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I capolavori
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E-book1.214 pagine18 ore

I capolavori

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Info su questo ebook

• La luna e i falò • La casa in collina • La spiaggia • Dialoghi con Leucò • Il compagno • La bella estate • Il diavolo sulle colline • Tra donne sole • Lavorare stanca • Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Prefazione di Paolo Di Paolo

Edizioni integrali

È stato senza ombra di dubbio uno dei più grandi autori del Novecento italiano, Cesare Pavese, animatore della vita culturale del Paese non solo come narratore e poeta ma anche come traduttore e redattore della casa editrice Einaudi, capace di raccontare i tormenti e le contraddizioni tra antico e moderno del secondo dopoguerra, lo spaesamento di una generazione che aveva attraversato il fascismo, la Resistenza e la Liberazione senza venire a capo dei propri drammi intimi e sociali. Vale oggi decisamente la pena ripercorrere le tappe di uno scrittore che fu protagonista del suo tempo pur essendo naturalmente schivo e riservato, attraverso i suoi capolavori: a partire dai romanzi La spiaggia (1942), Il compagno (1947) e La casa in collina (1948) e dal trittico con il quale vinse lo Strega, La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole; fino a quello che è forse il suo più amato, La luna e i falò (1949), e in cui è condensato il tema dell’impossibilità del ritorno alle radici; senza tralasciare la ripresa e rielaborazione del mito nei Dialoghi con Leucò (1947) e le due raccolte poetiche maggiori, Lavorare stanca (1936) e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (uscita postuma nel 1951), in cui è rifiutato il ricorso al metro tradizionale in favore di una confidenziale e originale commistione con il ritmo e le cadenze della prosa.
Cesare Pavese
nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese delle Langhe cuneesi. A Torino si laureò in letteratura americana con una tesi sulla poetica di Whitman. Visse l’esperienza del confino sotto il regime fascista, quindi l’occupazione tedesca e la guerra di liberazione. Intellettuale dalle profonde inquietudini esistenziali, scrittore, poeta e traduttore, fu una delle colonne portanti della casa editrice Einaudi. Morì suicida a Torino nell’agosto del 1950, nello stesso anno in cui aveva vinto il Premio Strega con La bella estate. Furono pubblicati postumi i suoi diari, sotto il titolo Il mestiere di vivere.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788822753359
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    Anteprima del libro

    I capolavori - Cesare Pavese

    Accettare la vita

    Bisognerebbe provare a entrare nei suoi libri dimenticando, o fingendo di dimenticare, il finale di partita. La «cappa di piombo» che si è addensata, dopo il suicidio, sulla sua figura. Riavvolgere il nastro dall’inizio senza subire l’ombra del gesto conclusivo. E ritrovare la sua infanzia sofferta, da orfano di padre; l’adolescenza consumata in fretta – Cesare Pavese, il ragazzo langarolo approdato a Torino, che studia, studia, studia. A diciassette anni è certo di avere posto l’ideale della sua vita nella poesia e – quasi dovesse già fare un bilancio – sente che «l’unico appoggio che mi resta al mondo è la speranza che io valga, o varrò, qualcosa colla penna».

    Si tratta di una vocazione inflessibile, assorbe interamente gli anni della giovinezza – non fosse che per qualcuno degli amori difficili di cui sarà costellata la sua vita. Legge gli americani, si laurea su Walt Whitman, traduce Moby Dick per mille lire, scopre Lee Masters e l’Antologia di Spoon River. Intanto scrive: versi che raccontano il paesaggio dell’infanzia – la collina, le colline, centrali nella sua opera come nel suo orizzonte visivo. Sembrano detti a voce, sussurrati, sono canzoni di strada, senza musica. Racconti in cui si va a capo. Storie di gente nata in campagna, come lui, e approdata in città, stordita da troppe promesse.

    Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera

    e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.

    La città la vorrebbe su quelle colline,

    luminosa, segreta, e non muoversi piú.

    Nei versi di Lavorare stanca (1936) Pavese ricorda, evoca il paesaggio delle origini; trascrive frasi rubate a chi beve in un’osteria, sotto un pergolato; saccheggia – come lui stesso dice – «la mia esperienza fin dal giorno in cui apersi gli occhi». E anche se gli pare di avere esaurito la vena, scrivendo in poesia, riproduce nel passaggio alla prosa lo stesso movimento dei versi: andare e venire fra città e collina, assecondare il desiderio di fuga e l’improvvisa urgenza di tornare.

    Dice Doro, un personaggio di La spiaggia (1942), al suo amico: «Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie». Gli è venuta voglia di fare un giro nelle sue colline, lasciando la moglie al mare. «Sono qui per bere un po’ del mio vino e cantare una volta con chi so io. Mi prendo uno svago e basta». L’amico sa che non è vero, che c’è di più, che ha risposto a qualcosa come a un richiamo, a una sete, ma lo tiene per sé, resta in silenzio.

    Quando Anguilla, l’io narrante di La luna e i falò (1950), pronuncia la frase, quasi proverbiale, «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», trova l’epigrafe involontaria per l’intera opera di Pavese, divisa fra racconto rusticano e bohème borghese, con al fondo la stessa ansia, o smania, adolescente di mettere alla prova la propria innocenza.

    Penso a una scena del romanzo breve La bella estate (1949): quando la ragazza Ginia si accorge di non essere più la stessa. Ha fatto l’amore con Guido; lui poi se n’è andato. «Scese la scala, sbalordita, e stavolta era convinta di non essere più lei e che tutti se ne accorgessero». Passa davanti alle vetrine, si specchia, sente di essere un’altra «da quell’immagine molle che passava come un’ombra».

    Nelle pagine forse più belle che siano state scritte su Pavese, Natalia Ginzburg scrive: «Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così». Racconta che era, qualche volta, molto triste: «Ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo […]. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande». Conclude così: «Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana».

    Il nome di Pavese non viene pronunciato mai, nel ricordo di Natalia Ginzburg. Tornano però, alla fine, i suoi versi – quando alla scrittrice tocca rammentare una poesia in cui l’amico, anni prima di uccidersi, aveva forse immaginato la sua morte. «Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. / Basterà la finestra a vestire ogni cosa / D’un chiarore tranquillo, quasi una luce».

    Ritratto d’un amico – questo il titolo – vale molte pagine critiche, vale un’introduzione a Pavese. O almeno un manuale di istruzioni all’umore di Pavese, uomo e scrittore. C’è, nel testo di Ginzburg, l’intenzione di rintracciare nei gesti, nel tono della voce, nel modo in cui qualcuno – un amico, uno scrittore – ci appare, le ragioni e i segreti della sua opera. E c’è un cercarlo nei luoghi, come per un atto di restituzione, o per un incontro ulteriore: «Andammo, poco tempo dopo la sua morte, in collina. C’erano osterie sulla strada, con pergolati d’uva rosseggiante, giochi di bocce, cataste di biciclette; c’erano cascinali con grappoli di pannocchie, l’erba falciata stesa ad asciugare sui sacchi: il paesaggio, al margine della città e sul limitare dell’autunno, che lui amava. Guardammo, sulle sponde erbose e sui campi arati, salire la notte di settembre».

    Il paesaggio che finisce per somigliargli. Un paesaggio di fine estate, di festa o di fiera conclusa. Nella cenere dei falò c’è ancora vivo il fuoco dell’estate, ma come sopito.

    Leggere Pavese oggi significa anche misurare la distanza che ci separa da lui. Nato nel 1908 e morto nell’agosto del 1950, Pavese pare confinato (e in qualche modo auto-confinato) in quella prima metà di secolo: l’aria dei luoghi, il paesaggio, perfino i gesti, nei suoi libri, sono legati a un’Italia diversa, a un’altra Italia. E forse davvero non c’è nessuna, tra le sue opere, che non ci faccia avvertire – a volte con uno strappo – il nostro venire, essere dopo.

    Spesso sbrigativamente ridotta a una serie di formule manualistiche o giornalistiche («specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi», diceva ironicamente di sé), l’opera di Pavese racconta un mondo di cui non sappiamo quasi più niente: sta scritto, come rughe, sulle mani dei nonni, dei bisnonni, dei trisavoli, di chi ha avuto il destino stretto tra due guerre mondiali. E ha conosciuto, nelle fatiche della terra, un calendario diverso. Così si legge in una pagina di La luna e i falò:

    Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, e ogni stagione aveva la sua usanza e il suo gioco, secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno. L’inverno si rientrava in cucina con gli zoccoli pesanti di terra, le mani scorticate e la spalla rotta dall’aratro, ma poi, voltate quelle stoppie, era finita, e cadeva la neve. Si passavano tante ore a mangiar le castagne, a vegliare, a girar le stalle, che sembrava fosse sempre domenica. Mi ricordo l’ultimo lavoro dell’inverno e il primo dopo la merla – quei mucchi neri, bagnati, di foglie e di meligacce che accendevamo e che fumavamo nei campi e sapevano già di notte e di veglia, o promettevano per l’indomani il bel tempo.

    L’amarezza, la durezza della vita della campagna. Il suo fascino, la sua povertà, la sua violenza. La città come una promessa ambigua. La cascine da un lato, le mansarde dei pittori dall’altro. Il rapporto fra verginità e corruzione, fra purezza e maturità.

    I personaggi di Pavese non fanno che ripetere, ciascuno a suo modo, un percorso di iniziazione alla vita adulta, «un’educazione e una scoperta», fra un paesaggio e l’altro, o piantati a metà strada, nell’impossibilità di scegliere, di decidersi. C’è sempre un’incertezza, un’esitazione: anche di fronte agli impegni più radicali, o alla pressione degli eventi storici, come accade in romanzi come Il compagno o La casa in collina. C’è sempre l’idea che diventare adulti richieda un pedaggio emotivo doloroso, una profonda delusione. Si può tornare indietro? La risposta sembrano darla in coro le voci mitiche radunate nei Dialoghi con Leucò (1947). Ed è negativa:

    ACHILLE

    […] Lo sapranno i ragazzi che crescono adesso, che cosa li attende?

    PATROCLO

    Non ci si pensa, da ragazzi.

    ACHILLE

    Ci sono giorni che dovranno ancora nascere e noi non vedremo.

    PATROCLO

    Non ne abbiamo già veduti molti?

    ACHILLE

    No, Patroclo, non molti. Verrà il giorno che saremo cadaveri. Che avremo tappata la bocca con un pugno di terra. E nemmeno sapremo quel che abbiamo veduto.

    PATROCLO

    Non serve pensarci.

    ACHILLE

    Non si può non pensarci. Da ragazzi si è come immortali, si guarda e si ride. Non si sa quello che costa. Non si sa la fatica e il rimpianto. Si combatte per gioco e ci si butta a terra morti. Poi si ride e si torna a giocare.

    Forse per questo si coglie sempre un particolare struggimento nell’uso che Pavese fa, nei suoi romanzi, del tempo imperfetto. Perfino negli incipit, fra i più belli che la letteratura italiana del Novecento abbia prodotto: «Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai» (Il diavolo sulle colline); «Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra» (Il compagno); «Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere» (La casa in collina); «A quei tempi era sempre festa» (La bella estate). È l’imperfetto di chi sente di avere perso qualcosa di prezioso: dietro di sé, nell’infanzia (quando «la fantasia ci giunse come realtà»), nella vita da ragazzi; e davanti a sé, in un presente-futuro senza lusinghe, in cui resterebbe da conquistare, la realtà quotidiana; «ma», come scriveva Natalia Ginzburg, «questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme, sete e ribrezzo; e così non poteva che guardarla come da sconfinate lontananze».

    Sono la sete e il ribrezzo con cui va incontro al mondo Clelia, l’io narrante del romanzo Tra donne sole, che Pavese pubblica nel 1949 insieme a Il diavolo sulle colline e a La bella estate. Clelia è alla fine della giovinezza, vive sola. Letto il libro, un Italo Calvino appena ventiseienne, si permette di prendere in giro l’amico più grande: «E la cosa che scombussola di più», scrive per lettera a Pavese, «è quella donna-cavallo pelosa, con la voce cavernosa e l’alito che sa di pipa, che parla in prima persona e fin da principio si capisce che sei tu con la parrucca e i seni finti che dici: Ecco, una donna sul serio dovrebb’esser così».

    L’incipit, anche in questo caso, è bellissimo: «Arrivai a Torino sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone» – l’aria cruda le morde le gambe, allora pensa alla primavera «nella penombra dei portici». Pavese aveva molto a cuore Tra donne sole: lo pensava come il «gran romanzo» della scoperta di sé, e del fondo tragico e vano del mondo cittadino.

    Rileggendo anni dopo quel libro su cui si era trovato a scherzare, Calvino conclude che in Clelia, nella sua fierezza amara, c’è tutto Pavese, e che perciò risulta «il personaggio più bello d’uno scrittore che non credeva nei personaggi». Ma com’è, per uno scrittore uomo, sondare il segreto delle cose attraverso un corpo femminile? Com’è, insomma, questo Pavese-Clelia?

    Donna dai gesti bruschi, le frasi corte, che tagliano (a volte si pente di averle pronunciate), sacrifica sé stessa a un’idea concreta, laboriosa dell’esistenza («la smania di far da sola, di bastarmi»). Frequenta ragazze più giovani e più lievi, che – a lei pare – si buttano via. Pratica il loro mondo ma con un senso di ripulsa. Sembra pronta a distogliere lo sguardo da ciò che dell’esistenza si rivela più sporco, brutale, però continua a seguire tutto con la coda dell’occhio. Sentenzia: «Sporco può essere tutto, è questione d’intenderci, ma allora anche sognare di notte, anche andare in automobile… Ieri la Nene vomitava»; «La vita è lunga. Il mondo non l’hanno fatto gli innamorati. Ogni mattino è un altro giorno». Clelia non si scopre, resta un passo indietro. Osserva le altre – Mariella, Momina – che si lasciano andare, si avventurano, si abbandonano, sanno la verità («è la vita che è sporca») ma non si sottraggono. Poi magari piangono. Oppure, come Rosetta, si uccidono: «Nel salone arioso, sotto il grande lampadario, sembrava un ricevimento, e si chiedevano come può darsi che chi come Rosetta ha tanto bisogno di vivere, voglia morire. Qualcuno diceva che il suicidio andrebbe proibito». Aveva già tentato di avvelenarsi. Non per amore, dice Momina: «Lei fa la vita che ho fatto io, che fanno tutte… Sappiamo bene cos’è il cazzo […] Fa succedere dei grossi guai. Sarebbe meglio se non ci fosse. Può darsi. Ma a me mancherebbe. A te no? Figùrati. Tutti carini e dignitosi, tutti per bene. Più nessuno sarebbe costretto a uscire dalla sua tana, a mostrarsi com’è, brutto e porco com’è. Come faresti a conoscere gli uomini?».

    Le donne che non sono Clelia hanno coraggio di spogliarsi, di stare nude anche dopo avere scoperto che la vita non è nuda, che invece è disonesta, sleale: per quel segreto torbido, «morboso» che da sempre cova, di cui fa avvertire il peso senza mai svelarne la natura. Il disgusto, o la rabbia, derivano dalla coscienza di quel peso, che pure non riesce a privare il corpo di vitalità, di slancio. Le donne che non sono Clelia corrono, hanno paura però restano, sopportano. Sanno che «i maschi non sono cattivi ma scemi».

    Le donne che non sono come Clelia sono forse quelle di cui Pavese si innamora. Le descrive sempre mosso da uno strano turbamento, che non è soltanto erotico. C’è sì la carica sensuale («la bocca ch’era tutta una voglia e i capelli negli occhi»), ma c’è pure lo strazio: di qualcosa che in fondo si teme, perché inafferrabile, oscuro.

    «Guido», si legge nella Bella estate, «diceva della collina che voleva fare, e che aveva in mente di trattarla come una donna distesa con le poppe al sole, e darle il fluido e il sapore che sanno le donne».

    Al nono capitolo di Tra donne sole, Momina domanda a Clelia se desidera avere figli. «Chi fa figli», disse fissando il bicchiere, «accetta la vita. Tu l’accetti la vita?». «Se uno vive l’accetta, no? I figli non cambiano la questione». Clelia qui stranamente non sentenzia, e per una volta attende conferma: se uno vive l’accetta, no?

    Ma è una domanda che risuona a vuoto. Dolente, definitiva.

    P

    AOLO

    D

    I

    P

    AOLO

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1908 Cesare Pavese nasce il 9 settembre a Santo Stefano Belbo, paesino delle Langhe torinesi dove il padre aveva un podere.

    1914 Morte del padre e trasferimento della famiglia a Torino.

    1915-29 Il trasferimento a Torino, la prematura morte del padre e le conseguenti chiusura e freddezza della madre avranno una grande influenza sulla formazione di Cesare. Frequenta elementari, ginnasio e liceo; si iscrive a Lettere e filosofia, è un grande appassionato di letteratura, sia classica che moderna, in particolare di quelle inglese e americana. I suoi amici sono Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Giulio Einaudi.

    1930 Si laurea con una tesi su Walt Whitman, ma non potrà fare l’assistente all’Università come avrebbe desiderato. Comincia a lavorare come supplente e traduttore, scrive poesie; la Bemporad di Firenze pubblica la traduzione di Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis.

    1931 Comincia a tradurre Moby Dick per la casa editrice Treves-Treccani-Tumminelli e a pubblicare su «Cultura» suoi saggi su scrittori americani.

    1932 Esce, con un nuovo editore, Frassinelli, Moby Dick; per Frassinelli esce anche la traduzione di Riso nero di Sherwood Anderson.

    1933-34 Giulio Einaudi fonda la sua casa editrice; Frassinelli pubblica la traduzione di Dedalus di Joyce; Leone Ginzburg, direttore di «Cultura», è arrestato dai fascisti per attività sovversiva, Pavese lo sostituisce; la Mondadori pubblica la traduzione di Il 42° parallelo di Dos Passos.

    1935 Tutta la redazione è arrestata e incarcerata nelle Carceri Nuove di Torino; a giugno Pavese è trasferito a Regina Coeli a Roma e a luglio è condannato al confino per tre anni a Brancaleone Calabro, sullo Jonio.

    1936 Presso le Edizioni di Solaria di Firenze sono pubblicate le sue poesie con il titolo Lavorare stanca. A marzo ottiene il condono del confino e torna a Torino, dove passa un periodo di profonda crisi a causa dell’abbandono della fidanzata.

    1937 Riesce a sollevarsi da uno stato di profonda depressione grazie al lavoro per Einaudi. Traduce anche per Mondadori e Bompiani. Scrive le «Poesie del disamore».

    1938 Assunto stabilmente da Einaudi, svolge una mole di lavoro considerevole: oltre alle traduzioni, si deve occupare anche di revisioni ed editing di inediti. Lo considerano infaticabile, ma nonostante il carico di lavoro, scrive diversi racconti. Escono le traduzioni di Un mucchio di quattrini di Dos Passos, Uomini e topi di Steinbeck, Autobiografia di Alice Toklas di Gertrude Stein, Fortune e speranze della famosa Moll Flanders di Defoe.

    1939 Termina il romanzo Memoria di due stagioni (che uscirà nel 1948 con il titolo Il carcere in Prima che il gallo canti) e scrive Paesi tuoi. Sono pubblicate le traduzioni di David Copperfield di Dickens e La formazione dell’unità europea dal secolo

    V

    al secolo

    XI

    di Christopher Dawson.

    1940-41 Scrive il romanzo La tenda e il romanzo breve La spiaggia, che viene pubblicato a puntate su «Lettere d’oggi». Con l’uscita di Paesi tuoi è acclamato grande narratore. Sono pubblicate le traduzioni di La rivoluzione inglese del 1688-89, di George Macaulay Trevelyan, Benito Cereno di Melville, Tre esistenze di Gertrude Stein, Il cavallo di Troia di Christopher Morley.

    1942-45 Aumenta sempre di più l’impegno di Pavese per la Einaudi. Nel 1943 si trasferisce a Roma alla filiale della casa editrice. L’8 settembre la Einaudi è commissariata. Pavese va prima a Serralunga di Crea e poi a Trevisio, vicino a Casale Monferrato, dove insegna, sotto il nome di Carlo de Ambrogio, dai padri Somaschi, fino al 25 aprile 1945. Dopo la Liberazione riprende il lavoro della Einaudi a Torino. Ad agosto si trasferisce alla filiale di Roma. In inverno comincia la stesura di Dialoghi con Leucò. Esce la traduzione di Il borgo di William Faulkner.

    1946 A Roma dà vita a nuove iniziative e collane (tra cui quella di etnologia con Ernesto De Martino). Ad agosto rientra a Torino, a novembre è dato alle stampe Feria d’agosto.

    1947 Pubblica Dialoghi con Leucò e Il compagno; scrive l’introduzione a La linea d’ombra di Conrad; esce la traduzione di Capitano Smith di Robert Henriques.

    1948 Nasce la Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici che dirige insieme con De Martino; scrive Il diavolo sulle colline.

    1949 Scrive il romanzo breve Tra donne sole. In autunno scrive La luna e i falò; a novembre è pubblicato La bella estate, composto da La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole.

    1950 Esce La luna e i falò e a giugno La bella estate si aggiudica il premio Strega. A Torino, nell’albergo Roma, la notte del 26 agosto Pavese si suicida ingerendo sonniferi.

    LE OPERE

    Narrativa

    Notte di festa, raccolta postuma di racconti, Einaudi, Torino 1953.

    Il carcere, Einaudi, Torino 1949 (nel volume, comprendente anche La casa in collina, dal titolo Prima che il gallo canti).

    Paesi tuoi, Einaudi, Torino 1941.

    La bella estate, Einaudi, Torino 1949 (nel volume anche Il diavolo sulle colline e Tra donne sole).

    La spiaggia, nella rivista «Lettere d’oggi», Roma 1941, n. 7. Poi in volume, Lettere d’oggi, Roma 1941; nuova edizione postuma, Einaudi, Torino 1956.

    Feria d’agosto, Einaudi, Torino 1946.

    Racconti (frammenti di racconti e racconti inediti), raccolta postuma, Einaudi, Torino 1960.

    Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1947.

    Fuoco grande (scritto a capitoli alterni in collaborazione con Bianca Garufi), incompiuto, pubblicato postumo, Einaudi, Torino 1959.

    Il compagno, Torino 1947.

    La casa in collina, Einaudi, Torino 1949 (in Prima che il gallo canti).

    Il diavolo sulle colline, Einaudi, Torino 1949 (in La bella estate).

    Tra donne sole, Einaudi, Torino 1949 (in La bella estate).

    La luna e i falò, Einaudi, Torino 1950.

    Ciau Masino, Einaudi, Torino 1968 (edizione fuori commercio, nello stesso 1968 in Racconti, Einaudi, Torino (opere di Cesare Pavese, vol.

    XIII

    tomo

    I

    )).

    Poesia

    Poesie giovanili, a cura di Attilio Dughera e Mariarosa Masoero, Einaudi, Torino 1989 (edizione fuori commercio).

    Lavorare stanca, Solaria, Firenze 1936; ed. ampliata con le poesie dal 1936 al 1940, Einaudi, Torino 1943.

    La terra e la morte (9 poesie) nella rivista «Le tre Venezie», Padova 1947, n. 4-5-6; nuova edizione postuma, in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino 1951; in Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1962.

    Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, pubblicate postume insieme a La terra e la morte, Einaudi, Torino 1951; in Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1962.

    Poesie edite e inedite (comprende Lavorare stanca, La terra e la morte, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, più 29 poesie inedite), pubblicato postumo, Einaudi, Torino 1962.

    Otto poesie inedite e quattro lettere a un’amica (1928-1929), Scheiwiller, Milano 1964, postumo.

    Epistolari, diari, saggi

    Il diavolo sulle colline - Gioventù crudele (due soggetti cinematografici), in «Cinema nuovo», settembre-ottobre 1959.

    La letteratura americana e altri saggi, saggi e articoli 1930-1950, Einaudi, Torino 1951.

    Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1956, postumo.

    Lettere 1945-1950, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1966, postumo.

    Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, pubblicato postumo, Einaudi, Torino 1952. Nuova edizione condotta sull’autografo a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, ibid. 1990.

    Vita attraverso le lettere, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1966.

    Dodici giorni al mare, a cura di Mariarosa Masoero, Galata edizioni, Genova 2008.

    Officina Einaudi - Lettere editoriali 1940-1950, a cura di Silvia Savioli, Einaudi, Torino 2008.

    Traduzioni

    S. LEWIS

    , Il nostro signor Wrenn, Bemporad, Firenze 1930.

    H. MELVILLE

    , Moby Dick o la balena, Frassinelli, Torino 1932.

    S. ANDERSON

    , Riso nero, Frassinelli, Torino 1932.

    J. JOYCE

    , Dedalus, Frassinelli, Torino 1933.

    J. DOS PASSOS

    , Il 42º parallelo, Mondadori, Milano 1934.

    J. DOS PASSOS

    , Un mucchio di quattrini, Mondadori, Milano 1938.

    J. STEINBECK

    , Uomini e topi, Bompiani, Milano 1938.

    G. STEIN

    , Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi, Torino 1938.

    D. DEFOE

    , Fortune e speranze della famosa Moll Flanders, Torino, Einaudi 1938.

    C. DICKENS

    , David Copperfield, Einaudi, Torino 1939.

    C. DAWSON

    , La formazione dell’unità europea dal secolo

    V

    al secolo

    XI

    , Einaudi, Torino 1939.

    G. MACAULAY TREVELYAN

    , La rivoluzione inglese del 1688-89, Einaudi, Torino 1940.

    H. MELVILLE

    , Benito Cereno, Einaudi, Torino 1940.

    G. STEIN

    , Tre esistenze, Einaudi, Torino 1940.

    C. MORLEY

    , Il cavallo di Troia, Bompiani, Milano 1941.

    W. FAULKNER

    , Il borgo, Mondadori, Milano 1942.

    R. HENRIQUES

    , Capitano Smith, Einaudi, Torino 1947.

    BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA

    P. PANCRAZI

    , in Scrittori d’oggi, serie

    IV

    , Laterza, Bari 1946; poi in Ragguagli di Parnaso, vol.

    III

    , Ricciardi, Milano-Napoli 1967.

    A. SANTORI

    , Quei loro incontri... I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, Ancona 1990.

    I. CALVINO

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    , Racconto e canto nella metrica di Pavese;

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    , Sulla poesia di Pavese;

    C. GRASSI

    , Osservazioni su lingua e dialetto nell’opera di Pavese;

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    , Tre riscontri nel mestiere di tradurre;

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    , Il lessico, ovvero la questione della lingua in Cesare Pavese;

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    , Cesare Pavese, Il mito e la scienza del mito;

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    , Orfeo senza Euridice: i Dialoghi con Leucò e il classicismo di Pavese;

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    , Il laboratorio di Pavese;

    G. BÀRBERI SQUAROTTI

    , Pavese o la fuga dalla metafora;

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    , Delphes sur les collines;

    J. HOSLE

    , I miti dell’infanzia.

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    La spiaggia

    (1942)

    I

    .

    Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce piú a che cosa devono servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai in casa sua e facemmo la pace. Mi riuscí molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch’era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano.

    Diverse volte in quell’anno capitai a Genova e sempre andavo a trovarli. Di rado erano soli, e Doro con la sua disinvoltura pareva benissimo trapiantato nell’ambiente della moglie. O dovrei dire piuttosto ch’era l’ambiente della moglie che aveva riconosciuto in lui il suo uomo e Doro li lasciava fare, noncurante e innamorato. Di tanto in tanto prendevano il treno, lui e Clelia, e facevano un viaggio, una specie di viaggio di nozze intermittente, che durò quasi un anno. Ma avevano il buon gusto di accennarne appena. Io, che conoscevo Doro, ero lieto di questo silenzio, ma anche invidioso: Doro è di quelli che la felicità rende taciturni, e a ritrovarlo sempre pacato e intento a Clelia, capivo quanto doveva godersi la nuova vita. Fu anzi Clelia che, quand’ebbe con me un po’ di confidenza, mi disse, un giorno che Doro ci lasciò soli: – Oh sí, è contento, – e mi fissò con un sorriso furtivo e incontenibile.

    Avevano una villetta in Riviera e sovente il viaggetto lo facevano là. Era quella la villa dove avrei dovuto esser ospite. Ma in quella prima estate il lavoro mi portò altrove, e poi devo dire che provavo un certo imbarazzo all’idea d’intrudermi nella loro intimità. D’altra parte, vederli, come sempre li vedevo, nella loro cerchia genovese, passare trafelato di chiacchiera in chiacchiera, subire il giro delle loro serate per me indifferenti, e fare in sostanza tutto un viaggio per scambiare un’occhiata con lui o due parole con Clelia, non valeva troppo la pena. Cominciai a diradare le mie scappate, e divenni scrittore di lettere – biglietti d’auguri e qualche cicalata ogni tanto, che sostituivano alla meglio la mia antica consuetudine con Doro. A volte era Clelia che mi rispondeva – una rapida calligrafia snodata e amabili notizie scelte con intelligenza fra la cangiante congerie dei pensieri e dei fatti di un’altra vita e di un altro mondo. Ma avevo l’impressione che fosse proprio Doro che, svogliato, lasciava a Clelia quell’incarico, e mi dispiacque e, senza nemmeno provare grandi vampe di gelosia, mi staccai da loro dell’altro. Nello spazio di un anno scrissi forse ancora tre volte, ed ebbi un inverno una visita fugace di Doro che per un giorno non mi lasciò un’ora sola e mi parlò dei suoi affari – veniva per questo – ma anche delle vecchie cose che c’interessavano entrambi. Mi parve piú espansivo di una volta e ciò, dopo tanto distacco, era logico. Mi rinnovò l’invito a passare una vacanza con loro nella villa. Gli dissi che accettavo, a patto però di vivere per conto mio in un albergo e trovarmi con loro soltanto quando ne avessimo voglia. – Va bene, – disse Doro, ridendo. – Fa’ come vuoi. Non vogliamo mangiarti –. Poi per quasi un altr’anno non ebbi notizie e, venuta la stagione del mare, per caso mi trovai libero e senza una mèta. Toccò allora a me scrivere se mi volevano. Mi rispose un telegramma di Doro: «Non muoverti. Vengo io».

    II

    .

    Quando l’ebbi davanti estivo e abbronzato che quasi non lo conoscevo, l’ansia mi si mutò in dispetto. – Non è il modo di trattare, – gli dissi. Lui rideva. – Hai litigato con Clelia? – Macché.

    – Ho da fare, – diceva. – Tienimi compagnia.

    Passeggiammo tutta la mattinata, discorrendo persino di politica. Doro faceva discorsi strani, diverse volte gli dissi di non alzare la voce: aveva un piglio aggressivo e sardonico che da tempo non gli avevo piú veduto. Provai a chiedergli dei fatti suoi con l’intenzione di tornare su Clelia, ma lui subito si mise a ridere e disse: – Lasciami stare la bottega. Ce ne infischiamo, mi pare –. Allora camminammo un altro poco in silenzio, e io cominciai ad aver fame e gli chiesi se accettava qualcosa.

    – Tanto vale se ci sediamo, – mi disse. – Tu hai da fare?

    – Dovevo partire per venire da voi.

    – Allora puoi tenermi compagnia.

    E si sedette per primo. Sotto l’abbronzatura girava a volte intorno gli occhi bianchi, irrequieti come quelli di un cane. Adesso che l’avevo di fronte me ne accorsi, come pure che pareva sardonico in gran parte soltanto per il contrasto dei denti con la faccia. Ma lui non mi lasciò il tempo di parlarne e disse subito:

    – Quanto tempo che non siamo insieme.

    Volli vedere fin dove arrivava. Ero seccato. Anzi accesi la pipa per fargli capire che avevo il tempo dalla mia. Doro tirò fuori le sue sigarette dorate, e ne accese una e mi soffiò in faccia la boccata. Tacqui, aspettando.

    Ma fu soltanto col buio che si lasciò andare. A mezzodí mangiammo insieme in trattoria, affogando nel sudore; poi ritornammo a passeggiare, e lui entrò in diversi negozi per darmi a intendere che aveva da fare commissioni. Verso sera prendemmo la vecchia strada della collina che tante volte in passato avevamo percorso insieme, e finimmo in una saletta tra di casa d’appuntamenti e di trattoria che da studenti c’era parsa il non-plus-ultra del vizio. Facemmo la passeggiata sotto una fresca luna estiva che ci rimise un poco dall’afa del giorno.

    – Sono in campagna quei tuoi parenti? – chiesi a Doro.

    – Sí, ma a trovarli non vado lo stesso. Voglio star solo.

    Questo da Doro era un complimento. Decisi di far la pace con lui.

    – Scusa, – gli dissi piano. – Al mare ci potrò venire?

    – Quando vuoi, – disse Doro. – Ma prima fammi compagnia. Voglio scappare ai miei paesi.

    Di questo discorremmo cenando. Ci serviva, squallida e maltruccata, una figlia del padrone, forse la stessa che in passato ci aveva tante volte attirato lassú, ma vidi che Doro non badò a lei né alle sorelle piú giovani che comparivano di tanto in tanto a servire certe coppie negli angoli. Doro beveva, questo sí, con molto gusto e incitava me a bere e s’infervorava a parlare delle sue colline.

    Ci pensava da un pezzo, mi disse; erano – quanto? – tre anni che non le rivedeva, voleva prendersi una vacanza. Io ascoltavo, e quel discorso accendeva me pure. Anni e anni prima che lui si sposasse, avevamo fatto, a piedi e col sacco, il giro di tutta la regione, noi soli, spensierati e pronti a tutto, tra le cascine, sotto le ville, lungo i torrenti, dormendo a volte nei fienili. E i discorsi che avevamo tenuto – a pensarci arrossivo, o mi struggevo quasi incredulo. Avevamo allora l’età che si ascolta parlare l’amico come se parlassimo noi, che si vive a due quella vita in comune che ancor oggi io, che sono scapolo, credo riescano a vivere certe coppie di sposi.

    – Ma perché non fai la gita con Clelia? – dissi senza malizia.

    – Clelia non può, non ne ha voglia, – balbettò Doro, staccando il bicchiere. – Voglio farla con te –. Questa frase la disse con forza, corrugando la fronte e ridendo, come faceva nelle discussioni infervorate.

    – Insomma, siamo tornati ragazzi, – brontolai, ma forse Doro non sentí.

    Una cosa non potei mettere in chiaro quella sera: se Clelia era al corrente della scappata. Da qualcosa nel contegno di Doro avevo la sensazione che no. Ma come tornare su un discorso che l’amico lasciava cadere con tanta caparbietà? Quella notte lo feci dormire sul mio sofà – ebbe un sonno piuttosto agitato – e io pensavo come mai, per comunicarmi una cosa tanto innocente come il progetto di una gita, aveva atteso fino a sera. M’irritava pensare che forse ero soltanto il paravento di un litigio con Clelia. Ho già detto che di Doro fui sempre geloso.

    Stavolta prendemmo il treno – di buon mattino – e arrivammo che non faceva ancora caldo. In fondo a una campagna dove gli alberi apparivano piccini tant’era immensa, sorgevano le colline di Doro: colline scure, boscose, che allungavano le loro ombre mattutine sui poggi gialli, sparsi di cascinali. Doro – m’ero proposto di tenerlo d’occhio – prendeva ora con molta calma la gita. Ero riuscito a fargli dire che sarebbe durata al massimo tre giorni. Lo avevo anche dissuaso dal portarsi la valigia.

    Scendemmo guardandoci intorno, e mentre Doro che conosceva tutti entrava nell’Albergo della Stazione, io mi fermavo sulla piazza solitaria – tanto solitaria che guardai l’orologio sperando fosse già mezzodí. Non erano ancora le nove, e allora studiai con attenzione l’acciottolato fresco e le case basse, dalle persiane verdi, dai balconi fioriti di glicini e gerani. La villa che in passato era stata di Doro si trovava fuori del paese sullo sperone di una valle aperta alla pianura. Ci avevamo passato una notte durante la gita famosa, in un’antica stanza dalle sovrapporte a fiori, lasciando al mattino i letti sfatti e senza darci altro disturbo che richiudere il cancello. Il parco che la circondava, non avevo avuto il tempo di passeggiarlo. Doro era nato in quella casa – i suoi ci stavano tutto l’anno e c’erano morti – e sposandosi l’aveva venduta. Ero curioso di vedere la sua faccia davanti a quel cancello.

    Ma quando uscimmo dall’albergo a passeggiare, Doro s’incamminò da tutt’altra parte. Traversammo la ferrata e discendemmo il corso del fiume. Era chiaro che si andava in cerca di un posto d’ombra come in città si va al caffè. – Credevo andassimo alla villa, – borbottai. – Non siamo venuti apposta?

    Doro si fermò, squadrandomi. – Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie. Sono qui per bere un po’ del mio vino e cantare una volta con chi so io. Mi prendo uno svago e basta.

    Volevo dirgli: «Non è vero», ma tant’è stetti zitto. Diedi un calcio a una pietra e tirai fuori la pipa. – Lo sai che canto male, – dissi a denti stretti. Doro alzò le spalle.

    Mattino e pomeriggio ci passarono in tranquillo vagabondaggio, per le salite e le discese del poggio. Pareva che Doro facesse apposta a infilare sentierucoli che non portavano in nessun luogo ma morivano nell’afa su un greto, contro una siepe, sotto un cancello chiuso. Risalimmo anche un pezzo dello stradone che traversava la valle, verso sera quando il sole già basso sulla pianura la riempiva tutta di pulviscolo e le gaggie cominciavano a tremolare alla brezza. Mi sentivo rivivere, e anche Doro divenne piú loquace. Parlò di un certo contadino che ai suoi tempi era famoso per cacciare di casa le sorelle – ne aveva parecchie – e poi fare il giro delle cascine dove queste cercavano rifugio, presentandosi fuori di sé ed esigendo un pranzo di riconciliazione. – Chi sa se è ancora vivo, – disse Doro. Stava in una cascina che di laggiú si vedeva. Era un ometto secco che parlava poco e tutti lo temevano, però aveva una cosa: non voleva sposarsi perché diceva che gli sarebbe rincresciuto dover scacciare anche la moglie. Qualcuna delle sorelle era poi scappata davvero, suscitando in paese la soddisfazione generale.

    – Cos’era? un uomo rappresentativo? – dissi.

    – No, un uomo nato per tutt’altro, uno spostato, uno di quelli che imparano a esser furbi perché fanno una vita che non li contenta.

    – Tutti dovrebbero esser furbi, allora.

    – Infatti.

    – Si è poi sposato?

    – Macché. Si tenne una sorella, la piú robusta, che gli faceva dei figli e lavorava la vigna. E stavano bene. E forse stanno ancora bene.

    Doro parlava con un tono sarcastico, e parlando girava gli occhi sulla collina.

    – L’hai mai raccontata questa storia a Clelia?

    Doro non mi rispose; fece la faccia di chi pensa ad altro.

    – Clelia è tipo da divertirsi a sentirla, – continuai. – Tanto piú che non è tua sorella.

    Ma in risposta non ebbi che un sorriso. Doro, quando voleva, sorrideva come un ragazzo. Si fermò posandomi la mano sulla spalla. – Ti ho mai detto che un anno ho portato qui Clelia? – disse. Allora mi fermai anch’io. Non dissi nulla e aspettavo.

    Doro riprese: – Credevo di avertelo detto. Me l’aveva chiesto lei stessa. Ci passammo in macchina con degli amici. Eravamo sempre in gita a quei tempi.

    Guardò me, e guardò dietro me la collina. Fece per rimettersi a camminare. Mi mossi anch’io.

    – No che non me l’hai detto, – borbottai. – Quand’è stato?

    – Mica molto, – disse Doro. – L’altr’anno.

    – E te l’ha chiesto lei?

    Doro fece di sí col capo.

    – Però hai perduto troppo tempo, – dissi. – Ce la dovevi portar prima. Perché quest’anno l’hai lasciata al mare?

    Ma Doro sorrideva già in quel suo modo. M’indicò con gli occhi la costa ripida della piú alta collina e non rispose. Salimmo taciturni fin che ci fu luce, e di lassú ci fermammo a dare un’occhiata alla pianura, dove ci parve di scorgere nella voragine del pulviscolo anche il ciuffetto scuro della villa proibita.

    Quando fu notte, all’albergo cominciarono a spuntare facce cordiali. C’era il biliardo e si giocava. Coetanei di Doro – certi impiegati e un manovale tutto schizzato di calce – lo riconobbero e gli fecero festa. Poi venne anche un signore anziano, con la catena d’oro al gilè, che si disse felice di fare la mia conoscenza. Mentre Doro giocava e motteggiava, questo vecchio prese il caffè con la grappa, e confidenzialmente, piegandosi sul tavolino, si andò informando degli affari di Doro e mi raccontò tutta la storia della villa comprata da un certo Matteo quand’era un semplice fienile, con tutti i beni circostanti, e questo Matteo era non so che antenato, ma poi il nonno di Doro aveva cominciato la speculazione di vendere a pezzi il terreno per costruire la casa, e alla fine era rimasta quella gran villa senza piú beni, e lui l’aveva predetto all’amico, ch’era il padre di Doro, che un bel giorno i figlioli avrebbero venduto anche la casa lasciando lui nel cimitero come un vagabondo. Parlava un bonario italiano insaporito di dialetto; non so perché, mi misi in mente che fosse notaio. Poi vennero bottiglie, e Doro beveva in piedi, appoggiato alla stecca, ammiccando a questo e a quello. A una cert’ora eravamo rimasti il manovale che si chiamava Ginio, noi due e un ragazzone in cravatta rossa che Doro vedeva per la prima volta. Uscimmo dall’albergo a fare quattro passi e la luna ci mostrò la strada. Sotto la luna diventammo tutti come il manovale che gli schizzi di calce vestivano in maschera. Doro parlava il suo dialetto; io li capivo ma non sapevo rispondere con scioltezza, e questo ci faceva ridere. La luna bagnava ogni cosa, fin le grandi colline, in un vapore trasparente che velava, cancellava ogni ricordo del giorno. I vapori del vino bevuto facevano il resto: non stavo piú a chiedermi che cosa Doro avesse in mente, gli camminavo accanto, sorpreso e felice che avessimo ritrovato il segreto di tanti anni prima.

    Il manovale ci condusse sotto casa sua. Ci disse di far piano per non svegliare le donne e il padre; ci lasciò sull’aia davanti ai grandi fori bui del fienile nella banda d’ombra di un pagliaio, e ricomparve poco dopo, scalzo, con due bottiglie nere sotto il braccio, ridendo con un fare da scemo. Sgattaiolammo tutti giú per il prato dietro la casa, conducendo con noi il cane, e ci sedemmo sulla sponda di un fossato. Si dové bere alla bottiglia, cosa che spiacque al giovanotto della cravatta, ma Ginio disse ridendo: – Becco chi non ci sta, – e tutti ci stemmo.

    – Qui possiamo cantare, – disse Ginio schiarendosi la gola. Intonò a solo, e la voce riempí la vallata; il cane non voleva piú star fermo; altri cani risposero da vicino e da lontano, e allora anche il nostro cominciò a latrare. Doro rideva, rideva con un vocione contento, poi bevve ancora un sorso e si uní alla canzone di Ginio. In due fecero presto tacere i cani, quanto bastò almeno per accorgermi che la canzone era malinconica, con lunghi indugi sulle note piú basse, con parole stranamente gentili in quel grosso dialetto. Naturalmente, può darsi che a renderle tali nel mio ricordo abbiano contribuito la luna e il vino. Ciò di cui sono certo è la gioia, l’improvvisa beatitudine, che provai tendendo la mano a toccare la spalla di Doro. Ne sentii il sussulto nel respiro, e improvvisamente gli volli bene perché dopo tanto tempo eravamo tornati insieme.

    Quell’altro, che si chiamava Biagio, ogni tanto urlava una nota, una frase, e poi riabbassava la testa e riprendeva con me un discorso interrotto. Gli spiegai che non stavo a Genova, e che il mio lavoro dipendeva dallo Stato e da una vecchia laurea presa in gioventú. Allora mi disse che voleva sposarsi ma fare una cosa ben fatta, e per fare una cosa ben fatta bisognava avere la fortuna di Doro che a Genova s’era trovato moglie e azienda tutto insieme. A me la parola azienda fa rabbia, e persi la pazienza e dissi brusco: – Ma lei conosce la moglie di Doro?... E allora se non la conosce, stia zitto.

    È quando tratto cosí la gente che mi accorgo di avere piú di trent’anni. Ci pensai per un po’, quella notte, mentre Doro e il manovale cominciavano coi ricordi del reggimento. Mi arrivò la bottiglia che, prima di passarmi, il bianco Ginio forbí con la palma della mano, e il sorso che diedi fu lungo, per sfogare nel vino i sentimenti che non potevo col canto.

    – Sissignore, scusate, – mi disse Ginio riprendendo la bottiglia, – ma se tornate un altr’anno sarò sposato e ve ne stappo una in casa.

    – Ti lasci sempre comandare da tuo padre? – disse Doro.

    – Non è che mi lascio, è lui che comanda.

    – Sono trent’anni che ti comanda. Non si è ancora fiaccata la schiena?

    – È piú facile che gli fiacchi la sua, – disse quello della cravatta, ridendo nervoso.

    – E cosa dice dell’Orsolina? te la lascia sposare?

    – Non si sa ancora, – disse Ginio, e ritirò le gambe dal fosso e diede un guizzo sull’erba come un’anguilla. – Se non mi lascia, meglio ancora, – grugní, due passi lontano. Quell’ometto bianco come un panettiere, che faceva le capriole e dava a Doro del tu, me lo ricordo tutte le volte che vedo la luna. Feci poi ridere Clelia di cuore, descrivendoglielo. Rise con quell’aria beata che ha lei e disse: – Quant’è ragazzo Doro. Non cambierà mai.

    Ma a Clelia non dissi quel che successe dopo. Ginio e Doro attaccarono un’altra canzone e stavolta berciammo tutti e quattro. Finí che dalla cascina una voce furente ci gridò di smettere. Nel silenzio improvviso Biagio strillò un’impertinenza e ripigliò provocante la canzone. Anche Doro ricominciava, quando Ginio saltò in piedi. – No, – balbettò, – mi ha conosciuto. È mio padre –. Ma quel Biagio non voleva saperne, bisognò che Ginio e Doro gli cascassero addosso, per tappargli la bocca. Barcollando e scivolando sull’erba c’eravamo appena mossi di là, che a Doro venne un’idea. – Le sorelle delle Murette, – disse a Ginio. – Qui non si può cantare, ma loro una volta cantavano. Andiamo da Rosa –. E ci andava senz’altro, senonché il giovanotto mi prese il braccio e mi soffiò costernato: – Guai al mondo. Ci dorme il brigadiere –. Non sapevo troppo che fare, ma raggiunsi Doro e lo tenni a fatica per il muscolo grosso del braccio. – Non mescolare vino e donne, Doro, – gli gridai nella foga. – Ricordati che siamo signori.

    Ma Ginio sopraggiunse deciso, e ammise che quelle tre figliole erano ingrassate, però noi non si andava per questo ma soltanto per cantare una volta, e se anche erano grasse, che voleva dire? una donna dev’essere ben fatta; e si dibatteva e tirava Doro e diceva: – Vedrai che Rosa si ricorda –. Eravamo sullo stradone, sotto la luna, tutti accaniti intorno a Doro, stranamente irresoluto.

    La vinse Rosa, perché il giovanotto disse inviperito: – Ma non ti accorgi che non ti vogliono perché sei sporco di calcina? – e si prese in faccia uno sgrugnone che lo spostò di tre passi e lo fece sputare per terra. Allora s’eclissò come d’incanto, e un bel momento lo sentiamo gridare nel silenzio della luna: – Grazie, ingegnere. Lo dirò al padre di Ginio.

    Doro e Ginio s’eran già incamminati, e io con loro. Non sapevo dir nulla, perché anch’io tentennavo. Se avevo un rimpianto, era soltanto che quello sporco d’un manovale mi batteva davanti a Doro per intensità di ricordi comuni, che rievocavano animatamente camminando verso il paese. Parlavano a vanvera, e quel grosso dialetto bastava per ridare a Doro il sapore autentico della sua vita, del vino della carne dell’allegria in cui era nato. Mi sentivo intruso, inetto. Presi il braccio di Doro e mi cacciai innanzi, emettendo un grugnito. Dopotutto, avevo in corpo lo stesso vino.

    Quel che facemmo sotto quelle finestre fu temerario. Capivo che in qualche angolo della piazzetta doveva essere appostato quel Biagio, e lo dissi a Doro che nemmeno mi ascoltava. Sulle prime fu Ginio che, ridendo quel suo sogghigno da scemo, bussò alla porticina tarlata, sotto la luna. Parlavamo in un soffio, divertiti e smaniosi. Ma nessuno rispondeva, e le finestre rimasero chiuse. Allora Doro cominciò a tossire, poi Ginio a raccattare sassi e a tirarli lassú, poi litigammo perché dissi che rompeva i vetri, e finalmente Doro ruppe ogni indugio lanciando un urlo spaventoso, bestiale, modulato come quelli che gli ubriachi delle campagne fanno seguire ai loro cori. Tutti i silenzi della luna parvero rabbrividirne. Vari cani remoti, da chi sa che cortili, ci risposero furenti.

    Sbatacchiarono porte e cigolarono imposte. Anche Ginio cominciò a berciare, qualcosa come la canzone di prima, ma la voce di Doro subito raggiunse e coprí la sua. Qualcuno parlò dall’altra parte della piazza, balenò un lume alla finestra; tacemmo: sentimmo appena cominciare una lagna d’improperi e minacce, che già il manovale s’era buttato contro la porticina tempestandola di calci e di pugni. Doro mi afferrò la spalla e mi tirò nella banda d’ombra della casa di fianco.

    – Stiamo a vedere se gli dànno il catino, – soffiò con la voce rauca, ridendo, – voglio vederlo tutto a mollo come un’oca.

    Un cane abbaiava vicinissimo; cominciavo ad avere vergogna. Tacemmo allora: anche Ginio, che si stringeva tra le mani un piede scalzo e saltabeccava sui ciottoli. Tacendo noi, si spensero anche le voci dalle rade finestre; scomparve quel lume; durarono soltanto, intermittenti, i latrati. Fu allora che sentimmo cigolare circospetta l’imposta lassú.

    Ginio s’accasciò nell’ombra tra noi due. – Hanno aperto, – ci mugolò in faccia. Lo respinsi perché mi ricordai ch’era tutto infarinato. – Avanti, fatti conoscere, – gli disse Doro seccamente. Dal buio Ginio chiamò, guardando in su. Mi sentii sotto la mano il suo collo freddo e ruvido. – Cantiamo, – disse a Doro. Doro non gli badò e fece un fischio sommesso come quando si chiamano i cani. Lassú parlottarono.

    – Avanti, – disse Doro, – fatti conoscere, – e gli diede uno spintone che lo cacciò sotto la luna.

    Ginio, sbucato al chiaro barcollando, rideva sempre e alzò il gomito a ripararsi da un supposto proiettile. Tutto taceva alla finestra. I calzonacci cascanti gl’imbrogliarono un piede e quasi lo fecero cadere. Incespicò, e si sedette per terra.

    – Rosina, oh Rosina, – gridò a bocca squarciata ma soffocando la voce. – Lo sapete chi c’è?

    Venne di lassú un riso sommesso, che subito cessò.

    Ginio tornò a far l’anguilla, stavolta sulla dura terra. Poggiando le mani all’indietro, diede un seguito di giravolte che lo riportarono verso la riga d’ombra. Doro s’era già alzato, col piede pronto a menargli un calcio. Ma Ginio fu lesto a saltare in piedi, e saltando gridava: – C’è Doro, Doro delle Ca’ Rosse, che viene da Genova a trovare voialtre –. Pareva ammattito.

    Ci fu lassú un movimento e uno scricchiolío di vetri lampeggianti; poi un tonfo pesante contro la porta, che si aprí spaccando il bianco della luna che l’inondava. Ginio, inchiodato a metà del suo ballo, era a due passi dalla soglia. Su questa era comparso un uomo, in maniche di camicia, tozzo.

    Proprio in quel momento, dal fondo della piazza si levò una voce acuta, insolente – la voce di quel Biagio – che urlò: – Marina, non aprite, sono ubriachi come bestie –. Dalla finestra vennero esclamazioni, trapestío; scorsi vagamente delle braccia agitarsi.

    Ma già sullo scalino l’uomo e Ginio si erano abbrancati e si dibattevano mugolando, spostandosi, soffiando come cani arrabbiati. L’uomo aveva i calzoni neri, listati di rosso. Doro, che mi teneva la spalla, si staccò d’improvviso e saltò sul viluppo. Menò a casaccio qualche calcio, aggirandosi intorno, cercando d’infilarsi nella mischia. Poi si staccò e si fece sotto alla finestra. – Sei Rosina o Marina? – disse guardando in su. Non rispondevano. – Sei Rosina o Marina? – urlò, col piede sulla soglia.

    Seguí uno schianto, era caduto qualcosa: come si seppe dopo, un vaso da fiori. Doro saltò indietro, sempre guardando lassú, dove adesso s’agitavano almeno due donne. – Non l’abbiamo fatto apposta, – disse una voce perentoria, di donna inasprita. – Vi ha fatto del male?

    – Chi è che parla? – vociò Doro.

    – Sono Marina, – disse una voce piú flaccida, supplichevole. – Vi siete fatto male?

    Allora uscii anch’io dall’ombra, per dire la mia. Ginio e quell’altro s’erano staccati e si giravano intorno, menandosi sventole rabbiose, cacciando grugniti. Ma subito il carabiniere con due salti ritornò sulla porta, staccandone Doro e buttandolo indietro. Le donne lassú strillavano.

    Ricominciarono a spalancarsi finestre nel giro della piazzetta, e voci seccate, voci furenti, s’incrociavano. L’uomo aveva richiuso la porta, e si sentí che metteva in furia la sbarra di legno. Sul nostro capo s’incrociò tutto un rosario d’ingiurie, di lagni e di voci, dominato dalla voce aspra della prima delle due donne. Sentii – ciò che finí per snebbiarmi dal vino – che il nome di Doro correva di finestra in finestra. Ginio ebbe un bel tempestare di nuovo contro la porta e gridare. Dalle finestre attraverso la piazza cominciarono a pioverci mele e certi proiettili duri – ossi di pesca – e poi, quando già Doro abbrancava Ginio e lo tirava via, un lampo da quella finestra e una gran detonazione che zittí tutti quanti.

    III

    .

    A Clelia, la prima sera che facemmo lungo il mare una camminata insieme, raccontai quanto potevo dell’impresa di Doro, e cioè quasi nulla. Pure, la stravaganza della cosa la fece sorridere imbronciata. – Che egoisti, – disse. – Io qui mi annoiavo. Perché non mi avete portata con voi?

    Vedendoci arrivare, il pomeriggio dopo la scappata, Clelia non diede segno di sorpresa. Da piú di due anni non la vedevo. L’incontrammo, castana e abbronzata, in calzoncini sugli scalini della villa. Mi tese la mano con un sorriso sicuro, movendo gli occhi sotto l’abbronzatura piú netti e duri che in passato. E s’era subito messa a parlare di quanto avremmo fatto l’indomani. Ritardò, per farmi festa, la sua discesa alla spiaggia. Scherzando le raccomandai Doro che aveva sonno, e li lasciai a spiegarsi, loro due soli. Quella prima sera andai in cerca di una stanza, e la trovai in una viuzza appartata, con la finestra che dava su un grosso ulivo contorto, cresciuto inspiegabilmente proprio nel mezzo dell’acciottolato. Tante volte in seguito, rientrando solo, mi capitò di guardarlo sovrapensiero, che è forse la cosa che meglio rivedo di tutta l’estate. Visto dal basso, era nodoso e scarno; ma dalla stanza, quando m’affacciavo, era un sodo blocco argenteo di foglioline secche accartocciate. Mi dava il senso di trovarmi in campagna, in un’ignota campagna, e sovente fiutavo se non sapesse di salsedine. Mi è sempre parso strano che sull’orlo estremo di una costa, fra terra e mare, crescano piante e fiori e scorra acqua buona da bere. Alla mia stanza si saliva per una scaletta esterna di pietra, ripida e angolosa. Sotto di me, al pianterreno, mentre mi radevo e ripulivo, scoppiava a tratti un baccano di voci discordi, non si capiva bene se allegre o irate, qualcuna di donna. Guardai per le inferriate, scendendo, ma il crepuscolo oscurava le stanze. Fu soltanto quando mi ero già allontanato, che una voce dominò sulle altre come un a solo, una voce fresca e forte cui non seppi dare un nome, ma che avevo già sentito. Dibattendo quell’incertezza stavo per tornare indietro, quando mi venne in mente che insomma eravamo vicini e che la conoscenza di un vicino si fa sempre troppo presto.

    – Doro è nei boschi, – disse Clelia quella sera che andavamo lungo la spiaggia. – Dipinge il mare –. Si voltò camminando e spaziò gli occhi. – Merita. Lo guardi anche lei.

    Guardammo il mare, e poi le dissi che non capivo perché si annoiava. Clelia disse ridendo: – Mi racconti ancora di quell’ometto sotto la luna. Com’è che gridava? Anch’io l’altra notte guardavo la luna.

    – Probabilmente faceva le smorfie. Quattro ubriachi non bastano per farla ridere.

    – Eravate ubriachi?

    – Evidentemente.

    – Che ragazzi, – disse Clelia.

    Tra noi due la notte di Ginio divenne un

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