Racconti scelti
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Racconti scelti - Cesare Pavese
Racconti scelti
Viaggio di nozze
I
Ora che, a suon di lividi e di rimorsi, ho compreso quanto sia stolto rifiutare la realtà per le fantasticherie e pretendere di ricevere quando non si ha nulla da offrire; ora, Cilia è morta. Penso talvolta che, rassegnato alla fatica e all’umiltà come adesso vivo, saprei con gioia adattarmi a quel tempo, se tornasse. O forse questa è un’altra delle mie fantasie: ho maltrattato Cilia, quand’ero giovane e nulla doveva inasprirmi, la maltratterei ora per l’amarezza e il disagio della triste coscienza. Per esempio, non mi sono ancora chiarito in tutti questi anni, se le volessi davvero bene. Ora certamente la rimpiango e ritrovo in fondo ai miei piú raccolti pensieri; non passa giorno che non rifrughi dolorosamente nei miei ricordi di quei due anni; e mi disprezzo di averla lasciata morire, soffrendo piú sulla mia solitudine che sulla sua giovinezza; ma – quello che conta – le ho voluto davvero bene, allora? Non certo quel bene sereno e cosciente, che si deve a una moglie.
In verità, le dovevo troppe cose, e non sapevo ricambiarla che con un cieco sospettare i suoi motivi. Ed è fortuna che la mia innata leggerezza non sapesse sprofondarsi nemmeno in quest’acquaccia, contentandomi io allora di un’istintiva diffidenza e rifiutando corpo e peso a certi pensieri sordidi, che, accolti in fondo all’anima, me l’avrebbero avvelenata del tutto. Comunque, mi chiedevo qualche volta: «E perché Cilia mi ha sposato?» Non so se fosse la coscienza di un mio valore riposto, o di una profonda inettitudine, a propormi la domanda: fatto sta che almanaccavo.
Che Cilia mi avesse sposato, e non io lei, non c’era dubbio. Quelle sere di abbattimento trascorse in sua compagnia a passeggiare senza pace ogni strada, stringendola al braccio, fingendo disinvoltura, proponendo per scherzo di saltare insieme nel fiume – io non davo a questi pensieri molto peso, perché c’ero abituato, – la stravolsero e la intenerirono, tanto che mi volle offrire, dal suo stipendio di commessa, una sommetta per sostenermi nella ricerca di un miglior lavoro. Io non volli i denari, ma le dissi che trovarmi con lei alla sera, se anche non si andava in nessun posto, mi bastava. Fu cosí che scivolammo. Cominciò a dirmi con molta dolcezza che a me mancava una compagnia degna, con cui vivere. E che giravo troppo per le strade e che una moglie innamorata avrebbe saputo aggiustarmi una casetta tale che, solo a entrarci, sarei tornato gaio, non importa quanto stanco o disgustato mi avesse ridotto la giornata. Tentai di rispondere che nemmeno da solo riuscivo troppo a tirare avanti; ma sentivo io stesso che non era questo un argomento. – In due ci si aiuta, – disse Cilia, – e si risparmia. Basta volersi un po’ di bene, Giorgio –. Io ero stanco e avvilito, in quelle sere, Cilia era cara e seria, col bel soprabito fatto dalle sue mani e la borsetta screpolata: perché non darle quella gioia? Quale donna piú adatta per me? Conosceva il lavoro, conosceva le privazioni, era orfana d’operai; non le mancava uno spirito pronto e grave – piú del mio, ne ero certo. Le dissi divertito che se mi accettava cosí brusco e scioperato com’ero, la sposavo. Ero contento, sollevato dal calore della buona azione e dal coraggio che mi scoprivo. Dissi a Cilia: – T’insegnerò il francese –. Lei mi rispose ridendo negli occhi umili e aggrappandosi al mio braccio.
II
Aquei tempi mi credevo sincero e misi ancora in guardia Cilia dalla mia povertà. L’avvertii che guadagnavo appena da finire le giornate e non sapevo ciò che fosse uno stipendio. Quel collegio dove insegnavo il francese mi pagava a ore. Un giorno le dissi che, se intendeva farsi una posizione, doveva cercare un altro. Cilia imbronciata mi offrí di continuare a far la commessa. – Sai bene che non voglio, – borbottai. Cosí disposti, ci sposammo.
La mia vita non mutò sensibilmente. Già nel passato Cilia era venuta certe sere a star con me nella mia stanza. L’amore non fu una novità. Prendemmo due camere ingombre di mobilio; quella da letto aveva una chiara finestra, dove accostammo il tavolino coi miei libri.
Cilia sí, divenne un’altra. Avevo temuto, per mio conto, che una volta sposata le desse fuori una volgare sciatteria che immaginavo essere stata di sua madre, e invece la trovai piú attenta e fine anche di me. Sempre ravviata, sempre in ordine; persino la povera tavola, che mi preparava in cucina, aveva la cordialità e la cura di quelle mani e di quel sorriso. Il suo sorriso, appunto, s’era trasfigurato. Non era piú quello, fra timido e malizioso, della commessa che fa una scappata, ma il trepidante affiorare di un’intima contentezza, pacato e sollecito insieme, serio sulla magra giovinezza del viso. Io provavo un’ombra di risentimento a quel segno di una gioia che non sempre dividevo. «Lei mi ha sposato e se la gode» pensavo.
Solo al mattino risvegliandomi, il mio cuore era sereno. Volgevo il capo accanto al suo, nel tepore, e mi accostavo a lei distesa, che dormiva o che fingeva, e le soffiavo nei capelli. Cilia, ridendo insonnolita, mi abbracciava. Un tempo invece i miei risvegli solitari mi gelavano e lasciavano avvilito a fissare il barlume dell’alba.
Cilia mi amava. Una volta in piedi, per lei cominciava un’altra gioia: muoversi, apparecchiare, spalancare finestre, guardarmi di sottecchi. Se mi mettevo al tavolino, mi girava intorno cauta per non disturbare; se stavo per uscire, mi seguiva con lo sguardo fino all’uscio. Ai miei ritorni, saltava in piedi