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Il Quattrocento - Storia (38): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 38
Il Quattrocento - Storia (38): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 38
Il Quattrocento - Storia (38): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 38
E-book581 pagine5 ore

Il Quattrocento - Storia (38): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 38

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Il Quattrocento si apre su uno scenario ancora segnato dalla contrazione demografica ed economica che ha attraversato nel secolo precedente i Paesi europei, soprattutto quelli più sviluppati dell’Europa occidentale. Diminuiscono gli indici di rendimento dei principali prodotti agricoli e la popolazione tende all’inurbamento, gli scambi subiscono un rallentamento che mette in difficoltà i mercanti e ben diversa è anche l’immagine che il papato offre di sé: due pontefici, due collegi cardinalizi, e due curie, una a Roma e l’altra ad Avignone, finché nel 1449 si ricompone lo scisma con Niccolò V. La centralità e l’universalità della Chiesa appare in crisi, mentre si acuisce l’accentramento dei poteri, lo sviluppo delle corti, degli apparati amministrativi, fiscali, militari, diplomatici, la riduzione dello spazio politico della feudalità, oltre che il confronto con la Chiesa, e la formazione di un Terzo stato comprensivo di ceti medi mercantili, artigiani e burocratici. Questo ebook è una valida guida per comprendere appieno un secolo così travagliato sia in contesto italiano che europeo: le guerre, e soprattutto quella dei Cent’anni, continuano a rappresentare per le popolazioni un ulteriore elemento di incertezza; nel conflitto anglo-francese si intrecciano ancora diritti feudali ed ereditari che non coinvolgono solo le case regnanti, ma anche molti interessi particolari, di cui l’esempio più eclatante è lo scontro tra Armagnacchi e Borgognoni, mentre in Italia continuano le guerre per la supremazia territoriale, ma senza alcun disegno politico unificante. Un secolo ricco di avvenimenti centrali per la storia europea: dalla caduta di Costantinopoli, alla nascita di accademie e biblioteche, dai primi tentativi di formazione degli Stati moderni, all’affermazione degli Asburgo e all’invasione di Carlo VIII, fino alle grandi esplorazioni di Colombo.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788897514817
Il Quattrocento - Storia (38): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 38

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    Il Quattrocento - Storia (38) - Umberto Eco

    copertina

    Il Quattrocento - Storia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Quattrocento

    Storia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla storia del Quattrocento

    Laura Barletta

    Il Quattrocento si apre su uno scenario ancora segnato dalla contrazione demografica ed economica che ha attraversato nel secolo precedente i Paesi europei, soprattutto quelli più sviluppati dell’Europa occidentale. Diminuiscono gli indici di rendimento per unità seminata dei principali prodotti (grano, segale, orzo) e dei prezzi dei cereali, molti suoli coltivati e interi villaggi rurali vengono abbandonati, si allargano i boschi e i pascoli a detrimento dei coltivi, mentre la popolazione tende all’inurbamento: sono le città, dalle capitali ai piccoli agglomerati, dove si raccolgono i patriziati e le borghesie, a costituire i centri di organizzazione del territorio; anche gli scambi subiscono un rallentamento che mette in difficoltà i mercanti e provoca il fallimento di alcune compagnie commerciali. Ben diversa dall’immagine trionfante con la quale era iniziato il Trecento è anche quella che offre di sé il papato: due pontefici, a volte tre, due collegi cardinalizi, due curie, una a Roma e l’altra ad Avignone.

    La centralità e l’universalità della Chiesa, che ha avuto tanta parte nella spinta espansiva della società europea, appare in crisi, la mancanza di un fondamento teorico indiscusso all’idea del primato papale apre una stagione di contrasti sull’effettiva titolarità del governo della Chiesa, intesa come congregatio fidelium, di cui il papa è spesso indicato come il rappresentante più illustre, senza peraltro riconoscerne l’assoluta superiorità. I contrasti fra i conciliaristi, cioè quelli che vogliono introdurre un controllo del potere papale attraverso una presenza e un peso maggiori del corpo ecclesiastico riunito in concili, e la pretesa pontificia di esercitare una sovranità piena si protraggono fino al 1449, quando a Losanna è sancita la fine dello scisma con il riconoscimento di un unico pontefice romano nella persona di Niccolò V. Nulla però rimane come prima, benché il movimento conciliarista – per la difficoltà di riunirsi e di trovare una linea comune – non riesca ad assumere un ruolo nella direzione della Chiesa e benché Juan de Torquemada, nel 1450 con la Summa de ecclesia, costruisca un apparato teologico a fondamento dell’autorità del papato, che nella seconda metà del secolo riaffermerà il suo ruolo di guida della cristianità. Dall’inizio del Quattrocento, infatti, le Chiese di Inghilterra, di Francia e di Spagna assumono posizioni in qualche misura autonome rispetto alla Chiesa di Roma, tributarie del rapporto politico sempre più stretto che vanno intrattenendo con le monarchie dei Paesi in cui operano, e gli stessi papi attuano una politica di potenziamento del collegio cardinalizio, aggiungendovi membri di famiglie principesche d’Europa e d’Italia, a dimostrazione dell’ormai ineliminabile esigenza di una sponda politica a supporto dell’autorità spirituale.

    Soprattutto non sono estirpati quel dissenso religioso e quell’ostilità verso le manifestazioni esteriori del potere e delle ricchezze ecclesiastiche che serpeggiano in Europa a partire dal XI secolo, senza che i tribunali dell’Inquisizione, i roghi degli eretici e la repressione delle rivolte riescano a contenerli, dal momento che la ritrovata unità della Chiesa non viene completata da una sua riforma profonda. L’insegnamento di John Wycliffe all’università di Oxford, espressione delle inquietudini religiose della società tardo-medievale, raggiunge la Boemia nel 1401, quando una copia delle sue opere principali, realizzata da Girolamo da Praga, all’epoca studente a Oxford, viene diffusa da Jan Hus, professore presso l’università e confessore della regina. La trasmissione del dissenso religioso all’interno dei canali del sapere universitario ne consente l’affermazione a livello aristocratico, anche perché le idee che circolano in ambienti ereticali sono depurate da Hus delle ricadute più propriamente sociali e i fondamenti dottrinali non sono intaccati, diversamente da quanto ha fatto Wycliffe in Inghilterra. La lunga durata del movimento ussita, sopravvissuto alla condanna al rogo del suo fondatore nel 1415, trova proprio spiegazione nel coinvolgimento di una parte significativa delle élite boeme intorno al tema della riforma morale e disciplinare della Chiesa. Ma in una situazione molto tesa, in cui la predicazione di Girolamo da Praga contro il papa e le gerarchie ecclesiastiche innesca periodici tumulti popolari, l’eredità del pensiero ussita finisce per spaccarsi in due tronconi contrapposti fra taboriti – che ne raccolgono il carattere egualitario e, guidati da Jan Žižka, danno vita a una vera e propria rivolta sociale in cui si esprimono le difficoltà e la rabbia dei ceti contadini e salariati per le guerre, l’avidità dei ceti egemoni e la crisi alimentare e produttiva – e utraquisti, ai quali si legano i nobili e i ceti abbienti della Boemia, che, pur condividendo le tesi di Hus sull’eucaristia dispensata sotto forma di pane e di vino, sull’elettività delle cariche ecclesiastiche, sulla rinuncia dei religiosi ai beni temporali e sulla sottomissione del clero al potere civile, addivengono a un compromesso con la Chiesa e con il potere imperiale e partecipano all’annientamento dei taboriti a Lapany (1434).

    Fermenti sociali e culturali

    Ma le inquietudini religiose serpeggiano un po’ dovunque in Europa. I fermenti culturali che sono alla base dell’umanesimo inducono a un esame critico delle sacre scritture; la decadenza delle facoltà di teologia e le discussioni dottrinali fra gli ordini religiosi rendono consueti i dibattiti che finiscono col condurre a una sorta di incertezza dottrinale; da un lato la lunga crisi, dall’altro il coinvolgimento del clero negli affari mondani spingono a cercare vie alternative per parlare alla divinità; il crescente drenaggio di denaro da parte di una Santa Sede impegnata ad affermarsi come Stato principesco e bisognosa di fondi e la riluttanza dei sovrani, a loro volta tesi all’accentramento dei poteri, a consentire l’uscita di un flusso di denaro dai propri Stati e a riconoscere un’autorità diversa da sé incoraggiano le resistenze al papa e all’apparato ecclesiastico; l’affermarsi di nuovi ceti sociali favorisce il generalizzarsi di riflessioni religiose incentrate sul recupero della semplicità evangelica e non aliene da risvolti egualitari.

    La spinta alla secolarizzazione che caratterizza il Rinascimento, ben lungi dal costituire una scristianizzazione, appare piuttosto il portato di un movimento di fondo della società, orientata verso un nuovo assetto e verso nuovi bisogni spirituali che lasciano emergere istanze già presenti nelle coscienze e nelle comunità che non hanno trovato risposte adeguate. La vicenda di Savonarola, con il cui rogo nella piazza della Signoria, il 23 maggio 1498, si chiuderà il secolo, è emblematica al riguardo.

    Del resto nella prima metà del Quattrocento le condizioni dell’economia continuano a incidere sensibilmente sullo sradicamento di una parte non piccola della popolazione, contadini, pastori, facchini, operai, muratori, artigiani, soldati, costretti a una vita di vagabondaggio, quando non di mendicità o di criminalità dalla diversa distribuzione di occasioni di lavoro, dalla loro saltuarietà e dalla loro incertezza. Sono masse vaganti facilmente suggestionabili da profeti, eremiti, predicatori, annunciatori di catastrofi, figure carismatiche, maghi, streghe e guaritori che, dopo le rivolte del secolo precedente, sono viste con diffidenza dalle comunità e dalle istituzioni pubbliche e sono oggetto sia di misure repressive, sia di nuove forme di assistenza organizzata, come l’accoglienza – anche forzata – nei grandi ospedali che si vanno edificando nelle maggiori città. Si istituzionalizza la distinzione fra buoni e cattivi poveri, che ha rotto la categoria indistinta dei poveri di Cristo, fatta di vecchi, storpi, ciechi, malati, vedove, bambini, eretici, prostitute, folli, convertiti, pellegrini, forestieri, mendicanti e malandrini; si separano i bisognosi docili, utili alla società, da avviare al lavoro, da quelli effettivamente bisognosi di assistenza e da quelli indocili e pericolosi, mentre si accentua la repressione della sfera dell’occulto che sempre più si appiattisce su quella del demonico.

    Lo sforzo di distinguere le sante dalle streghe, il miracolo dal maleficio, di liberare il mondo dalla contaminazione del male e contenere la pericolosa animalità femminile, che, padrona della nascita e della morte, continuamente travalica le frontiere fra l’universo quotidiano e l’ignoto, scatenerà nuove ondate di caccia alle streghe, darà la stura a una panflettistica che mette in luce vizi e virtù delle donne e discute del loro rapporto con l’uomo, per lo più a loro detrimento, e produrrà nel 1486 un’opera come il Malleus maleficarum dei domenicani Sprenger e Krämer.

    È questa tendenza all’accentramento dei poteri, allo sviluppo delle corti, degli apparati amministrativi, fiscali, militari, diplomatici, alla riduzione dello spazio politico della feudalità, oltre che al confronto con la Chiesa, e insieme con la formazione di un Terzo stato comprensivo di ceti medi mercantili, artigiani, burocratici, professionali e in genere di coloro che non fanno parte della nobiltà o del clero, alla marginalizzazione delle frange non produttive della società e alla repressione di tutto ciò che sfugge al controllo del potere centrale ad avviare la grande stagione dello Stato moderno – che resta un fatto storico di rilievo, per quanto importanti possano essere le persistenze medievali, per quanto lungo sia il tempo in cui il processo si svolge e per quanto varie siano le forme che esso va assumendo nei diversi Paesi europei – e a dare ai grandi stati la consistenza e la compattezza che permettono loro di aspirare all’egemonia in Europa e di condurre lunghe guerre.

    Le guerre

    Le guerre, e soprattutto quella dei Cent’anni, iniziata a metà del secolo precedente, sebbene intervallate da tregue, continuano a rappresentare per le popolazioni un ulteriore elemento di incertezza. Nel conflitto anglo-francese si intrecciano ancora diritti feudali ed ereditari che non coinvolgono soltanto le case regnanti, ma anche molti interessi particolari, di cui l’esempio più eclatante è lo scontro tra Armagnacchi e Borgognoni. E sarà l’appoggio del duca di Borgogna Filippo il Buono a consentire a Enrico V, dopo la vittoria di Azincourt (1415), di dare vita nel 1420, con il trattato di Troyes, allo scenario della duplice monarchia, con il conferimento, in attesa della morte del minorato Carlo VI, della reggenza del trono di Francia al re di Inghilterra, così come sarà la rottura dell’alleanza dei Borgognoni e degli Inglesi ad Arras, nel 1435, a consentire al francese Carlo VII la ripresa delle operazioni militari, fino al definitivo ritiro degli Inglesi nel 1453, con l’eccezione di Calais. Il diverso esito del conflitto, dovuto a un ricompattamento della monarchia francese e all’affermarsi di uno spirito che, con qualche forzatura, si può dire già nazionale, interpretato da Giovanna d’Arco, si rivela comunque favorevole per entrambe le monarchie che impongono la propria autorità sui particolarismi feudali.

    Guerre, sebbene di portata più ridotta, si svolgono in Italia per la supremazia territoriale, ma senza alcun disegno politico unificante, neanche per quanto attiene alla difesa comune, come pure sembra adombrare l’equivoca formula di libertas Italiae: una terminologia propria delle esperienze cittadine, dilatata per ricomprendervi la comune aspirazione al consolidamento e all’autonomia delle signorie regionali che si vanno affermando in Italia nella prima metà del Quattrocento e trovano un equilibrio nella pace di Lodi (1454). Nessun mutamento sostanziale dell’assetto territoriale avviene, del resto, a seguito della ripresa della politica espansionistica dei Visconti, che riescono appena a contenere Venezia, e neppure con l’avvento della splendida stagione medicea a Firenze. Sei maggiori entità territoriali si spartiscono la penisola: il Regno di Napoli, lo Stato della Chiesa, la Repubblica di Firenze, la Repubblica di Venezia, il Ducato di Milano e il Ducato di Savoia, insieme con alcune entità territoriali minori, la Repubblica di Genova – con la Corsica –, quella di Siena e quella di Lucca, il Principato di Trento, i marchesati di Saluzzo, Monferrato e Ceva, oltre alle signorie degli Estensi sulla Romagna e parte dell’Emilia, dei Gonzaga a Mantova, dei Malaspina nella Lunigiana e qualche altro ancora.

    Gli eserciti

    Le compagnie mercenarie stabili al servizio degli Stati costituiscono il primo nucleo degli eserciti moderni, dominano la guerra e i condottieri assumono un’importanza che dà loro spesso un significativo ruolo politico; è il tempo di innovazioni negli armamenti e nelle tattiche, negli anni Settanta del secolo si impone la fanteria svizzera contro la cavalleria borgognona nelle battaglie di Grandson, di Morat, e Nancy; le nuove forme della guerra, già sperimentate in quella dei Cent’anni, compaiono davanti alle mura di Costantinopoli nella primavera del 1453, nel cui assedio un ruolo rilevante assumono le colubrine e le bombarde e soprattutto un’enorme bombarda di metallo, tutta d’un pezzo, che lanciava una pietra di 11 spanne e tre dita di circonferenza, pesante 1900 libbre, la quale, secondo il racconto del mercante fiorentino Jacopo Tedaldi che partecipa alla difesa di Costantinopoli, rade al suolo buona parte delle mura della porta di San Romano. L’uso della polvere da sparo innesca trasformazioni che, per quanto graduali, sono irreversibili e comportano effetti dirompenti sia sul piano militare, sia su quello politico, per il maggiore costo della guerra che sempre più può essere condotta vittoriosamente solo dagli Stati più grandi e più solidi, sia su quello economico, per l’impulso all’estrazione dei minerali, alla fabbricazione delle armi e all’edilizia difensiva.

    La caduta di Costantinopoli

    La presa di Costantinopoli il 29 maggio 1453 – dopo che i Bizantini hanno dimostrato la loro debolezza chiedendo inutilmente l’aiuto dei sovrani occidentali, concretizzatosi nell’intervento del solo esercito crociato ungherese distrutto dai Turchi nella battaglia di Varna (1444), e accettando nel 1447 nei concili di Ferrara e di Firenze la riunificazione della Chiesa orientale con quella romana – rappresenta uno degli eventi emblematici che segnano la fine del Medioevo. Viene meno quel modello ideologico al quale si era ispirato il mondo medievale, quello dell’universalità e della inscindibilità della Chiesa e dell’impero trasmesso dal mondo tardoantico, di cui gli stessi giuristi bolognesi avevano ritenuto di trovare conferma nella lettura della compilazione giustinianea.

    E sono i Turchi, nel sottrarre per i secoli a venire all’egemonia degli Europei i Balcani, l’Egeo, il Mar Nero e il Mediterraneo orientale e al cristianesimo Costantinopoli, così come altri musulmani avevano sottratto nel tempo Gerusalemme, Alessandria, Berito, Antiochia, a chiudere la via dell’Oriente e a contribuire alla liberazione delle spinte culturali dell’umanesimo, incoraggiando la rilettura critica (a partire da quella filologica) del mondo antico. È così che, soprattutto dalla seconda metà del secolo, principi e mecenati, nelle corti italiane ed europee, a cominciare dallo stesso papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini) si circondano di letterati e di artisti ai quali sono a volte affidati anche compiti politici.

    Sorgono le Accademie, come quella platonica di Marsilio Ficino a Firenze, quella di Pomponio Leto a Roma, l’Accademia pontaniana a Napoli, ma sono soprattutto i libri e le biblioteche a rappresentare il canale di trasmissione degli studi umanistici, come affermazione del diritto dell’uomo a una libertà priva condizionamenti religiosi. Nascono la Biblioteca Vaticana con Pio II, ma anche le biblioteche dei re, come quella celeberrima del re d’Ungheria Mattia Corvino), mentre nel 1455 viene introdotta la stampa a caratteri mobili con l’utilizzo del torchio sulle due facciate a opera di Johan Gensfleisch, detto Gutenberg, che, modificando la tecnica della xilografia già in uso dal Duecento, offre possibilità di produzione e riproduzione libraria prima inimmaginabili. L’eredità bizantina è soprattutto nel passaggio dei testi greci da Bisanzio all’Occidente, a partire dai manoscritti raccolti dall’arcivescovo di Nicea, poi cardinale della Chiesa latina, Giovanni Bessarione, che andranno a costituire il nucleo più antico della Biblioteca Marciana a Venezia.

    La formazione degli Stati moderni

    Nella seconda metà del Quattrocento si definisce anche il quadro territoriale che sarà alla base degli Stati moderni.

    La morte nella battaglia di Nancy di Carlo il Temerario – che è stato uno dei capi della vittoriosa rivolta (1465) della grande nobiltà contro Luigi XI – consente al re di Francia di annettere la Piccardia e la Borgogna, lasciando aperta la questione dell’eredità borgognona con gli Asburgo, solo parzialmente risolta con il trattato di Arras del 1482.

    Altre province vanno ad aggiungersi al regno come la Provenza, il Maine, l’Angiò, mentre la Bretagna sarà acquisita nel 1491 dal figlio Carlo VIII (1470-1498) con il matrimonio con Anna di Bretagna.

    Diverso, ma non meno significativo, è il percorso della monarchia inglese, che deve aspettare la fine della guerra delle Due Rose tra la casata dei Lancaster (rosa rossa) e quella degli York (rosa bianca) per trovare nel 1485, con Enrico VII Tudor, discendente dei Lancaster da parte di padre e marito di Elisabetta di York, figlia di Edoardo IV, un assetto stabile, con una nuova dinastia, caratterizzato da un modello di parlamentarismo bicamerale, la camera dei Lord e quella dei Comuni.

    In Germania l’impero vive una lunga agonia, privo di legittimazione religiosa e universalistica e prigioniero della laicizzazione sancita con la Bolla d’oro del 1356, che di fatto sottrae i territori dei principi elettori alla sua autorità, come del resto se ne sono sottratte di fatto le altre entità territoriali che ne fanno parte, principati laici ed ecclesiastici, signorie, città, pronte a riunirsi in leghe di durata effimera per far fronte a urgenze politiche o militari.

    In questo quadro disarticolato (in cui la Svizzera a fine secolo, con la pace di Basilea del 1499, riesce a rendersi indipendente) inizia ad affermarsi alla guida dell’impero, sia pure con qualche intervento dei Lussemburgo, la dinastia degli Asburgo, già sovrana di Austria, Stiria, Carinzia e Carniola, che, dopo la breve occupazione di buona parte dei suoi territori da parte di Mattia Corvino, li riacquista con Massimiliano I.

    A sud-est la pressione turca cancella la Bulgaria e la Serbia e minaccia la Boemia e l’Ungheria, che perde la propria indipendenza dopo la sconfitta di Mohács nel 1526, e sarà contesa tra i Turchi e gli Asburgo. Mentre a Oriente, dopo la distruzione della Repubblica di Novgorod nel 1478, la Russia di Ivan III il Grande, che ha sposato la principessa bizantina Zoe Paleologa, riesce a liberarsi dalla sovranità dell’Orda d’oro e a trasformarsi, con l’aiuto dei boiari a lui fedeli, in stato unitario, assumendo emblemi e cerimoniale bizantino e dando vita al mito delle Terza Roma, erede della vera fede cristiana, minacciosamente a ridosso della Livonia e della Polonia, che nel 1410 aveva battuto l’Ordine teutonico a Tannenberg, bloccandone ogni velleità espansiva.

    Nella penisola iberica, a partire dalla prima metà del secolo XV è il Portogallo, con esplorazioni marittime a carattere commerciale, ad aprire oltre lo stretto di Gibilterra i nuovi orizzonti dell’Europa moderna. Dopo il tentativo – dimostratosi presto impraticabile – di un’espansione nelle vicine coste dell’Africa settentrionale con la presa di Ceuta, questo piccolo regno, di appena mezzo milione di abitanti, formatosi nel 1094 con la separazione dal Léon e primo dei Paesi iberici ad avere acquisito una configurazione territoriale stabile a seguito della vittoria di Las Navas di Tolosa, chiuso fra la Castiglia a nord-est e il mare a sud-ovest, si dedica durante tutto il secolo a una navigazione sistematica lungo le coste dell’Africa occidentale, utilizzando nuove tecniche e nuovi mezzi di trasporto.

    Vengono, fra l’altro, abbandonati la navigazione a vista per quella strumentale, i remi delle galere per le vele delle caravelle, dotate di tre alberi e in grado di prendere il vento fino a 50-60 gradi, dalle forme arrotondate e con grande capacità di carico e quindi di autonomia. Nel 1418 è scoperta l’isola di Madera, dove poco più tardi si comincia la coltivazione della canna da zucchero; nel 1427 sono raggiunte le Azzorre; nel 1434 è doppiato il capo Bojador; a metà secolo Enrico il Navigatore, fratello del re Edoardo I, scopre le isole di Capo Verde; nella seconda metà del secolo i Portoghesi sono alla foce del fiume Congo e nel 1494 doppiano il Capo di Buona Speranza.

    È del 1441 il primo carico di schiavi neri, che presto saranno utilizzati nella coltivazione della canna da zucchero, dando così inizio a una lunga vicenda di sfruttamento. Non potendo occupare grandi territori per la loro scarsa consistenza demografica, i Portoghesi si limitano tuttavia a costruire basi commerciali e piazzeforti garantite da accordi con le popolazioni locali, proseguendo un tipo di colonizzazione dalle vecchie tradizioni.

    È invece dalla Castiglia che partiranno le tre caravelle di Cristoforo Colombo destinate ad aprire la via per un mondo nuovo, a dare un impulso eccezionale all’economia, a spostare gli equilibri di forza nel Vecchio Continente; un Paese, la Castiglia, al centro di travagliate vicende successorie che finirà per occupare il posto centrale fra quelli della penisola iberica dopo il matrimonio fra la regina Isabella e Ferdinando d’Aragona. Due Paesi profondamente diversi per lingua, tradizioni, economia e storia trovano un elemento unificante in una politica aggressiva all’esterno con la conquista di Granada nel 1492, cui seguiranno quelle di Orano, Algeri e Tangeri all’inizio del Cinquecento, e repressiva all’interno contro ebrei e marrani, mori e moriscos, in nome di un’ortodossia cattolica di cui la Chiesa e l’Inquisizione spagnola si fanno interpreti, ma che è anche strumentale al consolidamento politico in corso.

    Se l’Aragona è orientata verso il Mediterraneo occidentale, di cui ha esteso il controllo con la conquista del Regno di Napoli nel 1442, la Castiglia si è già indirizzata verso le isole Canarie, dove ha sperimentato quelle forme di colonizzazione massiccia ed estensiva che applicherà al Nuovo Mondo. Colombo, tra miti medievali, ricerca del paradiso terrestre, ferma volontà di diffondere il verbo cristiano, affannosa rincorsa di quell’oro di cui gli stati avvertono acutamente la mancanza, ansia di trovare una via commerciale per l’Oriente, rappresenta una vera cerniera fra Medioevo ed età moderna e, pur fondando le sue previsioni su calcoli errati, mette in piedi una spedizione di incredibile audacia e, quel che più conta, fondata su basi scientifiche. Le spedizioni successive si incaricheranno di smontare l’apparato fantasioso con il quale si è andati alla scoperta di terre ignote, e risulteranno piuttosto evidenti quell’accumulo di capitale storico, finanziario, di esperienze che ha permesso l’impresa e gli interessi che ne derivano. Ed è verso l’oro e l’argento delle Americhe che, dopo la scoperta di Colombo del 1492 e il trattato di Tordesillas del 1494, nel nome della croce i galeoni spagnoli iniziano a dirigersi per finanziare la politica e le guerre dei Re cattolici, di Carlo V e di Filippo II.

    L’Italia

    L’Italia diventa la pedina debole dell’Europa con le sue numerose piccole entità territoriali preoccupate di mantenere in qualche modo la propria sovranità e costituisce un’area di irresistibile richiamo per gli Stati maggiori alla ricerca dell’egemonia in Europa. Ed è per conquistarla che si forma quello che è stato definito un sistema degli Stati europei: quello che era stato il reggimento dell’assetto politico in Italia sembra spostarsi all’Europa, un meccanismo di stretta interdipendenza fra Stati retto da alleanze e conflitti che devono tenere conto di un complesso di fattori. Per la prima volta l’Italia delle città, delle repubbliche, delle signorie, del papato e del Regno di Napoli, della libertas Italiae e della pace di Lodi si confronta dunque con la modernità di un grande Stato: Carlo VIII invade l’Italia senza incontrare resistenza e apre così la stagione delle guerre d’Italia.

    Alla fine del secolo si assiste finalmente a una ripresa demografica e a un aumento della domanda di generi alimentari, abbigliamento, costruzioni civili e militari, costruzioni navali, armi, manufatti in ferro, carta, vetro, libri e beni di lusso e assumono sempre maggiore importanza l’economia monetaria e la finanza.

    La crisi ha innescato processi di cambiamento e di selezione che si sono risolti in molti casi in un aumento della produttività, in un miglioramento dell’organizzazione del lavoro e delle tecniche, e in genere dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari.

    La storia dei banchieri si intreccia ora con quella di regni e signorie per investire la stessa politica, come è dimostrato dalla vicenda di Jacques Coeur alla corte di Carlo VIII e dal ruolo avuto dalla finanza nella vicenda politica di Cosimo de’ Medici a Firenze. Questa monetizzazione della politica può ben essere considerata come un tratto saliente e può essere illustrata dalle vicende che portano nel 1475 al trattato di Picquigny, dopo che Luigi XI ha accettato la proposta di Edoardo IV, sbarcato a Calais in aiuto di Carlo il Temerario, di versargli entro due settimane 75 mila scudi, oltre a una pensione vitalizia di 50 mila scudi: il mondo degli ideali cavallereschi appare tramontato.

    Nessuna meraviglia, quindi, quando il denaro dei Függer consentirà all’inizio del Cinquecento l’elezione di Carlo V alla dignità imperiale.

    Gli eventi

    La formazione dello Stato moderno

    Aurelio Musi

    Nel corso del secolo XV in tutta Europa, sia pure attraverso percorsi differenti, nasce una nuova forma di organizzazione politica che possiamo chiamare Stato moderno. Sono i principati italiani a crearne il modello: il principe e la sua corte si dotano di strumenti e risorse per il governo e il controllo del territorio; la titolarità del potere, identificato nel principe, comincia a distinguersi dal suo esercizio (amministrazione civile e militare e corpi diplomatici stabili); la protezione e l’espansione del territorio dipendono direttamente dalla forza e dalla potenza del principe. Sono i caratteri embrionali dello Stato moderno che si diffonderanno in gran parte dell’Europa del Quattrocento.

    Un’opera d’arte e il primato italiano

    Jacob Burckhardt, il grande storico del Rinascimento, definisce gli Stati italiani del Quattrocento opere d’arte, cioè nuove creazioni politiche, singolari laboratori, in cui per la prima volta si sperimenta il rapporto tra città, arte di vivere e arte di governo. In effetti sicuramente per tre dei cinque Stati più importanti della penisola – il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, il Principato toscano – la dimensione regionale delle nuove formazioni politiche è andata costruendosi intorno alla supremazia della città sul suo contado: secondo un percorso che, partendo dall’esperienza del Comune, ha avuto la sua evoluzione nella signoria, nel principato e quindi nello Stato regionale. Altre due formazioni politiche, che hanno reso possibile il sia pur precario equilibrio dell’Italia dopo la pace di Lodi alla metà del XV secolo, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli, sono interessate da un’evoluzione diversa. Il primo si costruisce intorno ad un sovrano particolare, dotato al tempo stesso di una sua forza territoriale e di un prestigio derivante dall’essere il capo della cristianità: due anime dunque, quella temporale e quella spirituale, in un medesimo corpo politico. Il secondo rappresenta, già a partire dalla fine dell’XI e il principio del XII secolo, una grande monarchia nazionale che unifica il territorio, capace, anche dopo il distacco della Sicilia con la guerra del Vespro, prima sotto gli Svevi, poi con gli Angioini fino al 1442, quindi con gli Aragonesi fino alla conclusione del XV secolo, di esercitare, oltre che una potente forza di attrazione all’interno, anche un peso politico-diplomatico di rilievo internazionale.

    Scrive Burckhardt: A quel modo che la maggior parte degli Stati italiani erano all’interno opere d’arte, vale a dire creazioni coscienti, emanate dalla riflessione e fondate su basi rigorosamente calcolate e visibili, artificiali dovevano essere anche i rapporti che correvano tra di loro e con gli Stati esteri. Calcolo, visibilità, artificio: è esattamente in questo trinomio la genesi ideale della nuova costituzione politica, che viene formandosi nel Quattrocento e che possiamo continuare a chiamare Stato moderno, nonostante che recenti tendenze storiografiche neghino la legittimità del termine-concetto. Attraverso quel trinomio sono leggibili tutte le principali funzioni che, pur non sviluppandosi nel XV secolo, sono presenti come in embrione in alcuni Stati regionali italiani. Essi anticipano processi e tendenze che si svilupperanno in altri Stati europei, rivelando, per questo verso, una straordinaria e precoce modernità. Essi forniscono risposte a bisogni primari: dare assetti stabili a organismi politici di ampie dimensioni per conservare e consolidare l’espansione e il controllo territoriali; dotare il principe di una corte, insieme di architettura, arte di vita e di governo, modelli di comportamento che si irradiano verso l’interno e l’esterno del territorio, in una vera e propria competizione fra corti; una struttura capace di fornire un supporto stabile al potere del sovrano attraverso amministrazioni civili che non sono ancora burocrazie, cioè corpi professionalizzati di funzionari, organizzazioni militari che vanno sempre meglio specializzandosi, rappresentanti del principe nelle relazioni internazionali, strumenti di prelievo fiscale più efficienti.

    Senza questi embrioni di una riorganizzazione strutturale interna alla vita politica e civile, Firenze non avrebbe potuto realizzare le sue conquiste territoriali a metà del Quattrocento, arrivando a controllare un’area di circa 15 mila chilometri e annettendo importanti città della regione; Venezia non avrebbe potuto crearsi, già al principio del XV secolo, un vasto dominio di terraferma

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