Il tirocinio universitario. Il modello di Scienze della formazione primaria nell'Università di Genova
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Anteprima del libro
Il tirocinio universitario. Il modello di Scienze della formazione primaria nell'Università di Genova - Franco Bochicchio e Francesca Morselli (a cura di)
Prima parte
Teorie
CAPITOLO PRIMO
IL TIROCINIO TRA TEORIA E PRATICA
Franco Bochicchio
1. Nodi problematici
Una criticità diffusa con la quale da tempo mi confronto, sia sul piano della didattica (nell’attività di insegnamento universitario), sia sul piano della ricerca (come studioso di didattica), è la difficoltà di far comprendere agli studenti l’importanza del rapporto tra la teoria e la pratica.
Una questione di fondamentale rilievo sul piano del metodo scientifico, della comprensione dei fatti e del modo di agire sulle cose. Anche sul piano della competenza, è principalmente il rapporto tra la teoria e la pratica che distingue il professionista dal praticone
, dove nel linguaggio comune quest’ultimo termine rinvia a un soggetto che àncora l’agire principalmente sull’esperienza pregressa anziché sul ragionamento scientifico del qui ed ora
. In tal modo. il praticone è capace di governare gli eventi solo ove riconducibili alla sua esperienza diretta e personale, mentre è meno attrezzato di fronte all’incertezza e all’imprevedibilità dei problemi che intervengono in qualunque situazione educativa.
Anche se a prima vista l’affermazione potrebbe apparire banale, prima di rimarcarne l’importanza del rapporto teoria-pratica, è necessario sviluppare nei futuri insegnanti la consapevolezza circa l’esistenza di tale rapporto, che spesso viene interpretato in termini antinomici.
Sono ancora in molti a sottovalutare, quando apertamente ignorare, i nessi tra aspetti in apparenza distanti, preferendo semplificazioni capaci di ridurre la complessità della studio e dell’interpretazione dei fenomeni educativi.
Esempi di questa modalità (culturale) di ragionare, è la riduzione dei fatti entro rigide categorie: vita e lavoro, studio e tempo libero; come pure, teoria e pratica, per l’appunto.
Nella cultura popolare è opinione diffusa associare la teoria a termini quali: astratta, generica, sfuggente, distante dalla realtà ecc.; scarsamente utile per la soluzione di problemi pratici, a interessante per arricchire il bagaglio culturale. A questa idea si contrappone la pratica, definita da alcuni tutta un’altra storia
perché concreta, pragmatica, utile e così via.
Questo modo di pensare ha finito con l’influenzare i comportamenti dei soggetti tanto nella vita quotidiana quanto nella vita professionale, compresa l’attività didattica, che riguarda tanto l’insegnare (e l’agire degli insegnanti) quanto l’apprendere (e l’approccio allo studio degli studenti).
Tra gli studenti, registro un diffuso scetticismo nell’annettere utilità pratica alle teorie, oppure nel riflettere a posteriori sulle pratiche, sapendole reinterpretare o criticare attraverso l’uso delle teorie. Analogamente, tra gli insegnanti registro una scarsa propensione nel compiere questo impegnativo esercizio, preferendo apparenti scorciatoie che col tempo finiscono con il divenire atteggiamenti culturali difficili da rimuovere. Non è raro, al proposito, osservare insegnanti fini conoscitori del proprio sapere, che lo insegnano come se gli studenti fossero più interessati a collezionarlo (anche solo per breve tempo, magari in vista di esibirlo in modo fedele in sede di valutazione), anziché padroneggiarlo
, dimostrando capacità di trasferire la conoscenza acquista ad altre situazioni, anche esterne al contesto di apprendimento. Un trasferimento affatto automatico, che richiede allo studente di operare uno sforzo decostruttivo e adattivo alla nuova situazione e ancora ricompositivo della conoscenza appresa, per utilizzarla nella risoluzione di situazioni e problemi inediti.
Quando il suddetto trasferimento non avviene – come di frequente capita di osservare - vuoi perché l’insegnante ha una visione dell’insegnamento come semplice trasmissione di conoscenze piuttosto che come facilitazione di processi utilizzativi dei saperi, oppure perché gli studenti hanno una visione dell’apprendimento come acquisizione passiva oppure semplice memorizzazione dei saperi, l’esperienza di apprendimento non forma il soggetto ma, più semplicemente, lo informa circa l’esistenza di oggetti culturali a lui sconosciuti (il sapere teorico), che poi sarà difficilmente in grado di padroneggiare perché incapace di collocarlo all’interno del rapporto tra la teoria e la pratica.
L’assenza di confronto dialettico tra la teoria e la pratica, è osservabile anche in quelle situazioni dove l’insegnante tenta di copiare i comportamenti di altri, non possedendo strumenti per conformare il proprio agire a problemi e situazioni non ordinarie.
Anche la configurazione dell’attuale sistema educativo-formativo non facilita il rapporto tra la teoria e la pratica. Basti pensare, che nel Corso di Laurea magistrale in Scienze della Formazione Primaria, le discipline (di base e caratterizzanti) sono ambiti culturali di trasmissione delle teorie, mentre ai laboratori associati alle discipline spetta soprattutto il compito di trasferire le teorie sul terreno dell’operatività. All’interno di questo spartiacque culturale ereditato dalla modernità tra le discipline (teoriche) e i laboratori (pratici), che ancora persiste, spetta al tirocinio (diretto e indiretto) il difficile compito di dimostrare l’esistenza di un rapporto stretto tra la teoria e la pratica, e i concreti guadagni derivanti dalla capacità di problematizzarlo in modo efficace.
Tuttavia, la possibilità di caratterizzare l’esperienza del tirocinio come luogo elettivo di incontro tra la teoria e la pratica educativa, è un compito che grava principalmente sui tutor: organizzatori, coordinatori e insegnanti accoglienti.
Professionisti che a loro volta sono stati formati con una concezione culturale (prima che didattico-pedagogica) dualista e oppositiva del rapporto tra teoria e pratica, dalla quale non è facile prendere le distanze per i motivi precedentemente richiamati.
Affermazione comprovata dalla percezione del proprio ruolo
, dove talvolta negli insegnanti sembrano prevalere istanze di natura pratica, ovvero scorciatoie, tendenti all’acquisizione di strumenti, modelli e strategie mutuati da altri, anziché percepirsi come ricercatori riflessivi, decostruttori e ricostruttori del proprio sapere e del proprio agire.
Quando ciò accade, è sempre elevato il rischio che l’attività di tirocinio guidata da questi insegnanti risulti negativamente influenzata, dove l’esperienza finisce per acuire la distanza tra le teorie e le pratiche, dove le prime restano confinate nelle aule universitarie, mentre le seconde trovano accoglienza nelle pratiche scolastiche.
2. Concezione problematicista del rapporto teoria-pratica in pedagogia
La possibilità per il tirocinio (diretto e indiretto) di tradursi in esperienza capace di mobilitare il rapporto dialettico tra la teoria e la pratica, richiede la presenza di insegnanti preparati, capaci di riconoscere le differenze fra conoscenza ingenua e conoscenza esperta (o scientifica).
Il termine epistemologia, in senso ampio fa riferimento all’indagine sui metodi e sui fondamenti della conoscenza scientifica (gnoseologia), mentre in senso più circoscritto designa la teoria della scienza. Nella prospettiva pedagogica, l’epistemologia indaga il senso e la natura del sapere e dell’agire dove il soggetto-persona occupa il centro della scena¹.
Mentre il sapere ha come riferimento prevalente la teoria (pedagogica), il riferimento dell’agire (come azione riflessiva) è la pratica. Conseguentemente, il rapporto dialettico teoria-pratica è snodo fondamentale dell’epistemologia pedagogica, sull’evidenza che una teoria indifferente ai problemi delle pratiche è difficilmente applicabile alla realtà risultando astratta; una prassi che intende risolvere problemi complessi, come quelli di natura educativa, senza essere guidata da una teoria, finisce per risultare debole procedendo per tentativi ed errori².
Nonostante studiosi ed operatori condividono l’importanza nel lavoro educativo di realizzare l’unità dialettica tra la teoria e la pratica, nella realtà la traduzione di tale principio non è affatto agevole. Quando la teoria ha scarsa capacità di incidere sulle pratiche, l’elemento compensativo è rappresentato dal senso comune (o buon senso). Secondo Baldacci, le difficoltà di realizzare l’unità teoria-prassi sono dovute soprattutto alla scarsa preparazione teorica degli educatori e degli insegnanti, che molto dipende dai percorsi della loro formazione iniziale (universitaria).
Per ricomporre la frattura tra teoria pedagogica e pratica educativa l’ipotesi suggerita dall’autore consiste - in accordo con il problematicismo pedagogico - nell’evitare di mettere direttamente a confronto la teoria con la pratica, inserendo tra i due concetti un filtro, un mediatore, rappresentato dai modelli educativi.
Secondo i teorici problematicisti, sono i modelli educativi a fungere da mediatore, assicurando il rapporto dialettico tra la teoria e le pratiche³.
L’ipotesi sostenuta in questo studio è che il tirocinio rappresenta un importante mediatore tra la teoria e la pratica, atteso che sul piano progettuale dal configurarsi come snodo regolativo tra epistemologia pedagogica e lavoro educativo sul campo, nel tradurre e riflettere operativamente un modello didattico affatto casuale, è espressione - anche in modo implicito - di un modo di fare educazione sottratto alla casualità e all’improvvisazione.
In altri termini, dal costituirsi un’esperienza di rilievo nei percorsi di studio universitari - in particolare, nella formazione iniziale degli insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia – il tirocinio è mediatore capace di favorire il rapporto dialettico tra la teoria e la pratica, e tra l’azione e la riflessione (attiva, mai contemplativa), valicando quelle difficoltà richiamate in precedenza da Baldacci.
Tuttavia, la presenza del tirocinio in sé, è condizione sufficiente ma non ancora necessaria per assicurare che l’esperienza sia effettivamente in grado di assolvere quella fondamentale funzione di mediazione tra la teoria e la pratica.
Ciò significa vestire l’esperienza di tirocinio di intenzionalità pedagogica in rapporto agli obiettivi che si intendono far raggiungere agli allievi.
Primo tra tutti, sviluppare la consapevolezza che non c’è nulla di più pratico di una buona teoria
(Lewin) oppure che non c'èuna buonapratica senzauna buona teoria
(Chesterton).
Affermazioni che in modo implicito evidenziano l’importanza di destrutturare credenze dominanti che interpretano la teoria come sapere astratto, piuttosto che sapere-strumento.
A queste condizioni la teoria favorisce originali sguardi sulle pratiche aiutando gli insegnanti a problematizzarle, attraverso operazioni di destrutturazione e ristrutturazione, dove possono più agevolmente emergere soluzioni originali.
3. Oltre il senso comune
Nell’intento di trovare una soluzione convincente alla delicata questione teoria-pratica, Baldacci ha richiamato il contributo di Bruner⁴, dove lo studioso ha rilevato che nello svolgimento dell’attività didattica spesso gli insegnanti sono guidati da una pedagogia popolare
, intesa come insieme di teorie ingenue sul funzionamento della mente del soggetto, sul suo sviluppo, sull’apprendimento e così via.
In altri termini, non sarebbero principalmente le teorie pedagogiche a guidare l’insegnante nella pratica quotidiana, ma un insieme di assunti impliciti e intuitivi, in parte dotati di senso comune e in parte assimilati dall’insegnante durante la sua esperienza. Evidenze che trovano riscontro in numerosi studi, dove emerge il nesso irriducibile che lega il sapere pratico alla soggettività dell’agente, alla sua personale visione del mondo, ai suoi pensieri, alla sua cultura⁵.
Qual è il significato del termine senso comune
? Bruner ha spiegato che l’esperienza e l’azione umana sono modellate dalle credenze, dai desideri, dai sentimenti, dalle motivazioni dell’individuo (definiti stati psicologici intenzionali) e questi ultimi acquistano significato solo se considerati in rapporto ai contesti delle interazioni sociali e degli eventi della vita quotidiana. Di contro, ad una concezione secondo la quale sarebbe l’eredità biologica a guidare e plasmare l’esperienza e l’azione dell’uomo, l’autore ritiene che tale ruolo sia esercitato dalla cultura, la quale, tra l’altro, consente di creare dei meccanismi-protesi attraverso i quali trascendere i limiti biologici imposti all’azione. Elemento cardine di una cultura è il senso comune, ossia un insieme organizzato di rappresentazioni degli eventi e di teorie intuitive circa l’essere umano, il funzionamento della mente, l’agire, che assicura coesione tra i membri di una comunità⁶.
L’apprendimento ed il pensiero sono sempre situati in un contesto culturale e dipendono dall’utilizzazione di risorse culturali⁵. Nell’indagare le questioni educative, è dunque necessario - preliminarmente - rispondere ad alcune domande. Quale funzione svolge l’educazione in una determinata cultura? Quale ruolo l’educazione assolve nella vita di coloro che operano in quella comunità. Per quale motivo l’educazione occupa quel ruolo in quella cultura, e non un altro? Quali risorse abilitanti a vivere in quella cultura sono fornite attraverso l’educazione?
Quali limiti, esterni o interni, sono imposti al processo educativo? Se ciò vale per l’educazione in generale, a maggior ragione vale per la scuola che, secondo Bruner, non è un luogo culturalmente neutrale, oppure del tutto indipendente.
In conclusione, la teoria pedagogica può incidere sulle prassi solo a condizione di trasformare le teorie popolari
degli insegnanti, sostituendosi ad esse.
La modificazione delle pratiche, prima che esigere lo sviluppo di nuove conoscenze, modelli, strategie ecc., richiede di modificare il senso comune degli insegnanti⁷.
Ne consegue, che nella formazione iniziale dei futuri insegnanti quanto più l’esperienza del tirocinio si indirizza intenzionalmente nel favorire il rapporto dialettico tra la teoria e la pratica, tanto più esso diviene occasione di modificazione del senso comune degli studenti-futuri insegnanti, che inibisce il processo (spesso spontaneo) di affermazione delle conoscenze ingenue, che come la gramigna
finisce con il contaminare l’affermazione delle conoscenze esperte.
4. Modelli educativi e didattici
Frabboni ha ricordato che nella riflessione pedagogica la scelta problematicista non è mai il frutto di una semplice equazione algebrica, ma un’opzione che insieme alla fedeltà alla ragione (intesa come principio antidogmatico) esige aderenza alla realtà (intesa come bussola abilitata a segnalare le strutture utili e le forze necessarie per costruire un coerente sistema educativo)⁸.
Aderenza alla realtà e fedeltà alla ragione suppongono consapevolezza dell’unità profonda che deve legare [...] passato presente futuro, cosicché l’esigenza razionale (anziché arrestarsi nell’ambito limitato del presente o esaurirsi nella considerazione astratta del passato o ipotizzare utopicamente il futuro) si orienti al futuro: esigenza che costituisce innanzi tutto un compito da assolvere diretto all’avvenire. Così da ricavare, dalla considerazione della situazione, le indicazioni più opportune sia relativamente ai problemi emergenti dal presente e alle concrete possibilità dell’azione, sia relativamente ai precedenti lontani e vicini che hanno contribuito nel passato alla genesi e alla fisionomia della situazione medesima
⁹.
Dalle affermazioni di Bertin - autorevole esponente della pedagogia problematicista italiana - emerge l’orientamento pragmatico di questo approccio, in contrapposizione esplicita con talune correnti della filosofia dell’educazione.
La visione problematicista è interessata a concreti processi di trasformazione e di cambiamento della realtà in esame, al fine di disegnare un sistema educativo aderente ai problemi reali dei contesti educanti (come la scuola) dove dimensioni socio-culturali intrecciano esigenze molteplici dei soggetti¹⁰. Contesti caratterizzati dall’assunzione di decisioni delicate, tra spinte alla conservazione e all’innovazione.
Come ricordato in precedenza, secondo l’approccio pedagogico problematicista la teoria non tratta direttamente delle prassi, ma di modelli educativi, i quali svolgono una funzione di mediazione e di guida, nell’indirizzare la teoria verso la pratica¹¹.
Qual è il significato di modello educativo? Quali differenze sussistono tra il modello educativo e il modello didattico? A quali condizioni l’esperienza di tirocinio può essere riconducibile ad un determinato modello didattico?
Baldacci¹² ha richiamato la definizione di modello educativo
teorizzata da Bertin, secondo cui si intende lo schema concettuale secondo cui possono essere connessi ed ordinati i vari aspetti della vita educativa in rapporto ad un principio teleologico che ne assicuri coerenza ed organicità
¹³.
In altri termini, un modello
rappresenta uno schema di connessione tra una finalità, che costituisce una peculiare interpretazione della problematica educativa, e un insieme di pratiche educative, che acquistano senso e legittimità in relazione ad essa.
I sistemi
educativi sono perciò le forme di organizzazione storico-sociale dell’educazione, e ciascuno di essi è legato ad un modello ideale. Pertanto, il termine modello
riflette scelte educative storicamente e culturalmente determinate, e possiede una precisa valenza normativa, dove questo termine designa la capacità del sistema cioè di ispirare e guidare la concreta organizzazione dell’esperienza educativa¹⁴.
Bertin¹⁵ ha poi ulteriormente distinto il significato di modello tra un’accezione descrittivo-esplicativa (rappresentazione stilizzata di un certo fenomeno) e un’accezione normativo-costruttiva (schema-guida per la realizzazione di qualcosa).
Poiché l’oggetto di questo studio riguarda il tirocinio e ha intenti pragmatici, è necessario fare riferimento all’accezione normativo-costruttiva del modello.
In questo caso – continua Bertin - il modello
educativo è uno schema-guida
che salda in una medesima configurazione la finalità (teorica) che l’azione intende perseguire, con quella pratica, rappresentata dai concreti modi di fare educazione, che comprende anche le modalità di organizzazione dell’esperienza.
In tal modo il modello educativo adempie ad una duplice funzione teorico-pratica: ermeneutica e normativa.
Sul piano ermeneutico, il modello permette d’interpretare il significato pedagogico di un sistema educativo determinato; sul piano normativo, il modello consente di prefigurare l’organizzazione e la realizzazione di concreti sistemi educativi¹⁶.
Baldacci ha ancora ricordato che il modello educativo ha una duplice configurazione di tipo dinamico: ha una portata normativa capace di guidare la prassi, ed è espressione di una teoria implicita, nel cui quadro il fine dell’azione acquista senso e legittimità¹⁷.
Tra le numerose definizioni presenti nella letteratura, quella che sembra meglio aderire alle finalità di questo studio è la definizione di Calvani, secondo cui: il modello didattico è un dispositivo di natura progettuale e strategica, capace di indicare una serie di possibilità operative (selezione di strategie didattiche, risorse, azioni didattiche) in relazione a specifici contesti attuativi
¹⁸.
Da questa definizione emergono i numerosi punti di contatto con il significato di modello educativo. In entrambi è presente il richiamo del modello a costituirsi snodo regolativo, struttura di mediazione, tra teoria e pratica. Inoltre, entrambi si presentano come schemi-guida, consistenti in rappresentazioni semplificate e parziali della complessità dell’agire didattico, e delle relazioni fondamentali che le variabili in campo stabiliscono tra loro. Aspetti utili per coloro chiamati a progettare, realizzare e valutare il lavoro di insegnamento-apprendimento.
Ai fini del nostro discorso, l’esperienza di apprendimento del tirocinio può essere più agevolmente riconducibile al modello didattico (rappresentazione dell’agire didattico maggiormente attento ai criteri operativi), piuttosto che del modello educativo (rappresentazione dell’agire educativo maggiormente attento ai criteri etico-valoriali).
Dall’avere ricostruito le principali configurazioni che l’agire didattico ha assunto nei modelli didattici del secolo scorso, dove l’epistemologia ha rappresentato il criterio-guida, Perla ha evidenziato tre differenti classi di modelli
: process-oriented, product-oriented e context-oriented¹⁹.
Come ha riferito l’autrice, nel modello process-oriented l’attenzione è rivolta principalmente ai processi di apprendimento degli allievi; nel secondo modello, product-oriented, l’agire è interessato principalmente ad accertare gli esiti dell’apprendimento; infine, nel modello context-oriented, l’agire didattico (considerato nella molteplicità delle sue forme) è interessato all’organizzazione di ambienti di apprendimento e allo sviluppo del potenziale formativo dei saperi attraverso la trasposizione didattica, ispirandosi a quadri teorici di matrice per lo più interazionista-costruttivista.
Dal quadro esaminato è adesso possibile formulare il seguente interrogativo: a quale delle tre classi di modelli didattici il tirocinio deve accostarsi sul piano della struttura dell’esperienza, affinché possa autenticamente costituirsi come fattore di mediazione nel rapporto dialettico tra la teoria e la pratica?
Per rispondere a questa domanda è necessario sommariamente inquadrare il tirocinio all’interno del Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico in Scienze della Formazione Primaria illustrando le principali finalità che qualificano questa particolare esperienza di apprendimento distinguendola da altre.
5. Il tirocinio al Disfor
Coordinate
Le attività di tirocinio, diretto e indiretto, del Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico in Scienze della Formazione Primaria rappresentano uno strumento fondamentale nella preparazione dei futuri insegnanti di scuola primaria e dell’infanzia.
L’esperienza di tirocinio avviene sia nelle istituzioni scolastiche convenzionate con l’Ateneo e accreditate presso l’Ufficio Scolastico Regionale della Liguria (tirocinio diretto
), sia in ambito universitario (tirocinio indiretto
) sotto la guida di tutor (insegnanti o dirigenti scolastici) distaccati a tempo pieno e a tempo parziale presso il corso di studi. Il tirocinio viene effettuato dal II e fino al V anno di corso, è obbligatorio e prevede 600 ore complessive, pari a 24 crediti formativi universitari.
Il tirocinio consiste in un periodo di orientamento al lavoro e di formazione in situazione, e riflette precise scelte di politica educativa, volte a valicare la frammentazione delle esperienze umane, adeguandole ai mutati scenari sociali, economici e culturali. Non più, come accadeva in passato, una scuola che forma
da una parte e un’azienda dove si lavora
dall’altra, ma un formarsi mentre si lavora con lo sguardo rivolto al futuro.
Il raccordo tra Università e mondo del lavoro è infatti il denominatore comune dei tirocini curricolari promossi da Università, istituzioni scolastiche, centri di formazione professionale all’interno di percorsi formali di istruzione o di formazione e dei tirocini extra curricolari, formativi e di orientamento e di inserimento/reinserimento al lavoro.
Funzione orientativa e conoscitiva del tirocinio
Svolgere la professione insegnante esige possedere e padroneggiare un vasto repertorio di competenze di cui la formazione iniziale (universitaria) si deve fare carico di promuovere e sviluppare, come semplice fase di avvio di un percorso di apprendimento che non potrà che proseguire - attraverso la formazione in servizio - accompagnando tutto l’arco della via attiva del professionista.
Bertagna ha ricordato che l’operare bene di un soggetto non è il riflesso automatico della semplice trasmissione astratta dei saperi²⁰, ma richiede la contestuale mobilitazione attiva e responsabile delle risorse-potenzialità integrali del soggetto; ciò sia all’interno del setting formativo, sia nei luoghi dove il sapere appreso trova applicazione pratica.
Riconoscere l’apprendimento non come semplice trasmissione passiva di conoscenze, significa ammettere che esso avviene anche e soprattutto attraverso l’esperienza diretta.
Dall’appartenere al mondo dell’esperienza, come Dewey ha ricordato nei suoi studi, l’apprendimento si realizza attraverso una negoziazione sociale dei significati dalla pratica, nella pratica, per la pratica. Affermazioni che aiutano a spiegare perché il tirocinio è potenziale punto di congiunzione tra sapere e fare, e tra teoria e pratica.
Il tirocinio consiste in un periodo di orientamento al lavoro e di formazione in situazione.
Per lo studente universitario è un’occasione importante per stabilire il primo contatto con il mondo del lavoro, che agevola l’integrazione fra la preparazione teorica e l’esperienza pratica.
Da qui il doppio valore dell’esperienza di tirocinio: orientativa, in quanto costruisce un elemento di continua definizione di attitudini e capacità; conoscitiva, in quanto rappresenta un’occasione di riflessione critica che promuove lo sviluppo di competenze indispensabili per fronteggiare la complessità delle situazioni educative da parte dei futuri insegnanti²¹.
L’orientamento, in particolare, consiste in un insieme di attività volte a sostenere le persone nel formulare decisioni in merito alla loro vita (sul piano educativo, professionale e personale) e ad attuarle. Nell’ottica dell’apprendimento permanente, l’orientamento concorre a realizzare gli obiettivi fondamentali dell’autorealizzazione, della cittadinanza attiva, dell’inclusione sociale, dell’occupabilità e dell’adattabilità professionale.
Lo scopo primario è lo sviluppo dell’individuo e la sua capacità di far fronte alla complessità che caratterizzano le situazioni educative e i bisogni educativi degli allievi. Il tirocinio ha dunque una potente forza orientativa, che rimette nella razionalità e nelle mani del soggetto riflessivo il timone della sua direzione, dove teoresi, tecnica e pratica in quanto sintesi di un io in azione, acquistano senso e significato.
Grazie al tirocinio gli studenti-futuri insegnanti hanno modo di osservare, condurre e riflettere sui processi didattici e sulle pratiche che sperimentano in classe insieme ai bambini e ai loro insegnanti. In questo modo, nell’esperienza di tirocinio le conoscenze diventano azioni, e le teorie divengono pratiche che promuovono la costruzione di un sapere pratico-riflessivo in situazione.
Non è possibile sviluppare una razionalità pratica, atta a compiere delle scelte orientate al bene, se non in una situazione tangibile, che interpella il soggetto mobilitando tutte le risorse/potenzialità integrali possedute: cognitive, sensoriali, motorie, relazionali.
6. Il tirocinio come mediazione tra conoscenza ingenua ed esperta
Chiarita la funzione pedagogica del tirocinio è adesso possibile ritornare all’interrogativo iniziale: a quale delle tre classi di modelli didattici il tirocinio deve accostarsi sul piano della struttura dell’esperienza, affinché possa autenticamente costituirsi come fattore di mediazione nel rapporto dialettico tra la teoria e la pratica?
Va detto anzitutto che la schematizzazione enunciata nelle tre classi di modelli, trattandosi di una semplificazione per mere utilità concettuali, non va interpretata in termini rigidi. Tuttavia, è utile per immaginare possibili configurazioni didattiche del tirocinio che intendano tradurre concretamente sul campo l’ipotesi avanzata sino a qui.
La qualificazione del tirocinio come esperienza di apprendimento situato attiva e riflessiva, che coinvolge non soltanto l’insegnante, ma numerosi altri attori (la scuola, il tutor accogliente, il dirigente scolastico e altri) rende limitativo l’accostamento del tirocinio – per come esso si configura nelle complesse funzioni pedagogiche