sono gravate da dazi del 25% (Liste 1, 2 e 3) segna tuttora un -22% rispetto ai livelli pre-guerra commerciale (figura 2). Per contro, le importazioni americane di quegli stessi prodotti dal resto del mondo segnano adesso una crescita del 34%. Non solo, le importazioni americane dalla Cina di prodotti soggetti attualmente a tariffe del 7,5% (Lista 4A) sono del 3% inferiori ai livelli dell’agosto del 2019 (appena prima dell’imposizione di dazi su quei medesimi prodotti), laddove le importazioni analoghe dal resto del mondo segnano al momento un +45%.

    Figura 2 • Le importazioni dalla Cina di merci colpite da dazi registrano un calo, mentre quelle di merci non soggette a tariffe segnano un’autentica impennata

    Valore dell’import americano dalla Cina e dal resto del mondo per lista delle tariffe della guerra commerciale, 2018-2022 (Giugno 2018 = 100)

    Figura 2 • Le importazioni dalla Cina di merci colpite da dazi registrano un calo, mentre quelle di merci non soggette a tariffe segnano un’autentica impennata

    Nota: RdM = Resto del Mondo. Una lista si riferisce al gruppo di prodotti soggetti a tariffe americane imposte sull’import dalla Cina ai sensi della Sezione 301 del Trade Act del 1974.

    Tabella 1 • Import da Cina negli Stati Uniti

    Note: *Gli smartwatch erano tecnicamente sulla Lista 4A, ma non è stato attribuito loro un codice a 10 cifre secondo l’Harmonized Tariff Schedule fino al settembre del 2018. Per i dati antecedenti la guerra commerciale, gli smartwatch sono stati inclusi con i prodotti sulla Lista 3 che erano soggetti a tariffe del 25%.

    **Esclusi dalle tariffe. I numeri potrebbero non corrispondere alla somma esatta perché arrotondati.

    Ciò nonostante, l’import americano dalla Cina di alcuni prodotti ha registrato un boom. Le importazioni di merci mai colpite da tariffe legate alla guerra commerciale sono al momento per il 50% più alte rispetto al periodo immediatamente precedente all’inizio della stessa guerra commerciale (si veda la figura 2); le importazioni americane dal resto del mondo di quegli stessi prodotti registrano anch’esse un aumento, ma solo del 38%. I prodotti non colpiti dai dazi rappresentano grosso modo il 33% dell’import americano totale dalla Cina prima della guerra commerciale e a oggi hanno toccato il 47% (si veda la tabella).

    VOLA L’IMPORT NON COLPITO DA DAZI. A partire dal 2020, i lockdown legati al Covid-19 hanno spinto molti americani a lavorare, insegnare e giocare da casa, determinando un forte aumento della domanda

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