Andy Warhol: Inchiesta sul re della Pop Art
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Anteprima del libro
Andy Warhol - Enrico Pitzianti
Prefazione di Francesco D’Isa
Quando sono in libreria e noto la biografia di una celebrità del mondo dell’arte tendo a ignorarla immediatamente. Non lo faccio per snobismo o disinteresse, ma a causa di una fondata statistica interiorizzata – ovvero un pregiudizio. Ed eccomi a scrivere di Andy Warhol. Inchiesta sul re della Pop Art.
Per chi ama l’arte il lavoro di Warhol è di estremo interesse, tanto che, assieme a Duchamp, si potrebbe sostenere che precorra ed esaurisca le principali idee dell’arte visiva dal Novecento a oggi. Ciononostante avrei ignorato il libro di cui scrivo la prefazione, e non mi sarei neanche avventurato ad aprirlo, figurarsi a comprarlo. Con queste premesse, e considerato che mi state leggendo, vi devo una spiegazione: sappiate anzitutto che il motivo per cui sarei stato prevenuto nei confronti di quel che avete in mano è che di prodotti su un artista celebre come Warhol ce ne sono a centinaia, per non dire a migliaia. È un artista non solo saccheggiato dai colleghi – com’è giusto che sia – ma anche e soprattutto dall’industria della carta stampata, che ha inondato il mercato di monografie, poster, cartoline, gadget, coffee table books e quant’altro. In questa enorme mole di prodotti ce ne sono di altissima qualità e interesse, intendiamoci, ma la statistica rema comunque contro.
Penserete di conseguenza che l’unica spiegazione ragionevole è che stia scrivendo queste righe perché mi hanno pagato, o per fare un favore a un autore che stimo. Sbagliato. Sebbene abbia il piacere di conoscere e stimare Enrico Pitzianti, con cui collaboro da anni alla rivista di arte e cultura «L’Indiscreto», quando mi ha detto che stava lavorando a una biografia di Andy Warhol la prima cosa che ho pensato (e non gli ho detto) è stato «oh, merda». Non riuscivo davvero a immaginare come avrebbe potuto scrivere su un artista così iconico senza risultare sentito e risentito – ma ecco, dopo la lettura, l’ho capito e posso spiegarlo.
Pitzianti, va detto, ha fatto un piccolo miracolo, ma per ottenerlo non sarebbe bastata la sua ricerca meticolosa né il suo indubbio talento come studioso dei movimenti artistici contemporanei. Non lo avrebbe salvato neanche la scrittura fluida, forte dell’esercizio su numerose testate di giornalismo culturale, o la sua formazione da semiologo, che male non fa di certo. A soccorrerlo è stata piuttosto la passione per il giornalismo e la contemporaneità – motivo per cui il titolo reca il termine inchiesta
.
La biografia che avete tra le mani, infatti, non parla solo di Andy Warhol, ma intreccia la sua vita, arte e poetica con un’impressionante quantità di temi di attualità storica e culturale. L’opera e la biografia di Wahrol diventano così uno strumento per capire e analizzare non solo l’arte contemporanea, ma anche l’immigrazione, il femminismo, il capitalismo, il socialismo, i gender studies, il populismo, la musica, il jet set, la religione… insomma, un’intera epoca (la nostra) e il suo zeitgeist. Il tutto senza annoiare chi legge, cosa se possibile ancor più sorprendente.
In aggiunta all’originalità con cui viene affrontato il tema, o forse proprio per via dell’inusuale percorso con cui lo ha approcciato, Pitzianti riesce a cogliere e rendere molto bene la poetica del padre della Pop Art (e di molte altre art
) e lo dimostra ad esempio quando scrive:
È qui che sta l’intuizione definitiva, una delle più importanti di tutta la vita artistica di Andy Warhol: la cultura, le icone e i loghi, quindi anche le immagini e tutto ciò che ci circonda, l’alto e il basso, il sacro e il profano, fanno parte dello stesso enorme, caotico e indeterminato minestrone simbolico. Le gerarchie che pensiamo esistano sono in realtà di cartapesta, l’unica cosa che differenzia ciò che ci rende emotivi da ciò che invece ci fa ragionare è la distinzione tra singolarità e pluralità, tra un elemento che si presenta come unico e una lista. Il resto degli oggetti e delle immagini che ci circondano è un unico girone dantesco, quello iconografico.
O ancora,
È questa, in soldoni, l’essenza della filosofia pop: le gerarchie del passato sono da buttare via, il mondo è un unico ammasso di elementi e significati che di fatto sono interdipendenti. Mao c’entra con la Coca Cola, la simbologia comunista (per contrapposizione) con quella più sfacciatamente consumista, il volto di Lenin con quello di Elvis, un barattolo di zuppa con le opere d’arte, i volti dei divi con quelli dei santi.
Tutto c’entra con tutto: un olismo interpretativo che è anche lo stile della ricerca che vi apprestate a leggere, perché ogni aspetto di Andy Warhol, dalla famiglia d’origine ai suoi primi lavori, il rapporto con le donne, i colleghi, gli uomini, il mercato, la fama, gli oggetti… sono i fili che intessono una rete di informazioni ed eventi che più che spiegare Andy Warhol sono Andy Warhol.
Prima parlavo del successo commerciale non solo delle opere, ma anche dei gadget ispirati al lavoro dell’artista americano; una risposta per questa popolarità potrebbe risiedere nel fatto che a uno sguardo superficiale le opere di Warhol piacciano anche per la loro apparente leggerezza, che ben si sposa con la fama – anch’essa parziale – di artista capriccioso, ricco e frivolo che si era costruito attorno. Ma Andy Warhol non si esaurisce nella sua semplificazione – anche nominale, da Andrew Warhola – perché se c’è stato un autore che ha dimostrato che fare arte è un gesto profondamente politico è stato proprio lui.
E se c’è un libro che lo spiega bene, è quello che hai in mano.
Premessa. Fiori nati da traumi
Perché scrivo questo libro? Lo so, lo so, la storia di Andy Warhol è già stata raccontata, certo che lo so. E qui, al posto di questa frase che state per leggere, vi aspettate delle parole che giustifichino il mio gesto di farlo di nuovo. Qualcosa che, tra le righe, dica all’incirca: «Ciao, sono Enrico, e questo libro era proprio necessario». Be’, ci provo. Seguitemi un attimo.
Questo libro è frutto di due cose: la mia passione esagerata (che fatico a spiegare persino a me stesso, meglio ammetterlo sin da subito) per l’opera di Andy Warhol e la convinzione che nella sua storia, quella di un solo uomo, un uomo che è stato carne e ossa, amori e ansie, proprio come ognuno di noi, ecco, in questa storia ci siano moltissimi dei temi che segnano il nostro presente. E intendo il nostro
in senso collettivo, di noi tutti. Non solo di chi ama il mondo dell’arte, non solo di chi ha visto un’opera o una mostra di Warhol, non solo di noi occidentali, ma proprio di tutti. Maschi e femmine, etero e omosessuali, estroversi e timidi, cittadini e provinciali, europei e americani, asiatici e africani. Insomma, tutti per davvero. E con presente
non intendo una generica e vaga contemporaneità
, semmai il nostro 2020 e i tempi che verranno a partire dal 2021 in poi.
Dicevo, lo so che la storia è già stata raccontata. Ma le storie hanno molte facce e in alcuni casi sono così tante, e così sfaccettate, che persino oggi è possibile trovarne una con un’anima inedita. E questo vale persino per quella di uno dei più celebri e influenti artisti di sempre.
Tornando un attimo al fatto che vi dicevo prima, che Andy Warhol è importante per la vita di milioni, forse miliardi, di noi. Lo so bene che messa in questo modo può sembrare un’esagerazione ma invece, vi giuro, è il contrario: un’affermazione persino troppo cauta. I temi che hanno attraversato, segnandola nel profondo, la vita di Andy Warhol sono tali che sembra quasi di vedere messi in fila tutti i nostri dibattiti politici, economici e sociali degli ultimi anni. Ve ne dico solo alcuni: il femminismo, il tema delle responsabilità personali degli artisti e dello scindere tra opera d’arte e chi l’ha prodotta, il dramma delle migrazioni e l’eredità culturale dei migranti di seconda generazione, il problema dell’integrazione e del suo inverso, la ghettizzazione. Continuo? Ok: il problema della moralità dei divi e dei personaggi dello spettacolo, i rapporti culturali e gli scambi tra Europa e Stati Uniti, l’importanza centrale del non sottovalutare il disordine mentale e l’ascesa dell’ansia all’Olimpo delle emozioni contemporanee. Poi la violenza, il problema del bullismo e delle armi da fuoco negli Stati Uniti. E potrei procedere ancora per pagine intere.
Non posso dirvi troppo, qui in queste prime pagine – non basterebbe lo spazio, per farlo devo per forza andare avanti e accompagnarvi lungo le prossime –, ma qualcosa sì: sono convinto, e lo dico sinceramente, che la vicenda di Andy Warhol sia per qualche strano motivo una specie di prisma storico: non appena la illumini vedi i raggi delle ultime decadi riflettere in ogni direzione, vedi spacchettata la luce, divisi e limpidi i colori e i drammi, delineati i dubbi e i quesiti su cos’è stata la nostra storia recente. E, ultimo aspetto ma non per importanza, a illuminare questa vita così assurda e significativa, si ottiene uno spettacolo stupendo.
So anche che oggi Andy Warhol è senza dubbio uno degli artisti più discussi e apprezzati di tutto l’universo dell’arte contemporanea. Uno degli esempi che rende meglio l’idea della potenza del suo personaggio è la vendita di Eight Elvises, l’opera che raffigura otto figure sovrapposte di Elvis Presley. Il dipinto è stato venduto nel 2008, dal collezionista italiano Annibale Berlingieri, per 100 milioni di dollari. Una cifra record. Dell’affare se ne occupò Philippe Ségalot, un broker che lavora proprio a New York, una delle città di Andy. La vendita fu tenuta in gran segreto, ma l’anno dopo, nel 2009, il settimanale «Economist» diede la notizia dell’affare. Poi, avvicinandoci al presente, nel 2013 la sua ultima serigrafia lasciata nelle mani di un privato andò all’asta da Sotheby’s. A contendersela acquirenti al telefono da chissà dove, e il prezzo finale superò persino quello di Eight Elvises, arrivando a 105 milioni di dollari. Altro record.
Solo le opere di cinque altri artisti contemporanei hanno raggiunto prezzi simili: quelle di Pablo Picasso, Mark Rothko, Jackson Pollock, Francis Bacon e Willem De Kooning. E già questo dato basterebbe per afferrare la fama di Andy Warhol, ma si potrebbe ribattere che le vendite di questo tipo sono anche frutto di casualità e fluttuazioni del mercato dell’arte, no? Allora facciamo un piccolo esperimento, e guardiamo a quale dei nomi presenti nella lista è più famoso: solo Picasso può contendersi il primo posto sul podio con Warhol.
1. Una serigrafia raffigurante Elvis.
Ma attenzione, questa dei soldi e del successo è una storia di superficie. È quella che conosciamo già, che si racconta sempre quando si parla di Andy Warhol. In questo libro la mia idea è di fare il contrario: partire da ciò che sappiamo per arrivare a ciò che invece, di Warhol, non si sa perché non si dice mai.
Se avrete la pazienza di accompagnarmi partiremo da questi soldi e dall’enorme successo di Andy Warhol per arrivare a cosa c’è dietro
, come direbbero i complottisti, cioè quali aspetti sconosciuti, quali ideologie, quali condizioni materiali ed economiche, quale contesto storico e culturale e quali idee hanno portato l’opera e la vita di questo artista a essere quelle che sono state. Perché nonostante i riconoscimenti del mercato, che non si fecero attendere, nonostante la fama che lo rese un’icona, un divo alla pari di quelli che ritraeva sulle tele, nonostante un successo così dirompente da aver dato vita a un nuovo movimento artistico, la Pop Art, ecco, nonostante tutto ciò, la vita di Andy Warhol fu traumatica e tormentata. Un’esistenza breve, dominata da ombre, ferite e non detti. La gloria monumentale che lo rese uno degli artisti più amati e riconosciuti al mondo poggiava, e lo fa tutt’ora, su pilastri incrostati, sporchi e dimenticati. Quella figura ormai mitica è come se posasse per noi con alle sue spalle uno step and repeat fatto di aspetti tetri di cui sappiamo poco: sofferenze infantili, spaesamento, solitudine e violenza. Insomma, esperienze tutt’altro che scintillanti e invidiabili.
Non è il solito discorso, ormai luogo comune, sintetizzato dai versi di De André, che dal letame – e non dai diamanti – nascono i fiori: ovvietà del giardinaggio. Nel caso di Andy Warhol il punto è che i fiori sono nati dai traumi, il che è tutt’altro che ovvio. È fantascienza.
Andy Warhol è ancora oggi la personificazione del pop, del glamour e della New York scintillante degli anni Settanta e Ottanta. Forse è normale: il successo, nelle vite in cui decide di palesarsi come una benedizione, tende a fagocitare tutto il resto, a inglobarlo. Ma per Andy il successo e la fama furono solo metà della storia, o persino meno. Ciò che di essa rimane celato è molto diverso dal Warhol re Mida del pop
che conosciamo.
E, come vi dicevo poco fa, se riusciamo a farci spazio tra le opere, il successo e i fiumi di soldi, nella vita di Andy Warhol troviamo molti dei temi più spinosi del nostro presente: l’ideale del sogno americano, le armi, le gelosie aspirazionali, l’ossessione di apparire e sì, anche le sofferenze e i drammi delle migrazioni. I genitori di Warhol, infatti, erano migranti. E lui crebbe in un quartiere di migranti, in una casa di migranti, in un ambiente culturale, religioso e linguistico tipico di chi ha fatto migliaia di chilometri per migliorare la propria vita.
Ed è a un lontanissimo paesino della Slovacchia che bisogna tornare per capire davvero chi era il re della Pop Art. Da qui parte questo libro sull’Andy Warhol che non conosciamo: dall’andare dove questa storia è cominciata, in un fazzoletto di terra fredda e boscosa nell’estremo nord della Slovacchia, tra le campagne che segnano il confine con la Polonia e l’Ucraina.
Parte prima
L’inizio di tutto
Miková
Ogni vita è solo un pezzetto di una storia più grande. Vale per tutti: se la vita è una retta noi siamo segmenti. Difficile ammetterlo in questo periodo storico che (lo dico senza voler fare paternalismo) è di grande individualismo, ma se è vero che abbiamo un inizio e una fine, è vero anche che entrambe, in larga parte, sono determinate da ciò che c’era sia prima sia durante il nostro tempo. E questo determinismo vale anche per questa storia, quella di uno dei giganti dell’arte a stelle e strisce. Per questo motivo non comincia al primo disegno o alla prima mostra del giovane Andy ma, al contrario di quello che si potrebbe immaginare, lontano dalla New York degli eccessi e delle mostre, a migliaia di chilometri sia dalla Grande Mela del jet set che dalla città natale dell’artista, Pittsburgh. Questa storia, piaccia o meno, inizia a Miková.
Una fila di case sparpagliate lungo i bordi di una strada stretta e tortuosa, con ai lati prati e campi coltivati arrampicati sui colli, spazi aperti che al nostro occhio sembrerebbero quelli del Centro Italia. Ma qui siamo ai piedi dei Carpazi, nell’angolino di Slovacchia che confina con la Polonia e a pochi chilometri di distanza va a incastrarsi con l’Ucraina. Quando Júlia e Andrej (o Ondrej, molte fonti usano questo nome per il padre di Andy Warhol) vivevano qui, il paesello aveva meno di cinquecento abitanti e si chiamava Mikó. Al tempo faceva parte dell’Impero austroungarico e la Slovacchia ancora non esisteva.
Sembra uno scenario lontanissimo, sia nel tempo che nello spazio, ma non lo è: Miková è più vicina a Milano di quanto non lo sia Palermo. All’inizio del Novecento, ancora il secolo in cui la maggior parte di noi sono nati e cresciuti, Júlia era già una ragazza e Andrej, nato nel 1886, un uomo fatto e finito. E Miková, nonostante sia la radice di una storia di fama e successo, oggi è ancora lì, ancora un luogo a margine, una cittadina periferica e povera. Qui il tempo è passato lento, come fa l’acqua sotto i ponti quando piove poco, e la storia continua a non essere gentile con il posto in cui Andrej e Júlia si sono conosciuti, corteggiati e poi sposati in un matrimonio combinato per il quale, si dice, lei pianse a lungo. Questo pezzo di mondo che un tempo era provinciale e dimenticato all’estremo est dell’Impero, oggi è altrettanto dimenticato e provinciale all’estremo est di un altro impero, l’Europa. Il tempo sarà pure passato, ma alcune cose sono rimaste simili.
Júlia una volta – quando era già famosa, di riflesso, per via del figlio – disse che lì i teschi dei soldati morti durante la Prima guerra mondiale spuntavano tra il fango e l’erba dei campi come fossero grandi funghi bianchi
. Da quella confidenza con la morte e la povertà, da quella consapevolezza di appartenere alla marginalità, nasceva la spinta a partire verso gli Stati Uniti. Andrej emigrò già nel 1905, e probabilmente trovò lavoro come minatore. Anche molti dei parenti di Júlia emigrarono, l’appartenenza alle famiglie più abbienti (sarebbe più corretto dire meno povere
) del paese non faceva differenza, perché essere agiati è un concetto relativo. Avere un po’ di terra e una dozzina di pecore non era una rassicurazione sufficiente per crescere lì i propri figli. Poi Andrej tornò a Miková, ma quella sarebbe stata l’ultima volta.
Andy parlò delle sue origini spesso in modo vago e disinteressato, perché è intuibile che per l’artista creare una patina di mistero e ambiguità su di sé conveniva (come conviene oggi, beninteso), ma anche perché le sue radici implicavano una storia difficile, che lì, negli Stati Uniti, in pochi avrebbero capito e saputo interpretare. Una vicenda famigliare che fu un lungo intreccio di fatica, miseria ed enormi quantità di incertezza: tutte cose che, al contrario dell’enigmaticità, non avrebbero fatto bene alla sua immagine.
«Mi sento cento per cento americano», affermò una volta Andy. Ma successe anche che all’artista scapparono toni orgogliosi nel descrivere il passato operaio e umile di suo padre che, prima minatore, fu poi uno delle migliaia di ucraini e slovacchi a faticare come manovale alla Carnegie Steel di Pittsburgh, una grande industria metallurgica che al tempo occupava schiere di altri migranti come lui. D’altronde l’industria dell’acciaio veniva considerata l’occupazione perfetta per gli uomini arrivati negli Stati Uniti dall’Europa dell’est. Lo stereotipo dell’epoca li voleva persone grezze ma miti, laboriose e con il carattere duro e quadrato come lo erano le spalle di Andrej.
E i giovani maschi, si sa, si misurano innanzitutto coi padri. Andy, che di suo padre aveva non solo il cognome, ma anche lo stesso nome, si trovò a paragonare se stesso con una figura paterna forte, operaia e votata al sacrificio, con un temperamento e uno stile di vita all’apparenza opposti ai suoi, fatti di emotività e brama di successo, ma a conti fatti molto più simili di quanto potremmo immaginare.
I figli gracili e sensibili, perché questo era Andy, trovano nelle spalle dei propri padri operai un esempio non tanto del come apparire fisicamente, semmai di come resistere al tempo e alla sventura. Di come tenere duro e faticare ciecamente per il raggiungimento di un fine che, nel tempo che passa per avvicinarcisi, rende le notti insonni. Per Andrej quell’obiettivo era sfamare la famiglia, perché chi è stato povero la miseria non la dimentica certo al primo stipendio, per Andy, invece, era spingere questo sentimento di rivalsa ancora più in là: non solo il benessere, ma il successo.
Nella storia di un luogo che era povero, e in buona parte lo è ancora, però, il punto centrale non è la ricchezza, ma l’identità. Oggi è Slovacchia, al tempo di Andrej e Júlia era Impero austroungarico, in mezzo è stato Cecoslovacchia. Questo fu il nome, traballante e sovranazionale, di questo pezzo d’Europa durante la vita di Andy. A Mikó, in quelle campagne umide e silenziose, durante la prima delle guerre mondiali si erano uccisi tra