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Futures
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E-book211 pagine3 ore

Futures

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Info su questo ebook

2030.
Helena Ružička, figlia del temuto speculatore finanziario Erik Ružička, va in ospedale a trovare il padre, miracolosamente sopravvissuto a un’operazione. Erik cerca di riallacciare i rapporti con la figlia, promettendole di essere cambiato, e le propone un’idea. Un’idea che potrebbe avere conseguenze enormi sul futuro del pianeta.
Ramòn Mario Rais, un giovane programmatore migrato da Caracas ad Amsterdam alla ricerca di opportunità lavorative, si imbatte in un evento organizzato da un’associazione, NPP Europe, abbastanza ambiziosa da ideare un progetto che potrebbe rivoluzionare il mondo digitale.
Le storie di Helena e Ramòn si intrecciano, nella speranza di creare un futuro migliore. Ma c’è un nemico invisibile, un mostro silenzioso e spietato che osserva, nascosto
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2022
ISBN9791221339468
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    Anteprima del libro

    Futures - Stefano Ramon Bray

    PROLOGO

    San Diego

    Giovedì 18 luglio 2030

    Una lama di luce bianca irradiata da fredde lampade al neon brillò sul vetro di un pick-up nero malamente posteggiato, con ben due ruote fuori dalle strisce, nel parcheggio sotterraneo riservato al personale del Freeman Pacific Hospital di San Diego, California. Il dottor Peter Raymond, laureato dodici anni prima in medicina e specializzato in cardiochirurgia, attraversò l’ambiente a rapide falcate, inseguito dall’eco dei suoi passi. Tanto caotico e chiassoso era l’ospedale quanto silenzioso, quasi sinistro, era il parcheggio sotterraneo.

    Peter infilò una mano nella tasca destra dell’elegante soprabito nero e posò l’indice sul sensore dell’impronta digitale. Il pick-up emise un breve cicaleccio e le portiere si sbloccarono con uno scatto. Il medico si passò una mano sulla nuca quasi calva, da cui giorno dopo giorno sparivano i capelli a vista d’occhio. Era ora di tornare a casa.

    «Ehi doc», lo salutò una voce femminile.

    Peter sobbalzò, colto di sorpresa. Se non fosse stato troppo stanco per prestare attenzione a ciò che lo circondava avrebbe notato Paula Alvarez prima di udirne la voce. La dottoressa con più anni di servizio ed esperienza di tutto il reparto di cardiologia del Freeman Pacific aveva parcheggiato accanto a Peter e per caso si erano ritrovati alle auto nello stesso momento.

    Il dottor Raymond finse di toccarsi la tesa di un cappello invisibile, come se fosse un cowboy del Selvaggio West trasportato più di duecentocinquant’anni nel futuro. «‘sera, Paula.»

    La dottoressa incrociò le braccia sul ventre rotondo. Sembrava in vena di chiacchiere, cosa che Peter non era. Dio, non vedeva l’ora di andare a casa.

    «Stanco?» domandò Paula, come Peter temeva.

    «A pezzi», annuì lui.

    «È per il miliardario, vero? Quello che tutti chiamano l’americano di Praga. Erik Ružička», disse Paula storpiando la pronuncia del cognome. Ciò che ne venne fuori fu qualcosa che assomigliava pressappoco a rush-eech-ka.

    «Proprio lui», confermò Peter senza disturbarsi a correggerla sulla pronuncia.

    «Sanchez mi ha accennato qualcosa in pausa pranzo. Un intervento da uscirne matti. Se sbagli a toccarlo, è finita. La famiglia di quello lì ti fa una causa da radere al suolo il Freeman Pacific.» Paula gli batté un affettuoso colpetto sulla manica e i suoi occhi scuri decorati da zampe di gallina si illuminarono in un sorriso. «Per fortuna è stato operato dal migliore.»

    «Ho solo fatto il mio lavoro. Spero sia sufficiente», disse Peter, che non vedeva l’ora di sdraiarsi sul divano, ordinare una pizza con l’ananas – alla faccia del suo anziano e lamentoso vicino di casa italiano, il signor Cusano, un pensionato che non aveva niente di meglio da fare che criticare le abitudini alimentari degli americani – e recuperare quanto più sonno poteva.

    Il cardiochirurgo si chiese se Paula cercasse rassicurazioni da lui e ne ebbe conferma poco dopo, quando la donna gli domandò: «Settant’anni, una vita da fumatore e un bicchierino di vodka ogni sera, prima di andare a letto, da quando aveva tredici anni. Può cavarsela?»

    Peter non ne era sicuro. La sua esperienza lo faceva propendere per il pessimismo. Ružička aveva montagne di soldi, ma potersi permettere i migliori medici d’America non era garanzia di salvezza e, con la vita che aveva fatto e gli eccessi che si era regalato, c’era poco da stare allegri. Tuttavia, Paula non l’avrebbe mai lasciato andare, non finché non le avesse concesso la risposta che voleva, e così Peter la accontentò. «Ce la può fare. È una possibilità.»

    La donna lo scrutò con occhi indagatori. «Sicuro? Mica mi prendi in giro, eh? Sai che vipera è la figlia di Ružička? Lui è un demonio, ma lei è peggio. Quella è capace di comprarsi l’ospedale solo per licenziarci tutti.»

    Peter lo sapeva. Era a conoscenza degli scandali che avevano sporcato la fama della famiglia Ružička e sapeva del passato moralmente discutibile di Erik, ma dettagli come quelli erano pane per gente come Paula, non per lui. Lui era un cardiochirurgo. Il suo compito era andare a lavorare, salvare vite e tornare a casa.

    «Non ti prendo in giro, ma conosci i casi come questo. Non si può mai essere sicuri di niente. Buonanotte.» Peter aprì lo sportello del pick-up. Paula non sembrava ancora convinta, ma non insistette.

    Peter mise in moto il veicolo, impostò il pilota automatico – per quanto era stanco, avrebbe rischiato di rigare la macchina della collega – e, risalita la rampa che portava alla strada, diede un comando alla centralina tramite il sintetizzatore vocale: «Vai a casa. Imposta tragitto panoramico.» Poi attese che il pick-up si immettesse nel traffico di San Diego.

    Il pick-up ubbidì al comando e presto Peter si ritrovò in un punto della strada da cui si vedeva il Pacifico, maestoso, scuro e vasto. Il sole, tramontato dietro i grattacieli, si specchiava sull’acqua come un disco rosso. Era il suo rito quando rientrava da lavoro: una piccola deviazione che allungava la strada di pochi minuti e che, in cambio, gli permetteva di godersi quella vista. Era nato e cresciuto a San Diego, ma non si stancava mai di osservare l’oceano.

    Con il Pacifico ancora negli occhi, Peter scosse la testa. Gente come Erik Ružička provava gusto a deturpare un mondo tanto bello. Dover operare un uomo del genere aveva il sapore di una beffa del destino.

    San Diego

    Sabato 27 luglio 2030

    La pioggia cadeva a secchiate sul taxi, come se il cielo volesse convincere Helena Ružička a non scendere dal veicolo per incontrare l’uomo che più di ogni altro l’aveva fatta gioire e soffrire allo stesso tempo. Il temporale estivo era scoppiato su San Diego come uno starnuto che coglie impreparati: turisti in ciabatte e costume da bagno correvano sui marciapiedi trascinando materassini, pale, secchielli e bambini urlanti, altri si affollavano in bar e ristoranti, alla ricerca di un riparo dalla furia del meteo. Helena li guardò passare senza batter ciglio. Per lei c’era ben altro in gioco che il sogno infranto di una vacanza da trascorrere immobili sotto il sole come lucertole. Dall’altro lato della strada c’era la sua meta, il Freeman Pacific Hospital, dov’era ricoverato suo padre.

    Quel giorno Helena aveva scelto un taxi a guida umana, uno dei pochi che aveva resistito allo scorrere del tempo; ormai non si cercavano più piloti ma ingegneri, per gestire le centraline dei veicoli a distanza. Il taxista, un signore che non poteva avere meno di sessanta o sessantacinque anni, brizzolato e abbronzato, con l’aquila americana tatuata sull’avambraccio sinistro, la fissò dallo specchietto retrovisore incrociando gli occhi verdi nei suoi. «Ha un ombrello, signorina? Piove che Dio la manda.»

    Helena gli allungò i soldi della corsa più dieci dollari di mancia. Né suo padre né Natasha, sua sorella maggiore, avrebbero gradito il gesto, ma il sorriso che vide sul viso dell’uomo la rallegrò. A ben pensarci, suo padre e sua sorella avrebbero preferito un taxi con autopilota, in modo da evitare possibili relazioni umane con l’autista.

    «Ci vorrebbero più clienti come lei. Con i robot che lavorano al posto nostro, il mondo sta diventando il Paradiso degli sfaticati. Accorciare le settimane lavorative! Assurdo! I soliti giovani che non hanno voglia di lavorare. Quand’ero ragazzo io...»

    Quel discorso da ignorante cariatide conservatore fece dimenticare la cortesia a Helena, che aprì la portiera e scese sul marciapiede senza nemmeno salutare l’autista e rimpiangendo di avergli lasciato dieci dollari di mancia. L’uomo restò a fissarla per un po’, poi dovette concludere che lei faceva parte della categoria dei giovani che non hanno voglia di lavorare e ripartì alla ricerca di altri clienti con una scrollata di spalle. Probabilmente, se avessero confrontato i rispettivi curricula, l’autista del taxi avrebbe scoperto che Helena, che aveva circa metà dei suoi anni, aveva lavorato più di lui, alla faccia delle sue idee sulle nuove generazioni.

    Un tuono spazzò via quei pensieri. Helena tornò in sé sul marciapiede tempestato da vento e pioggia, con la folla di San Diego che le sciamava intorno, i più fortunati riparati da ombrelli indossabili impermeabili, gli altri chi correndo sotto la pioggia, chi con la testa riparata sotto la giacca. Di tanto in tanto un’automobile schizzava onde d’acqua sui passanti, scatenando imprecazioni soprattutto da parte dei turisti, molti dei quali erano ancora vestiti per la spiaggia.

    Helena non indossava ciabatte, sandali o costume da bagno, perché doveva recarsi in ospedale a visitare il padre, ma la pioggia non andava d’accordo neanche con l’abbigliamento formale che aveva scelto. Quando aveva iniziato a piovere era già in taxi: camicia, giacca corta e gonna grigia a tubo non sono i vestiti che si indossano con un simile tempo. Il vento le scaricò addosso una secchiata d’acqua che le fece desiderare di possedere un tergicristallo per occhiali. La pioggia le schiacciò i capelli neri contro il cranio e mandò in fumo il lavoro di tre giorni prima della sua parrucchiera di fiducia. Pazienza, pensò Helena, e attraversò la strada.

    Arrivò all’ingresso del Freeman Pacific Hospital che era zuppa e quasi non vedeva nulla attraverso le lenti coperte di gocce. A malapena udì la voce della guardia armata che le si fece incontro domandandole chi fosse, cosa volesse, cosa facesse lì eccetera eccetera. La sua mente era già oltre.

    Quel giorno avrebbe rivisto suo padre di persona per la prima volta dopo tre anni.

    All’interno della stanza privata dov’era ricoverato Erik Ružička faceva fresco, grazie a un moderno sistema di climatizzazione che filtrava aria dall’esterno. La pioggia batteva sul vetro a bassa emissione con violenza. Le nuvole nere avevano oscurato il sole, ma l’illuminazione della stanza era affidata a un sistema automatico che, tramite intelligenza artificiale, regolava la quantità di luce di ogni ambiente in base a parametri esterni all’ospedale.

    Nel freddo chiarore delle lampade autoregolate, l’anziano uomo sdraiato sul letto appariva ancora più pallido di quanto non fosse. Erik Ružička, ai suoi tempi, era stato un colosso di quasi due metri, dalla grande stazza e con una massa muscolare invidiabile. L’infarto, il terzo della sua vita, il secondo degli ultimi due anni, l’aveva ridotto a poco più che uno spaventapasseri pallido con una vestaglia da ricovero che gli svolazzava addosso. Della folta chioma corvina che un tempo gli ricopriva il capo restava qualche spettinato ciuffo grigio.

    Vedere il padre ridotto a quel modo avrebbe stretto il cuore di qualsiasi figlia e così fu per Helena, anche se, sotto la superficie della compassione, ribolliva un’acredine sepolta. Certe ostilità non si possono dimenticare, soprattutto quando i tuoi principi etici sono in netto contrasto con quelli di chi hai di fronte, anche se fa parte della tua famiglia.

    Helena, che si era curata di asciugarsi con cura capelli e vestiti prima di visitare il padre, fissò quella specie di fantasma con un nodo alla gola. Nella sua mente si affollavano i se , i forse e tutti i tipi di pensiero controfattuale. Se solo suo padre non avesse espresso tanta disapprovazione per le sue scelte. Se solo le cose fossero andate diversamente. Se solo Natasha, sua sorella maggiore, fosse stata più sensibile e meno schiava del Dio Denaro. Se, se, se.

    A proposito di Natasha, ancora non era arrivata. Helena era sola col padre, l’uomo che le aveva permesso di diventare ciò che era e che, allo stesso tempo, aveva cercato di dissuaderla con ogni mezzo. Eccolo là, Erik Ružička, cinico sfruttatore dei futures, machiavellici strumenti finanziari, l’uomo dei mercati, il Re della Borsa, l’imperatore delle speculazioni, uno dai vampiri che si era arricchito nel 2008, con la crisi del mercato immobiliare americano, per poi ripetersi nel 2022, con la crisi economico-finanziaria successiva alla guerra; un uomo che aveva guardato senza batter ciglio intere generazioni finire sul lastrico in tutto il mondo. Eccolo là, così debole e intontito da non essersi accorto della presenza della figlia.

    Helena si avvicinò al padre. Erik, con gli occhi chiusi e in stato di semi-coscienza, non reagì. Il petto si alzava e abbassava regolare, mosso da tenui respiri. Sul braccio destro, dove qualche anno prima vi sarebbe stato l’ago di una flebo, vi era un minuscolo cerotto cutaneo bianco che ricordava vagamente una toppa, come se un sarto gli avesse rammendato la pelle. Era ben altro che un semplice cerotto, naturalmente. Helena non si intendeva di medicina e conosceva poco quel nuovo sistema, ma ricordava un articolo di giornale di qualche anno prima che titolava: Rivoluzione medica: nuovo sistema per la somministrazione di terapie cellulari attraverso la pelle .

    Vedendo il padre così, quasi più morto che vivo, Helena cercò di mettere da parte il rancore. Il risentimento accumulato in trent’anni di vita si attenuò, almeno per il momento.

    «Papà», chiamò.

    Le palpebre di Erik tremarono. L’uomo un tempo terribile, ridotto a poco più di uno spettro di sé stesso, aprì gli occhi azzurri. L’espressione in quelle iridi chiare stupì Helena. Era passato molto tempo da quando aveva incontrato il padre l’ultima volta, ma non ricordava di averlo mai visto così in tutta la vita. C’era qualcosa di diverso negli occhi di Erik Ružička. Non erano più freddi come Helena ricordava, ma umidi, ardenti di gratitudine per essere ancora tra i vivi.

    Erik trovò la forza di raddrizzarsi sul letto e, con il cuscino ben sistemato dietro la schiena, sedette dritto. Gli occhi di padre e figlia si incrociarono ed Helena, che si aspettava di veder serpeggiare tensione elettrica nell’aria, ebbe una sorpresa. Non avrebbe saputo spiegare perché, ma suo padre le sembrava strano. Più umano, in un certo senso, come se avesse ritrovato una perduta luce interiore.

    Fu Helena a rompere il silenzio per prima. «Il dottor Raymond ha detto che sei entrato in sala operatoria morto e ne sei uscito vivo. Ha detto che, prima dell’operazione, la probabilità che ti salvassi era quasi inesistente.»

    «È la verità», rispose Erik, e si indicò il lato sinistro del petto. «Porterò con me un souvenir di questi giorni. Potrò dire: vi ricordate di quando sono morto? »

    Sul petto di Erik non si vedeva nulla, ma Helena immaginò che i medici gli avessero installato sottopelle un moderno pacemaker, senza tasca sottocutanea, senza catetere e meno ingombrante rispetto ai modelli di dieci o quindici anni prima.

    Erik guardò la porta come se aspettasse l’arrivo di qualcuno. «Sai dov’è Natasha?»

    «Non l’ho sentita», rispose Helena. «Sono venuta per conto mio.»

    Il vecchio miliardario chiuse gli occhi, come se parlare con la figlia per quei pochi minuti l’avesse stancato da morire. «Spero che arrivi presto, perché ho molte cose da dire a entrambe. Non vorrei essere costretto a ripetere il discorso due volte.»

    Helena si fece contrariata. Non le andava per niente di vedere la sorella. «A dire il vero, pensavo di andare.»

    Erik riaprì gli occhi e li piantò su di lei. Helena trasalì: non aveva mai visto suo padre così. Sembrava spaventato all’idea che lei lo lasciasse lì, su quel letto d’ospedale.

    «Vorrei che rimanessi, per favore», la pregò Erik.

    Helena rimase di sasso. Erik Ružička che chiedeva qualcosa per favore era un evento più unico che raro. Quando mai gliel’aveva sentito dire?

    Le sorprese aumentarono, perché Erik continuò: «So di non essere stato un buon padre, ma non voglio finire i miei giorni sentendomi odiato dalle persone a cui tengo di più al mondo. Ho avuto molto tempo per riflettere, di recente, e ho una certa idea che mi frulla in testa. Ascoltala, prima di andartene. Se poi vorrai lasciarmi lo stesso, lo accetterò.»

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