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Lo zar di vetro: La Russia di Putin
Lo zar di vetro: La Russia di Putin
Lo zar di vetro: La Russia di Putin
E-book488 pagine7 ore

Lo zar di vetro: La Russia di Putin

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Info su questo ebook

Dopo aver approvato, il 1° luglio 2020, le modifiche alla Carta costituzionale che gli permettono di rimanere presidente almeno fino al 2036 (se non a vita), il leader della nuova Russia è ormai chiamato il «Putin eterno». Proprio questa qualifica segna però il suo declino: non è più un leader reale, ma un’istituzione codificata e immutabile, un’entità astratta di una Russia che si vuole ridotta all’eterna ripetizione di sé stessa. Le incertezze dell’economia dopo la pandemia di Covid-19, le proteste nelle regioni dell’Estremo Oriente russo e le rivolte nell’Occidente della «Russia Bianca», gettano un’ombra molto preoccupante sui destini del putinismo, a prescindere da come verranno risolte tutte le crisi in corso. L’influsso della sua ideologia, comunque la si voglia definire (sovranismo, nazionalismo religioso, antiglobalismo), ha molte risonanze in tutto il mondo, dall’America del Nord e del Sud all’Europa, dalla Turchia all’India e alla Cina. Dal futuro di Putin e del suo modello possono dipendere tanti altri destini, compreso quello della piccola Italia o del piccolissimo Vaticano, con il suo miliardo di fedeli.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita29 dic 2020
ISBN9788816802629
Lo zar di vetro: La Russia di Putin
Autore

Stefano Caprio

Tra i fondatori dell’Istituto «S. Tommaso D’Aquino» di Mosca, insegna teologia all’Istituto di Scienze Religiose «Giovanni Paolo II» di Foggia e tiene corsi al Pontificio Istituto Orientale di Roma.

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    Anteprima del libro

    Lo zar di vetro - Stefano Caprio

    Stefano Caprio

    LO ZAR DI VETRO

    LA RUSSIA DI PUTIN

    Con un testo di

    Giovanni Codevilla

    In appendice

    la nuova Costituzione della Federazione russa

    © 2020

    Editoriale Jaca Book Srl, Milano

    tutti i diritti riservati

    Prima edizione italiana

    novembre 2020

    Redazione Jaca Book

    Impaginazione Elisabetta Gioanola

    eISBN 978-88-16-80262-9

    Editoriale Jaca Book

    via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520

    libreria@jacabook.it; www.jacabook.it

    Seguici su

    A mio padre Guido

    e alla memoria di mia madre Marisa

    e di padre Romano

    INDICE

    Nota per la lettura dei nomi russi e ucraini

    Introduzione

    DOVE VA LA RUSSIA?

    La quinta Russia della storia

    Il culto della Vittoria

    Mosca e Kiev, i due volti dell’anima russa

    L’imperfetta sinfonia di trono e altare

    La Chiesa della Vittoria

    Capitolo primo

    LA FINE DEL PUTINISMO

    Il calo del consenso

    Malumori e proteste

    La memoria della Rivoluzione

    Lo zar e la ballerina polacca

    I giovani rovinano la festa a Putin

    La nostalgia del comunismo

    Il profeta del sovranismo

    La democrazia indigesta

    La società della cultura unica

    L’Eurasia contro la globalizzazione

    Capitolo secondo

    LA CRISI ECONOMICA RUSSA

    NEGLI ANNI DELLE GUERRE,

    DELLE SANZIONI E DEL CORONAVIRUS

    Il ventennio stabile e il futuro imprevedibile

    Il secondo decennio e l’isolamento della Russia

    La ricerca di nuovi alleati, tra petrolio e grano

    La posizione del business e la questione ecologica

    Il problema demografico

    La deflazione nel mondo e in Russia

    Economia e geopolitica dopo la pandemia

    Capitolo terzo

    LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA

    E LA SINFONIA IMPERFETTA

    La rinascita dell’anima russa

    La nuova sinfonia di Kirill e Tichon

    La missione universale della Chiesa russa

    Il patriarcato e i monasteri

    La polemica negazionista di preti e monaci Covid-dissidenti

    Le altre confessioni religiose

    Capitolo quarto

    L’ANIMA RUSSA E L’INTELLIGENCIJA

    L’epitaffio sulla tomba dell’intelligencija russa

    Conclusione

    Il tempo dei cambiamenti

    La fragile alleanza tra Mosca e Minsk

    Le donne bielorusse e i ragazzi di Naval’nyj

    Il negazionismo apocalittico

    La Russia: quadri da un’esposizione

    LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE

    di Giovanni Codevilla

    1. Le modifiche alla Costituzione e il loro significato

    2. I diritti di libertà enunciati nella Costituzione e rinnegati dalle leggi dello Stato: la libertà religiosa

    Costituzione della Federazione Russa

    Gli Autori

    NOTA PER LA LETTURA DEI NOMI RUSSI E UCRAINI

    Nella prima colonna il segno di traslitterazione, tra parentesi il carattere dei rispettivi alfabeti, e qualche indicazione, talora necessariamente approssimativa, di pronuncia.

    Russo

    Ucraino (oltre ai caratteri presenti nel russo, eccetto la э)

    Introduzione

    DOVE VA LA RUSSIA?

    La quinta Russia della storia

    Non è facile definire i contorni e le prospettive della Russia alla fine del 2020, anno della grande pandemia, destinata a modificare molte situazioni e molte problematiche a livello locale e mondiale. Dopo un trentennio dalla fine dell’Unione Sovietica, e un ventennio abbondante di presidenza/governo di Vladimir Putin, il Paese eurasiatico è insieme profondamente cambiato, e pervicacemente attaccato al suo passato. Si potrebbe dire che la Russia di oggi cerca in ogni modo di essere la Russia di sempre.

    La riscoperta delle proprie radici e delle più grandi realizzazioni della sua storia millenaria è indubbiamente l’anima, e l’impegno, della Russia putiniana. Il 2000, anno in cui il presidente attuale è stato ufficialmente insediato, è insieme un anno zero e un anno mille: anno del nuovo inizio, e ritorno al Mille delle origini, un secondo mille per il secondo millennio del Paese dei vincitori e degli oppressi, dei dittatori e dei martiri, sempre alla ricerca di sé stesso nelle infinite distese in cui si muove la sua pur non numerosissima popolazione, cercando di proiettarsi sul mondo intero come il popolo eletto di un Terzo Testamento definitivo.

    Nei mille anni e rotti della sua storia, a partire dalla data ufficiale del Battesimo cristiano del 988, la Russia ha attraversato molte fasi convulse e molti cambiamenti radicali. Senza entrare nei dettagli delle periodizzazioni, comunque sempre arbitrarie, possiamo riassumere questo millennio in quattro grandi tappe, per aiutarci a comprendere in quale dimensione possiamo oggi descrivere la storia russa.

    La prima tappa è quella alto-medievale (secondo la cronologia russa) della Rus’ di Kiev, Paese quasi leggendario a cui si richiamano la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia, coinvolgendo in parte anche altri Paesi dell’Europa centro-orientale (Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Boemia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Moldavia), della penisola scandinava e della regione caucasica. La Rus’ è esistita, secondo la datazione formale, dal 988 al 1380, anno della prima vittoria moscovita sui tartari. La capitale Kiev oggi appartiene all’Ucraina, i vari principati sono quasi tutti centri minori di significato solo evocativo (Vladimir-Suzdal’, Novgorod, Rostov, Černigov, Pereslavl’ e altri), e nel periodo è compreso il cosiddetto giogo tartaro, la dominazione dei Khan tataro-mongoli eredi di Gengis Khan, il Khan degli Oceani, che iniziò nel 1240 ed ebbe fine nel 1480 con il confronto dell’Ugra, già in periodo moscovita. Il senso di questa antica Rus’ è la comunione nella sofferenza, il tentativo di mettere insieme le città disperse in un territorio che era, già allora, il più grande d’Europa, e di sopravvivere a invasioni e stermini di portata biblica, senza perdere la propria anima e la propria identità.

    La seconda Russia, tardo-medievale, fu la cosiddetta Moscovia, cioè la Russia di Mosca, il centro che crebbe approfittando della distruzione di tutti gli altri sotto i tartari nel XIV secolo, appropriandosi dell’eredità di Kiev e diventando il punto di riferimento della Santa Russia, esaltandosi anche come polo di significato universale, la Terza Roma. Dopo la mitica vittoria della battaglia di Kulikovo, sotto la guida del principe Dmitrij Donskoj e di San Sergij di Radonež, Mosca costruì progressivamente la propria potenza; dal 1380 si giunge in questa fase al 1703, quando fu edificata San Pietroburgo. Anche in questi trecento anni ci furono momenti di gloria e di devastazione; al regno quasi infinito del primo zar Ivan il Terribile (nominato già alla nascita nel 1530, incoronato nel 1547, fino alla morte del 1584), seguì il secolo dei Torbidi seicenteschi, le guerre con la Polonia-Lituania, le rivolte dei Cosacchi (padri dei futuri ucraini), lo scisma tra il Patriarcato e l’Unione (la Terza Roma contro la Prima Roma) e quello tra i Vecchio-Credenti e gli Ortodossi filo-greci, le lotte intestine tra i nobili che portarono alla dinastia dei Romanov. La Russia moscovita ha creato tutti i grandi ideali a cui si ispira anche la Russia attuale: la vittoria sui nemici, gli eretici e gli immorali, la comunione universale o sobornost’, l’autocrazia eurasiatica e l’eredità apostolica e imperiale.

    Impero è il termine che definisce la terza immagine della Russia, quella di San Pietroburgo, inventata da Pietro il Grande e durata fino alla Rivoluzione (1703-1917). Non più zar orientale, ma imperatore di stile occidentale: il sogno di Pietro della modernizzazione e della occidentalizzazione del Paese si è scontrato con le tante contraddizioni interne di un Paese che si estendeva ormai per tutto il grande settentrione dell’Asia, con le debolezze e le oscillazioni di governanti germanofili e francofili (la più forte fu la tedesca Caterina II, che si fece più russa dei russi), e soprattutto con il grande scontro tra Oriente e Occidente.

    La campagna napoleonica del 1812 costituisce forse la data più simbolica di tutta la storia russa: la più grande Vittoria sull’invasore, la salvezza dell’Europa e la riscoperta della propria identità, la samobytnost’ tante volte richiamata dallo stesso Putin negli ultimi anni. È la Russia che più di tutte ha ispirato la cultura mondiale: il dibattito popolare-filosofico tra slavofili e occidentalisti, la grande letteratura del Secolo d’Oro da Puškin e Gogol’ a Dostoevskij, Tolstoj e Čechov, fino al rinascimento del Secolo d’Argento (fine Ottocento – inizio Novecento) di Solov’ëv, Florenskij e Berdjaev, ma anche dei rivoluzionari, dell’arte astratta, della musica dodecafonica e dei sognatori, che portarono alla più clamorosa delle metamorfosi.

    La rivoluzione del 1917, che diede vita alla Russia sovietica (1917-1991) è senz’altro l’evento che nella mente dei contemporanei più richiama la grandezza, e anche la minacciosità del popolo russo e delle sue trasformazioni. La figura di Stalin, il dittatore georgiano che s’impossessò del mito rivoluzionario e guidò il Paese dal 1924 al 1953, rievoca in varia misura quella dei grandi autocrati passati, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, e si lega inestricabilmente con un’altra grande Vittoria salvifica, quella del 1945 sulla Germania hitleriana, che oggi a settantacinque anni dall’ingresso a Berlino dell’Armata Rossa viene celebrata come l’evento-chiave di tutta la storia russa. Questa quarta Russia è nuovamente moscovita, ma comprende anche Kiev (l’Ucraina moderna nasce sotto i sovietici) e Leningrado, la Pietroburgo di Lenin, il profeta del nuovo vangelo rivoluzionario. È anche una Russia mondiale, l’Unione Sovietica delle quindici repubbliche russificate, della Guerra Fredda che controlla da Mosca metà del mondo, dell’ideologia di una nuova sobornost’ non religiosa, o forse diversamente religiosa, la fede comunista dei proletari di tutto il mondo, unitevi!.

    Il mondo russo è oggi la definizione preferita dallo stesso Putin e dal patriarca di Mosca, Kirill, di un Paese che ancora sta cercando la sua nuova identità. Il periodo sovietico è stato molto più breve delle Russie plurisecolari che l’hanno preceduto, ma per l’intensità e la universalità della sua influenza non è stato certo da meno. Dovremmo forse ammettere che la Russia attuale non è altro che una Russia post-sovietica, o forse meglio neo-sovietica, che ancora fa i conti con l’eredità novecentesca; del resto, tutti gli attuali leader politici, religiosi ed economici sono di derivazione sovietica, per motivi anagrafici, sociali e semplicemente psicologici. Non c’è ancora veramente una nuova Russia, una quinta ipostasi, e non si vedono per adesso segnali che l’annuncino.

    La Russia di Putin vuole anzitutto ricucire lo strappo della fine dell’impero sovietico, che ha cancellato tutta la sua grandezza non solo geo-politica ed economica, ma anche ideologico-culturale. La transizione dall’ateismo militante alla rinnovata Ortodossia militante, la cosiddetta rinascita religiosa, è il fenomeno più significativo e contraddittorio dell’ultimo trentennio; mai, in nessun Paese del mondo, era avvenuto un simile fenomeno di perdita e riacquisto della fede. Si può parlare delle grandi lotte religiose nei Paesi europei, dei passaggi dal cattolicesimo al protestantesimo e viceversa, della cristianizzazione più o meno forzata dei Paesi di missione, ma l’Unione Sovietica era quel mondo che voleva cancellare Dio dalla coscienza umana, e questo accentua il bisogno dei russi di oggi di dare un valore universale alla riscoperta della propria fede: un mondo russo religioso e salvifico.

    Da qui l’assoluto bisogno di riconnettersi all’origine: la rinascita religiosa russa comincia proprio dalle solennità del Millennio del Battesimo della Rus’, che si celebrarono nel 1988 ancora in periodo sovietico, in piena perestrojka gorbacioviana. L’antica Rus’ bizantina rivive nel nuovo battesimo, la Terza Roma moscovita assume nuovamente la sua missione escatologica, l’Impero del nuovo zar riconnette il popolo con l’autocrate, la vittoria mondiale dei sovietici ispira il nuovo auspicato ruolo della Russia nel mondo globalizzato.

    Il culto della Vittoria

    Il mondo russo di Vladimir Putin è in cerca della sua consacrazione definitiva, ma la sfortuna sembra perseguitare il sogno del compimento. Il primo decennio della sua presidenza è stato in verità piuttosto mesto: la Russia usciva dai turbolenti anni Novanta, in cui il tentativo di creare un Paese di tipo occidentale, liberista e progredito era naufragato tra l’ingordigia degli oligarchi, la resistenza dei vecchi apparati, la spregiudicatezza degli speculatori e perfino la minaccia dei terrorismi e delle guerre civili, in Cecenia e in varie regioni, dove presidenti e governatori senza controllo rischiavano di portare il Paese alla disgregazione totale. Il nuovo regime accentratore si basava sulla verticale del potere, come lo stesso Putin dichiarava, che tolse i governatori elettivi per sostituirli con uomini di fiducia, e costrinse gli oligarchi a scegliere tra l’esilio all’estero o il sostegno del nuovo potere (tranne il caso esemplare di Michail Chodorkovskij, l’uomo più ricco di Russia, arrestato spettacolarmente nel 2003). Perfino a livello religioso la verticale metteva sul vertice l’Ortodossia, e tutte le altre confessioni sul piano scivoloso verso il basso, fino alle odiate sette da eliminare.

    La prima fase del putinismo è stata quindi piuttosto dimessa: doveva scontare l’enorme carico debitorio nei confronti dell’Occidente accumulato negli anni di El’cin, e riorganizzare il sistema del Paese a livello politico, economico e sociale. Com’è noto, tutto si basava sullo sfruttamento delle risorse energetiche del Paese, e l’alta quotazione del petrolio era l’unica vera condizione necessaria, perché riuscisse una relativa emancipazione dell’economia russa dalla dipendenza dei meccanismi della globalizzazione in corso. Alla fine dei primi due mandati piuttosto anonimi, Putin risultava sì un uomo forte, ma relativamente poco significativo sia all’interno che all’esterno. Per i concittadini egli era un replicante dei funzionari sovietici ancora ben impressi nella memoria, proveniente dalla scuola del KGB, uomo d’ordine e d’argine all’invasione straniera; a livello internazionale, l’unico leader ad attribuirgli un certo carisma fu l’italiano Silvio Berlusconi, che in quegli anni era per Putin il modello da imitare e realizzare (l’oligarca al potere), e che aveva tentato di coinvolgerlo nella comunità dei Paesi sviluppati, progetto destinato peraltro a fallire.

    I primi due mandati da presidente (2000/2004, 2004/2008) sono stati per Vladimir Putin un cammino di penitenza e purificazione, in cui evitare conflitti e pretese, soffocare ogni possibile deviazione e protesta, e non disturbare i potenti creditori. La Russia è scivolata fuori da tutti i grandi giochi, ha assistito quasi impotente alla corsa roboante del mercato globale in cui non poteva praticamente toccare palla, ha cercato timidamente di penetrare nel nuovo paradiso dei social media che sorgevano in quegli anni. Facebook è del 2004, Twitter del 2007; in mezzo nacquero i social russi, Odnoklassniki e Vkontakte, entrambi del 2006, che solo in seguito acquisirono una vera capacità di influenza. I famigerati hacker russi, oggi tanto evocati da tutte le parti del mondo, erano negli anni zero solo degli scolaretti, che si preparavano per la stagione della grande vendetta.

    La Russia desiderava infatti la rivincita, se non proprio la vendetta, per le umiliazioni subite: la sconfitta della Guerra Fredda, il fallito golpe del KGB del 1991, il crollo dell’Urss, l’invasione occidentale eltsiniana (con le interferenze americane alle elezioni del 1996, che salvarono El’cin dai comunisti di Gennadij Zjuganov), il fallimento speculativo del 1998, la mancata inclusione nella Nato dei primi anni Duemila… il primo decennio putiniano è passato sotto il segno del risentimento, dell’attesa del giusto momento per tornare in auge. Nel 2008 Putin decise addirittura di fare un passo indietro, avendo raggiunto la soglia (allora) invalicabile dei due mandati consecutivi, e scambiò il proprio ruolo con il fido Dmitrij Medvedev (suo collaboratore fin dagli anni Novanta a San Pietroburgo). Era senz’altro un modo per mantenere il controllo sul Paese, rispettando almeno formalmente le procedure istituzionali; allo stesso tempo, sottraeva ulteriormente la figura dello stesso Putin all’attenzione mediatica, mettendo al suo posto un uomo potenzialmente più moderato e liberale. Si ebbe l’impressione che la parabola putiniana avesse raggiunto il suo scopo: mettere il Paese al sicuro dal punto di vista socio-economico, accettando un ruolo subordinato nello scenario geo-politico mondiale. Putin comunque ebbe modo, dalla postazione operativa di primo ministro, di verificare direttamente l’efficienza del sistema che aveva cercato di organizzare nei primi otto anni di verticale del potere.

    E proprio nel 2008, poco dopo lo scambio di ruoli tra Putin e Medvedev, la relativa tranquillità raggiunta rischiò di essere sconvolta da un nuovo conflitto in pieno stile anni Novanta, quando la Georgia cercò di sottomettere l’Ossezia del sud a mano armata. Le contese di confine erano un effetto del crollo dell’Urss, dove spesso le frontiere tra le repubbliche erano delle linee formali sulle cartine, garantite dal governo e dal partito. La Russia venne coinvolta direttamente nello scontro (resta da vedere chi in effetti cominciò il conflitto), in quanto i territori pretesi dai georgiani dell’Ossezia e dell’Abchazija erano sotto la sua protezione. Lo scontro durò una settimana scarsa, e si concluse con trattative di pace che portarono alla sottoscrizione tra le parti in causa (Russia, Georgia, Abchazija e Ossezia del sud) al Cremlino del piano Medvedev-Sarkozy. Il 26 agosto la Russia riconobbe l’indipendenza dei due territori coinvolti, in qualità di Stati indipendenti, e il 2 settembre la Georgia, costretta alla resa, ruppe le relazioni diplomatiche con la Russia. L’incidente fu un vero test di ribaltamento della situazione che vedeva la Russia impotente in campo internazionale: la Russia ottenne una pur marginale vittoria, e dimostrò di non sentirsi limitata dai confini post-sovietici. Allo stesso tempo, la garanzia francese mostrava il ruolo ancora incerto e subalterno della Russia; la vicenda rallentò il possibile ingresso della Georgia nel Wto e nella Nato, ma di fatto fece perdere definitivamente a Mosca la propria influenza su Tbilisi, che infatti ritornò a scuotere la Russia solo tre anni più tardi.

    Il presidente Medvedev fece diversi tentativi di ripianare le discordie con i georgiani, con diversi round di trattative infruttuose, interviste e appelli all’opinione pubblica georgiana, attribuendo tutte le responsabilità della discordia al presidente filo-americano della Georgia, Michail Saakašvili (in carica per due mandati, dal 2004 al 2013), poi passato all’Ucraina, da dove continua a essere una spina nel fianco per i russi. Di fatto il conflitto con la Georgia segna l’inizio di una nuova fase, in cui la Russia si emancipa dal patronato occidentale e rivendica un proprio ruolo geo-politico, attraverso strumenti bellici ibridi e camuffati. Questa nuova condizione della Russia diventerà clamorosamente evidente in Ucraina, pochi anni dopo.

    Il 2012 Putin torna presidente, dopo una modifica costituzionale che allunga il mandato da quattro a sei anni (proprio le modifiche alla costituzione saranno lo strumento privilegiato per la perpetuazione indefinita del putinismo). Il ritorno in prima linea coincide con la seconda fase del regime: non più solo la messa in sicurezza del Paese, e la garanzia di una verticale interna che eviti i fastidi del pluralismo e delle tante contraddizioni, addormentando di fatto il Paese. Si rende necessaria una politica diversa, più attiva, soprattutto in campo internazionale, ma anche per rianimare una popolazione che, per tradizione russa, si adagia facilmente alla passività, in una fase demografica di preoccupante calo. Anche qui la fortuna non assiste il ri-neo-presidente: due mesi prima della elezione al nuovo mandato (7 maggio 2012), una manifestazione grottesca delle femministe Pussy Riot mette in ridicolo il 3 marzo il ri-candidato presidente e il suo augusto protettore, il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev). Le ragazze (Nadežda Tolokonnikova, Marija Alëchina ed Ekaterina Samucevič), membri di un gruppo fondato alla fine del 2011, improvvisarono un ballo sacrilego davanti all’altare della cattedrale del SS. Salvatore, un cosiddetto punk-moleben (rosario punk) con una preghiera alla Madonna: Madre di Dio, liberaci da Putin!. La protesta delle ragazze faceva seguito a una serie di altre manifestazioni che contestavano la regolarità delle elezioni parlamentari del 2011. Il patriarcato di Kirill cadde a piedi uniti nella trappola delle femministe, gridando al sacrilegio e pretendendo una condanna esemplare per oltraggio al sentimento religioso della popolazione, facendo, di tre irriverenti ragazzine, delle martiri internazionali della libertà di espressione. Nei due anni di lager che scontarono, le Pussy Riot ottennero premi internazionali d’arte, musica e difesa delle libertà sociali, fino ad ottenere dal Tribunale Europeo per i diritti dell’uomo una compensazione di trentasettemila euro, pagati dal governo russo per la violazione dei loro diritti.

    Insomma, il grande ritorno di Putin sul trono fu accompagnato da lazzi e pernacchie di piazza, e nonostante tutta la sua influenza e il suo potere assoluto anche sull’informazione, non ha più potuto evitare che in Russia si producesse un continuo controcanto da parte di un dissenso popolare che, nell’era di internet, sfugge sempre ad ogni controllo. A quel periodo, dell’inizio del nuovo mandato presidenziale, risalgono anche le attività pubbliche più clamorose di Aleksej Naval’nyj, un esponente dell’opposizione politica a Putin che decide di passare alle vie extra-parlamentari della protesta. Naval’nyj da allora è entrato e uscito in continuazione dalle patrie galere, e insieme a lui il fratello e numerosi suoi sostenitori in tante città della Russia. Nel 2013, tra una reclusione e l’altra, riuscì perfino a candidarsi a sindaco di Mosca contro il fido collaboratore di Putin, l’attuale sindaco Sergej Sobjanin, ottenendo un lusinghiero 27,24%, uno dei migliori risultati dell’opposizione di tutto il ventennio putiniano.

    Le proteste di piazza in Russia dal 2011 al 2013 hanno preso il nome di bolotnaja revoljucija (dalla piazza Bolotnaja, accanto al Cremlino) o snežnaja revoljucija (la rivoluzione della neve, per il periodo invernale). Le manifestazioni ebbero inizio dopo le elezioni parlamentari alla Duma di Stato (il parlamento russo) del 4 dicembre 2011, e continuarono per tutto il periodo della campagna presidenziale di Putin fino al 4 marzo 2012, quando ebbero luogo le elezioni alla massima carica, proprio il giorno dopo la performance delle Pussy Riot. I partecipanti protestavano per presunti brogli durante le elezioni, e uno degli slogan principali era Per elezioni oneste!, con il simbolo della fascetta bianca. Anche le opposizioni parlamentari appoggiarono in parte le proteste, i partiti liberali di Grigorij Javlinskij, Sergej Mironov e Michail Prochorov e i comunisti di Gennadij Zjuganov. Iniziate il 4 dicembre, le manifestazioni proseguirono sotto la neve e il gelo, diventando sempre più affollate in oltre cento città della Russia, e perfino in quarantadue città all’estero. Il 24 dicembre, in piazza Bolotnaja, il raduno fu il più imponente dal 1990, partendo dal viale dedicato all’accademico Andrej Sacharov, simbolo del dissenso liberale in epoca sovietica. La protesta invernale proseguì senza soste, e il 28 febbraio ci fu il grande girotondo bianco, quando un numero impressionante di persone (si calcola quasi cinquantamila) circondò il centro di Mosca tenendosi per mano lungo tutto il Sadovoe kol’co, l’anello dei giardini, la grande circonvallazione interna della cittàche si estende per oltre quindici chilometri, senza esporre alcuno striscione o cartello, ma con palloncini e fascette bianche. Il 6 maggio 2012, alla vigilia dell’inaugurazione del nuovo mandato presidenziale di Vladimir Putin, si radunò a Mosca la Marcia del milione, una grande manifestazione concordata con le autorità, in cui però la polizia organizzò blocchi stradali non previsti e atti di violenza improvvisati, spingendo ad atti di resistenza non violenta e varie forme di disobbedienza civile. Mosca non vedeva sommosse del genere da tempi immemorabili, forse da quelli di Lenin e Trockij; nelle proteste si distinsero figure di rilevo dell’opposizione come lo stesso Naval’nyj, l’ex-campione di scacchi Garri Kasparov e l’ex-governatore di Nižnij Novgorod e delfino di El’cin Boris Nemcov, poi assassinato da misteriosi killer ceceni il 27 febbraio 2015, sul ponte della Moscova non lontano dalle piazze delle proteste.

    Il terzo mandato di Putin iniziò quindi in mezzo alle turbolenze e allo scontento, e si rese evidente che non bastava più la semplice normalizzazione del Paese. Serviva un ideale e uno scopo più elevato e più coinvolgente, una nuova grandezza della Russia da costruire e proporre a una popolazione ancora troppo infetta dallo spirito delle odiate libertà civili occidentali. I russi avevano ormai visto l’Europa e il mondo, inaccessibili nei decenni sovietici, se non nei Paesi amici: moltissimi erano addirittura emigrati, chi aveva fatto i soldi li teneva in Svizzera o in Germania e si era comprato la villetta sulle nevi francesi o sulle rive italiane, o perlomeno su quelle ancora più ospitali di Cipro e del Montenegro, paradisi fiscali dei russi fino a oggi.

    L’idea venne grazie alla più innocua delle armi di dissuasione di massa, quella sportiva, in particolare degli sport invernali, molto popolari in Russia. La città russa di Soči, sulle montagne prospicienti il Mar Nero, si era aggiudicata l’organizzazione della XXII edizione delle Olimpiadi Invernali per il 2014, e Putin decise di puntare tutto su questa manifestazione. I giochi si dovevano tenere dal 7 al 23 febbraio 2014, e per la Russia era una rivincita storica di grande significato simbolico; prima di allora, le ultime Olimpiadi di Mosca erano state quelle del 1980, le XXII Olimpiadi estive (anche il numero corrispondeva), le prime in Europa orientale e le prime in un Paese socialista. Allora, nell’apoteosi finale della Guerra Fredda, le Olimpiadi finirono per diventare uno strumento della divisione e dell’umiliazione: gli Stati Uniti e altri sessanta Paesi boicottarono i giochi, a causa dell’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979. Fu una delle più pesanti sconfitte morali dell’Urss, che a sua volta boicottò insieme a tredici Paesi amici le successive Olimpiadi di Los Angeles del 1984, senza poter ottenere un vero effetto compensatorio.

    Le Olimpiadi di Soči erano quindi una vera compensazione per le umiliazioni sovietiche. Lo sport ispira la più fatua delle umane soddisfazioni, quella della vittoria nella competizione atletica (a fine luglio 2020 è stato perfino annunciato il progetto di edificazione della Chiesa del Comitato Olimpico in periferia di Mosca, dedicata al monaco-vincitore san Sergij di Radonež). Il progetto era partito dal 2009, dopo l’ottenimento dell’assegnazione da parte del Cio, con una montagna di neve trasportata sulla Piazza Rossa di Mosca, per presentare gli emblemi e i talismani delle future Olimpiadi. Le antiche glorie dello sport russo-sovietico si esibirono davanti ai rappresentanti dello sport internazionale in una grande parata della vittoria conclusa dalla canzone all’orsetto olimpico, che insieme a coniglietti, leprotti, orsi polari, leopardi delle nevi e delfini rappresentava il volto felice della nuova Russia.

    In tutto, secondo le cifre ufficiali, per le nuove strutture olimpiche di Soči si fecero investimenti per trecentoventicinque miliardi di rubli, oltre cinque miliardi e mezzo di euro. Stadi nuovi, palazzetti e infrastrutture, alberghi e stazioni, tutta la zona russa del Mar Nero fu rinnovata per presentarsi al mondo in nuovo splendore. Lo slogan delle Olimpiadi era la triade Calde. Invernali. Tue, per indicare il luogo (Soči, la città montana del sole estivo), il tempo (l’inverno russo) e l’universalità, come disse il vice-premier Dmitrij Černišenko, anche per mostrare tutta la multiformità e il carattere della Russia. Quello che si cercava era un trionfo d’immagine, accompagnato dal massimo numero possibile di vittorie sportive, per le quali si adottarono sistemi di sovietica memoria, imbottendo gli atleti di tutte le possibili forme avanzate di doping, le più difficili da scovare. Ciò che non ha poi impedito, alle autorità internazionali di vigilanza, di squalificare i russi per i giochi olimpici degli anni successivi, permettendo solo a pochi atleti puliti di scendere nelle piste con la bandiera del Comitato Olimpico. A Soči la Russia è riuscita così a conquistare il primo posto nel tabellone con tredici medaglie d’oro, molte poi annullate per doping, con un riconteggio ancora non definitivo che assegna il primo posto alla Norvegia (undici medaglie d’oro), il secondo al Canada con dieci come la Russia, che per ora conserva il terzo posto con un argento in meno, ma riesce comunque a sopravanzare gli Stati Uniti (nove ori).

    La vittoria, il nuovo grande ideale della Russia del terzo millennio, era stata in qualche modo assicurata, dalla fastosità dell’organizzazione e dall’audacia temeraria della competizione drogata, e perfino dalla magnanimità dello zar Putin che decise per l’occasione di concedere la grazia ad alcuni storici avversari, soprattutto a quel Michail Chodorkovskij che stava languendo nel lager da un decennio. L’ex-padrone della Jukos fu liberato con un’amnistia il 20 dicembre 2013, alla vigilia dell’apertura dei Giochi, per bloccare ogni propaganda nera, come si dice in russo (černyj piar), che la stampa internazionale continuava a organizzare contro l’onore della Russia ferita e umiliata.

    La fortuna, però, continuava a negarsi a Putin e al suo sogno di riscatto. Proprio nei giorni della grande manifestazione sportiva, esplose il più grave e definitivo conflitto del mondo ex-sovietico: la rivolta anti-russa in Ucraina, nota come Euromaidan.

    Mosca e Kiev, i due volti dell’anima russa

    Il conflitto russo-ucraino in realtà non è iniziato nel 2013, quando tra il 21 e il 22 novembre sulla piazza di Kiev scoppiarono le rivolte dopo la sospensione, da parte del governo filo-russo di Janukovič, dell’accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione Europea. È un conflitto che nasce con l’antica Rus’, quando la litigiosità dei principi indebolì l’antico Stato slavo-orientale, fino a venire travolto dall’invasione tataro-mongola nel 1240; che prosegue con le pretese di Mosca di sottomettere tutte le altre capitali, da Novgorod e Pskov ai Paesi Baltici, tra il XV e il XVI secolo; si rinnova con le continue guerre tra la Russia e il regno di Polonia-Lituania, concluse nel 1682 con la pace eterna che restituì la città di Kiev allo zar moscovita, e peraltro continuarono ancora in seguito, fino ai tempi sovietici; si esalta nelle rivolte dei cosacchi del XVII secolo, che accettarono il dominio russo solo per sfuggire a quello polacco, e così via fino alla rivoluzione socialista ucraina poi inglobata da quella sovietica, e ai tormentati anni dell’indipendenza della nuova repubblica dell’Ucraina, sorta dalle ceneri sovietiche e rimasta finora in bilico tra Oriente e Occidente.

    L’Ucraina non è mai esistita come Stato indipendente prima del XX secolo, quando era comunque una delle repubbliche sovietiche, fino alla fine del comunismo nel 1991. I russi non l’hanno mai considerata un’altra nazione, ma solo una parte della propria stessa entità; il nome stesso u-kraina (al confine), nacque nel Seicento per indicare alcuni territori dove si formavano le province russe dei cosacchi, separatesi dal regno polacco, e non fu usato come termine ufficiale per quelle zone prima della fine del Settecento, dalla zarina Caterina II la Grande, che mise fine alla Polonia spartendola con Austria e Prussia. I russi l’hanno sempre chiamata Malorossija, la piccola Russia, come vorrebbero chiamarla anche oggi i separatisti filo-russi della regione del Donbass. I primi cantori dell’Ucraina moderna furono il poeta Taras Ševčenko (1814-1861), un ucraino pietroburghese che in vita sua si recò soltanto due volte a Kiev, e per questo pagò con il confino siberiano, e i suoi sodali della Società di Cirillo e Metodio, che nell’Ottocento credevano nella particolarità culturale e politica della storia ucraina. Le russificazioni forzate degli zar ottocenteschi impedirono peraltro qualunque tentativo di emanciparsi, e la storia dell’Ucraina finisce quindi per essere definita dalle tante contraddizioni del Novecento: la rivoluzione, le guerre mondiali e le divisioni territoriali, l’invasione nazista e i tentativi del popolo ucraino di trovare una propria dimensione, per essere inevitabilmente repressi da tutti, dai polacchi come dai tedeschi e dai russi.

    L’Ucraina, in effetti, è la figlia legittima dell’antica Rus’ di Kiev, di cui conserva la memoria principale, la terra nativa dei grandi russi, dei piccoli russi e dei russi bianchi, versioni solo lievemente differenti di un unico popolo oggi disposto in tre nazioni. Storicamente, potremmo dire che l’Ucraina è l’altra faccia della Russia, quella rivolta a Occidente: terra veramente di confine, continuamente lacerata e contesa. Soprattutto, è quella parte dell’anima russa che non cerca necessariamente la vittoria, la superiorità, la grandezza, una parte più umile e contadina. L’evento più simbolico di questa doppia storia fu l’istituzione del patriarcato di Mosca nel 1589, quando il padrone di Mosca, in seguito zar Boris Godunov, costrinse il patriarca di Costantinopoli Geremia II, tenuto nel Cremlino agli arresti domiciliari, a firmare la carta istitutiva (Uloženje) del patriarcato di Mosca come sede della Terza Roma, la vera Chiesa e il vero Stato cristiano dello zar (Czar, il nuovo Cesare), chiamato a salvare il mondo. Lo stesso Geremia, liberato dai russi, cercò di ispirare gli ortodossi del regno di Polonia, gli ucraini di allora, a formare un contraltare alla mania di grandezza russa, istituendo il patriarcato di Kiev: la storia poi si concluse con l’Unione di Brest del 1596, soltanto sette anni dopo il patriarcato moscovita, e costituì il ritorno alla Prima Roma voluto dal re polacco Sigismondo e dai gesuiti, guidati dal padre Piotr Skarga, istitutore delle scuole moderne polacche, poi anche ucraine e russe. L’Unione con la Chiesa di Roma è di fatto il primo avvenimento storico dell’Ucraina, pur nella contesa tra russi e polacchi: è l’altra faccia della medaglia, la variante europea dei destini russi. Mosca non può permettersi, in nessun caso, di cedere l’Ucraina, pena la perdita di metà della propria stessa anima.

    Niente di peggio dunque poteva rovinare il trionfo olimpico di Soči, che la rivolta degli ucraini contro i russi. Le folle del Majdan rappresentavano un entusiasmo diametralmente opposto a quello putiniano, il sogno di entrare finalmente a far parte dell’Europa e dell’Occidente. Le repressioni poliziesche di fine novembre a Kiev provocarono una escalation inarrestabile, a differenza di altri tumulti che si erano succeduti in Ucraina dopo il 1991 (ricordiamo la rivoluzione arancione del 2004), sempre sull’orlo dell’abisso dei due mondi, e portarono alla fuga e alla messa in stato d’accusa del presidente filo-russo Viktor Janukovič, da allora esule in Russia. Il tribunale di Kiev ha poi condannato Janukovič a tredici anni di carcere per alto tradimento, evidenziando come il 1° marzo 2014, con una lettera indirizzata al presidente russo Vladimir Putin, egli abbia sollecitato l’intervento armato dell’esercito russo per aiutare le forze di polizia a lui fedeli a reprimere le manifestazioni della popolazione.

    Gli scontri tra polizia e manifestanti, iniziati a novembre del 2013, ebbero diversi rigurgiti a dicembre e a gennaio, e si acuirono particolarmente a febbraio 2014, proprio nei giorni sacri delle Olimpiadi, provocando oltre cento morti. La fuga di Janukovič, il 21 febbraio 2014, mise fine alla rivolta, che i russi condannano come guerra civile interna alle fazioni ucraine, conferendo ai filo-occidentali la qualifica di nazi-fascisti. Gli ucraini ritengono invece che fin dall’inizio si sia trattato di ingerenza e tentativo di invasione da parte dei russi, mentre il popolo ucraino avrebbe potuto risolvere da solo i propri disaccordi; era di nuovo, molto più in grande, lo scenario del 2008, nel conflitto russo-georgiano per l’Abchazija e l’Ossezia del Sud.

    La Russia, nuovamente ferita nell’orgoglio, si rifiutò di riconoscere il nuovo governo ucraino, chiamando la rivoluzione un colpo di Stato, e attribuendone la responsabilità alle ingerenze americane e occidentali. Dal patriarcato di Mosca, in particolare dal metropolita Ilarion (Alfeev), capo del Dipartimento per gli affari ecclesiastici esterni, il dito è rimasto fino ad oggi puntato soprattutto contro le strutture della Chiesa greco-cattolica ucraina, accusata di coprire i nazionalisti più radicali e russofobi. In effetti, i greco-cattolici e tanti ortodossi locali, semplici fedeli, ma anche monaci e sacerdoti, presero parte attiva ai moti di piazza, non per fomentare odio, ma per manifestare la vicinanza della Chiesa alle rivendicazioni del popolo, stanco della corruzione e del malgoverno, e desideroso di vivere in pace e nella prosperità. Gli estremisti, anche di ispirazione filo-fascista, non mancavano e non sono mai mancati nello scenario ucraino, ma non hanno mai avuto la possibilità di prendere il sopravvento, pur fornendo un facile alibi alle accuse dei russi. I contrasti avevano poi inevitabilmente riflessi geografici molto determinati: le regioni occidentali ucraine, a lungo parti dell’impero austro-ungarico, sono da sempre filo-europee, mentre quelle più orientali sono chiaramente filo-russe, da sempre legate a Mosca anche linguisticamente e culturalmente. Tra tutti questi territori, dai confini del resto non ben definiti, uno si evidenzia sia

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