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The Dead - I Morti: Versione bilingue
The Dead - I Morti: Versione bilingue
The Dead - I Morti: Versione bilingue
E-book147 pagine2 ore

The Dead - I Morti: Versione bilingue

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Info su questo ebook

Una nuova traduzione e reinterpretazione di uno dei racconti più celebri della letteratura anglosassone. Versione bilingue italiano-inglese con ricche note di chiusura che consentono al lettore di immergersi nell’atmosfera dublinese dei primi del novecento, rivivendo le emozioni del ballo annuale a casa delle signorine Morkan e assistendo ai mutevoli sentimenti che regolano il rapporto tra i coniugi Conroy e scandiscono i tempi narrativi del racconto.
Con un’accurata analisi vengono ripercorse alcune tematiche joyciane che preludono alle sue opere più complesse.
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2022
ISBN9791221358803
The Dead - I Morti: Versione bilingue
Autore

James Joyce

James Joyce was born in Dublin in 1882. He came from a reasonably wealthy family which, predominantly because of the recklessness of Joyce's father John, was soon plunged into financial hardship. The young Joyce attended Clongowes College, Belvedere College and, eventually, University College, Dublin. In 1904 he met Nora Barnacle, and eloped with her to Croatia. From this point until the end of his life, Joyce lived as an exile, moving from Trieste to Rome, and then to Zurich and Paris. His major works are Dubliners (1914), A Portrait of the Artist as a Young Man (1916), Ulysses (1922) and Finnegan's Wake (1939). He died in 1941, by which time he had come to be regarded as one of the greatest novelists the world ever produced.

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    The Dead - I Morti - James Joyce

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    Prefazione

    I morti (The Dead) è l’ultimo racconto di Gente di Dublino (Dubliners) ed è stato portato a termine a settembre del 1907.

    È un racconto lungo che esula dallo schema narrativo del libro che è rigorosamente diviso in quattro parti relative a infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica. Joyce ha voluto con ciò completare il quadro rappresentativo della città e dei suoi abitanti e sopperire ad alcune mancanze.

    Benché sia stato concepito a Roma, dove Joyce aveva trovato un lavoro in banca che però non era adatto a lui, The Dead è stato scritto a Trieste dopo la breve parentesi romana.

    In seguito alle pesanti critiche dell’editore londinese Grant Richards e il conseguente rifiuto di pubblicare il libro, Joyce decide di aggiungere un nuovo racconto alla sua raccolta. Si rende conto di essere stato troppo severo nei confronti della patria e vorrebbe in parte rimediare esaltando quelle doti di grande ospitalità che non hanno uguali nel resto d’Europa. Il ballo annuale a casa delle signorine Morkan sembra l’epitome perfetta di tale prerogativa nazionale: l’accoglienza familiare, il clima di festa, la dovizia della cena e l’affabilità di certi personaggi sono resi magnificamente dall’autore. La danza con entusiasmanti quadriglie e la tavola imbandita con un’eccellente oca arrosto e un sontuoso pudding, senza dimenticare un accompagnamento musicale degno delle migliori tradizioni, contribuiscono a creare un’atmosfera spensierata che affascina e coinvolge il lettore: Era sempre un grande evento, il ballo annuale a casa delle signorine Morkan.

    Dopo tante traversie editoriali, Dubliners verrà pubblicato soltanto a giugno del 1914 da Grant Richards, lo stesso editore che molti anni prima lo aveva rifiutato. Sarà il primo passo verso Ulysses che come sappiamo è nato sulla spinta di un altro racconto che doveva avere come protagonista un certo Hunter, ebreo di Dublino con molte caratteristiche tipiche di Bloom.

    L’azione del racconto si svolge presumibilmente in una serata durante le feste natalizie tra Capodanno e l’Epifania dell’anno 1904. Difatti, durante la cena si discute delle allora recenti sollecitudini di Papa Pio X nel Motu Proprio sulla musica sacra che risale a novembre del 1903.

    Il titolo e una prima tematica sono stati ispirati dal componimento O, Ye Dead! (O, voi Morti!) delle Irish Melodies di Thomas Moore: sono i morti che vorrebbero tornare alla vita per assaporarne i piaceri ancora una volta, prima di essere confinati al gelo tra le nevi del vulcano Hecla (in Islanda). Il pezzo gli fu suggerito dal fratello Stanislaus e colpì subito la sua immaginazione.

    Il protagonista del racconto, Gabriel Conroy, deve il suo nome all’omonimo romanzo di Bret Harte, il cui incipit è tra l’altro Neve. Dappertutto….

    Per i suoi personaggi Joyce attinge a piene mani dalla sua vita privata e familiare.

    Gabriel è un doppione di se stesso, come altri protagonisti dei suoi romanzi, ne ha i tratti fisici, la pettinatura e gli occhiali con la montatura dorata. È un insegnante e scrive recensioni letterarie per il Daily Express. È scettico nei confronti di un nazionalismo mal ostentato, non si esprime in lingua irlandese e preferisce l’estero al suo paese.

    La figura di Gretta si ispira alla moglie Nora Barnacle. Anche se Joyce non ne fornisce un ritratto preciso, ha la stessa capigliatura rosso castana e una certa sensibilità emotiva. Entrambe le donne condividono un passato sentimentale con un altro uomo. Come il Michael Furey del racconto, nella vita di Nora c’è stato un ragazzo di nome Michael Bodkin che, innamorato pazzo, ha cantato per lei sotto la pioggia ed è morto in giovane età. Si dice che a Nora piacesse Joyce proprio perché assomigliava a quel giovane e ciò rendeva il nostro autore estremamente geloso.

    Le zie Morkan corrispondono in realtà alle prozie Callanan e Lyons che abitavano proprio al n. 15 di Usher’s Island e davano lezioni di musica nella Scuola delle signorine Flynn. Mary Jane prende il posto della cugina Mary Ellen Callanan.

    Nel periodo natalizio le vere zie organizzavano delle feste a cui partecipava tutta la famiglia Joyce, esclusi i più piccoli che rimanevano a casa accuditi dalla governante. Il discorso di prammatica veniva tenuto dal padre John Joyce, la cui eloquenza è ben imitata all’interno del racconto.

    Altri personaggi sono estrapolati dalla vita reale come d’altronde avviene in tutti i racconti di Dubliners.

    Musica e neve sono gli ingredienti di base e insieme al canto e ai rumori della festa scandiscono i ritmi della narrazione. La musica si tramuta in rappresentazione plastica nella mente di Gabriel quando dal basso, come farebbe un pittore, osserva la moglie in cima alle scale, rapita dall’ascolto di una vecchia e triste canzone.

    I morti con il loro pesante fardello di memorie del passato affiorano nel presente e agiscono sullo stato delle cose, con una forza misteriosa condizionano la vita degli esseri viventi. Al termine del racconto tutto apparirà trasformato.

    Al cuore della vicenda c’è la vecchia canzone The Lass of Aughrim che, per quanto mal eseguita da Bartell D’Arcy, un tenore dalla voce roca, tanto basta per scatenare il rimpianto nell’animo di Gretta. La cantava Michael Furey, un ragazzo innamorato di lei quando viveva con la nonna a Galway. Malato di tisi, pur di vederla un’ultima volta prima che lei partisse per Dublino, l’aveva raggiunta sotto la pioggia, aggravandosi e morendo dopo alcuni giorni: quel ragazzo aveva sacrificato la vita per lei.

    Gabriel è profondamente deluso. Sognava di rivivere gli attimi segreti del passato, di ritrovarsi appartato con la moglie, di godersi quell’intimità preclusa dalla routine quotidiana, tra figli e relazioni sociali. Scopre invece un’estranea nella donna al suo fianco. Si sente perduto, non può competere con un giovane che ha sacrificato la vita per amore. Può soltanto ridimensionarsi moralmente e intellettualmente ed è la sua autostima a soffrirne di più: Vedeva se stesso come una figura ridicola, a far da garzone alle zie, un inquieto sentimentale dalle buone intenzioni, che declamava al volgo e idealizzava le sue lussurie da buffone….

    Eppure, anche se la sua è un’esperienza dolorosa, anche se la donna che ama ha un passato che non lo riguarda direttamente, Gabriel condivide le emozioni di Gretta, prova quello che prova lei. Tra loro si realizza un connubio profondo che viene sancito da una breve ma intensa affermazione: Non aveva mai provato qualcosa di simile verso una donna ma sapeva che quel sentimento doveva essere amore.

    La mestizia, che è peraltro forte e sembra travolgere il lettore, non è fine a se stessa ma è propedeutica, persino risolutiva. Attraverso di essa Gabriel riesce a comprendere (come in un’epifania) la natura completa del suo amore. Nel rivivere i ricordi del passato, l’empatia che prova nei confronti della moglie e degli altri è catartica.

    La paralisi introdotta all’inizio della raccolta (nel racconto The Sisters) si completa con una fine altrettanto metaforica. Sono i morti che ritornano e condizionano il presente e, visti con gli occhi del protagonista, prendono corpo e coscienza, assurgono a epifanica rivelazione.

    La fine è simbolicamente la conclusione di un mondo e perciò va intesa, a mio modesto avviso, sotto l’aspetto propositivo di ricorso al nuovo che verrà. Il viaggio da compiere verso occidente non è un viaggio di morte: per Gabriel sarà una svolta nella vita, per Joyce un salto verso nuove forme espressive. È la conclusione stessa di Dubliners come è ovvio che sia e come merita di essere grazie alla maestria narrativa del suo autore. In questo caso, non è il raggiungimento di un limite ma il suo superamento.

    Dubliners ci proietta direttamente in Ulysses e, di conseguenza, nella logica, assoluta, universale, improrogabile mutazione di Finnegans Wake: ogni nuovo lavoro di Joyce affonda le radici nelle opere precedenti.

    La tecnica delle epifanie, intese come improvvise rivelazioni che scaturiscono da eventi inaspettati, verrà ripresa brillantemente in Wandering Rocks di Ulysses, attraverso la frammentazione in diversi brani, al pari dei racconti di Dubliners, che nella loro spietata analisi rappresentano un realistico spaccato dell’umanità dublinese.

    La neve cade su tutti i vivi e i morti, ma non annichilisce come si potrebbe pensare, offusca la memoria ma al contempo acqueta, lenisce. I vivi e i morti sono le figure che scaturiscono dai pensieri e dalle emozioni di Gabriel.

    Anche qui come accadrà a Bloom in Ithaca, il protagonista si addormenta sopraffatto dagli eventi e dai ricordi.

    La traduzione

    Tim Parks nel suo saggio Translating Style (Tradurre l’Inglese) compie un’analisi attenta e severa dell’ultima parte del racconto: quando Gretta e Gabriel si trovano nella camera del Gresham Hotel; Gretta si addormenta e Gabriel si abbandona agli ultimi ripensamenti prima di svanire nel sonno a sua volta. Uno di quei finali che, come scrive Massimo Bacigalupo nel suo studio I finali di Joyce, costituiscono il momento culminante del racconto, quello di massima intensità emotiva.

    Benché Tim Parks si riferisca a una versione italiana del racconto che è a suo dire la più diffusa, cercherò di considerare e interpretare le sue osservazioni che mi daranno l’opportunità di riflettere sulla mia traduzione.

    Parks è piuttosto categorico: soprattutto nel finale del racconto, è impossibile per qualsiasi traduzione ottenere l’effetto poetico ed evocativo dell’originale.

    Secondo lui (ritengo abbastanza giustamente) ci si dovrebbe domandare come avrebbe scritto Joyce se l’avesse fatto in italiano. Ammesso che si riesca nell’impresa, ciò equivale a dire che, in taluni casi, solo stravolgendo il testo si riuscirebbe a mantenere lo spirito, le sensazioni e gli effetti dell’originale. È quello che Joyce ha mostrato sapientemente nella versione italiana di Anna Livia Plurabelle traducendo se stesso con un’ampia rivisitazione linguistica.

    Il traduttore, continua Parks, dovrà accontentarsi di piccoli successi parziali legati a brani o singole frasi in cui le scelte traduttive sono particolarmente felici.

    È sicuramente impossibile replicare il ritmo e la sonorità dell’originale quando in casi come questo Joyce fa scientemente largo uso di monosillabi con una fitta successione di accenti tonici che sono abbastanza naturali nella lingua inglese ma non in italiano. Anche certe allitterazioni o assonanze che sono caratteristiche dell’esercizio poetico sono difficili da rispettare.

    È perciò che i giochi tra avverbio e verbo (softly/faintly falling e falling softly/faintly), che Parks ci assicura abbiano impronta poetica, nelle versioni italiane non trovano riscontro o sono sostanzialmente ridimensionate dal momento che risuonerebbero come inutili ridondanze.

    Parks così conclude: sebbene la traduzione sia eccellente, l’italiano è leggermente meno piacevole e meno coinvolgente. In ogni caso egli registra una leggera perdita di lirismo.

    Con tali premesse temo che nessuna traduzione possa eludere un giudizio limitativo.

    Parks sembra ancorato a tematiche peraltro ben consolidate e che hanno radici, ad esempio, nell’estetica crociana:

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