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Londra sconosciuta: Storie dall'East End
Londra sconosciuta: Storie dall'East End
Londra sconosciuta: Storie dall'East End
E-book181 pagine2 ore

Londra sconosciuta: Storie dall'East End

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Info su questo ebook

Una delle zone più povere di Londra: l'East End. È qui che sono ambientate le storie di Arthur Morrison, esponente di spicco della letteratura realistica inglese a cavallo fra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Personaggi bizzarri, a volte tragici, a volte comici, sempre squattrinati, che si dibattono fra risse e birre, musica popolare e boxe, criminalità e piccole truffe. Un mondo degradato eppure affascinante e vivo, che Morrison, nato proprio in quell'area, racconta con maestria letteraria e un raffinato occhio antropologico. Oggi l'East End è una vivace zona multiculturale.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita15 nov 2022
ISBN9791222024028
Londra sconosciuta: Storie dall'East End
Autore

Arthur Morrison

Arthur Morrison (1863-1945) was an English writer and journalist known for his authentic portrayal of London’s working class and his detective stories. His most popular work is A Child of the Jago , a gripping work that fictionalizes a misfortunate area of London that Morrison was familiar with. Starting his writing career as a reporter, Morrison worked his way up the ranks of journalism, eventually becoming an editor. Along with his work as a journalist and author, Morrison was also a Japanese art collector, and published several works on the subject. After his death in 1945, Morrison left his art collection to the British Museum, with whom he had a close relationship with.

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    Anteprima del libro

    Londra sconosciuta - Arthur Morrison

    Prefazione - di Mario Maffi

    Ma chi conosce l’East End?

    Arthur Morrison

    I

    Sulla mappa di Londra, l’East End non è difficile da trovare. Spitalfields, Whitechapel, Stepney, Bow, Limehouse, Wapping, Poplar, sono solo alcuni dei suoi principali quartieri; e Bethnal Green Road, Commercial Road, East India Dock Road, Whitechapel Road, Mile End Road, le sue arterie. A sud, i suoi confini sono segnati dalle due ampie, sinuose anse del Tamigi a valle del Tower Bridge; o, più precisamente, dal succedersi disordinato dei moli, dei bacini, dei magazzini del porto di Londra.

    Facile da trovare sulla mappa, l’East End non lo è altrettanto (non lo è mai stato) nella realtà. I suoi scenari non sono precisamente quelli preferiti da guide e gite turistiche: le viuzze, i cortiletti, le lunghe mura delle fabbriche, l’orizzonte di gru e ciminiere, gli slums abitati attraverso i secoli da ugonotti, irlandesi, tedeschi, ebrei dell’Europa Orientale, cinesi, indiani, ciprioti, maltesi, cingalesi, pakistani, giamaicani… in una parola, la Londra proletaria e immigrata, dei mille lavori sul fronte del porto e intorno a esso, così simile al Lower East Side di New York. [1]

    In questa Londra proletaria, poco più di un secolo fa, si verificò una serie di episodi diversi che colpì con forza l’opinione pubblica inglese, depositandosi nel profondo dell’immaginario collettivo.

    Nel giugno del 1988, le lavoranti della fabbrica di fiammiferi Bryant and May, di Bow, entrano in sciopero: chiedono (e ottengono) salari più elevati e soprattutto migliori condizioni di lavoro, in un settore in cui la famigerata phossy jaw – l’avvelenamento da fosforo – miete vittime tra le giovanissime operaie. Le dimensioni anche simboliche dello sciopero risultano subito evidenti, poiché a esserne protagonista è una manodopera femminile, non specializzata e non sindacalizzata, che riesce a reagire alla disorganizzazione e alla frustrazione. [2] Le accese polemiche che accompagnano lo sciopero – e la marcia delle lavoranti sul Parlamento e attraverso il West End – contribuiscono a rendere ancor più visibile «il golfo che separava le due aree di Londra». [3]

    Passano alcuni mesi e, tra la fine d’agosto e i primi di novembre, l’East End torna drammaticamente alla ribalta della cronaca. In un macabro crescendo di sadici rituali, cinque (e forse più) donne vengono assassinate nei vicoli intorno a Whitechapel, vittime del misterioso e mai smascherato Jack lo Squartatore. Il panico si diffonde nel quartiere, accompagnato dall’inevitabile, morboso sensazionalismo, mentre la polizia brancola nel buio e ha inizio la ridda di ipotesi che continuerà fino ai giorni nostri. [4] Certe zone dell’East End – come Ratcliffe Highway – s’erano già guadagnate, fin dal ‘700, una triste notorietà in tema di delitti e comportamenti illegali e trasgressivi; ma sono le sanguinarie imprese di Jack lo Squartatore a suscitare ora l’eco più vasta, la reazione emotiva più profonda, riproponendo con segno radicalmente diverso il problema della miseria e delle abbrutenti condizioni di vita che regnano nell’intera area. La nascita, l’anno prima, per mano di Arthur Conan Doyle, del personaggio di Sherlock Holmes (rassicurante Super-Io alle prese con un Id oscuro e minaccioso) e l’introduzione dell’illuminazione a gas nei quartieri orientali saranno allora qualcosa di più di una coincidenza casuale.

    Altri mesi ancora: e, dopo le agitazioni dei lavoratori dei tram e del gas, ecco, nell’agosto-settembre del 1889, il grande sciopero dei portuali. Guidato da figure carismatiche come Ben Tillett, John Burns, Tom Mann, esso scuote «l’infimo strato della classe operaia dell’East End sollevandola dalla degradazione» [5] e si guadagna l’appoggio e la solidarietà di personalità pubbliche e di altri strati proletari. Per un mese, la città di Londra è teatro di cortei, picchetti, comizi e dimostrazioni e risuona di slogan, discorsi e canti di lotta, come il celebre «Strike for Better Wages». Quando i dockers tornano vittoriosi al lavoro, è chiaro a tutti che essi hanno scritto una pagina importante di quel «nuovo sindacalismo» che sta nascendo tra i settori più sfruttati e meno organizzati del proletariato inglese. E una volta di più ne è stato protagonista l’East End.

    II

    Questi e altri fatti sono di fondamentale importanza per meglio comprendere la temperie sociale e lo stato d’animo psicologico in cui maturerà gran parte della cultura inglese di fine ‘800 e soprattutto quella working-class fiction , quella «narrativa sulla classe operaia» nell’accezione di P. J. Keating, [6] di cui Arthur Morrison è uno dei rappresentanti più significativi.

    Certo, l’East End era sempre esistito, come luogo di miseria, degradazione, sfruttamento. Ma negli ultimi decenni del secolo la sua immagine s’era andata facendo molto particolare. Mentre infatti, nella prima metà dell’800, gli incubi e le tragedie della rivoluzione industriale s’erano situati in una zona in certo modo «lontana» (Manchester, il nord), ora gli incubi e le tragedie dell’urbanesimo colpivano il cuore stesso della Nazione e dell’Impero. Erano, per così dire, dietro l’angolo, a due passi dalla City, dal Parlamento, dal West End, le sedi stesse del potere e della ricchezza. La vicinanza dell’East End e di altri quartieri miserabili ma non altrettanto carichi di valenze simboliche rendeva più netto il contrasto, più acuti i sensi di colpa. E suscitava un malessere diffuso, un’angoscia e una paura difficili da sublimare, in decenni già percorsi da conflitti e tensioni. [7]

    L’East End divenne allora la regione da esplorare, il nuovo «Continente Nero» a portata di mano di giornalisti, scrittori, artisti, prelati, fotografi, riformatori, sociologi, o semplici curiosi in cerca di emozioni. Nacquero così gli studi di Henry Mayhew, James Greenwood, Blanchard Jerrold, George S. Sims, Andrew Mearns, William Booth, Charles Booth, Margaret Harkness, C.F.G. Materman, e di un Jack London che proprio nell’East End del primo ‘900 completerà parte del proprio apprendistato politico e letterario: un’ampia produzione che andava dal giornalismo personale (e spesso sensazionale) alla seria indagine sociale di segno più o meno riformatore o radicale. [8] E nacquero i disegni, i dipinti, le illustrazioni di Gustave Doré, Luke Fildes, Frank Holl, John Henry Henshall, Walter Sickert; e le fotografie di John Galt, di Charles Spurgeon e di Jack London stesso. O, infine, Toynbee Hall, il People’s Palace, la Whitechapel Art Gallery, il Philosophical Institute, centri d’aggregazione sociale e di diffusione di cultura, creati con un’ottica certo non esente dalle tipiche convinzioni vittoriane circa l’«elevazione dei poveri» a opera di una leadership illuminata.

    Quest’esplorazione, questa scoperta, unite ai grandi fatti di cui s’è parlato prima, finirono per dare dell’East End un’immagine composita e contraddittoria. Per gran parte dell’opinione pubblica, Whitechapel, Stepney, Poplar, Bethnal Green Road erano luoghi in cui regnava ostinata una miseria fatta di alcolismo, violenza e degradazione, abitati da quell’1,2 per cento della popolazione totale londinese che Charles Booth, nell’ampio e accurato Life and Labour of the People in London (1889-1903), definiva «la classe più bassa di lavoratori occasionali, nullafacenti e semi-criminali» [9] : un «popolo dell’abisso» in agguato minaccioso. Ma erano anche luoghi che sapevano esprimere una rinnovata – e non meno preoccupante – volontà e capacità di organizzazione e di lotta, come avevano dimostrato i dockers e le giovanissime operaie della Bryant and May. Luoghi infine (e la cosa era tutt’altro che di secondaria importanza) in cui andavano evolvendo forme di cultura certo non omologabili a quelle della cultura dominante (o di quel tipo di cultura che riformatori laici e religiosi intendevano diffondere): la cultura della strada, della parlata cockney , dei pubs e dei music-halls come il «Lusby’s», il «Jolly Sailor», il «Wilton’s», il «Blind Beggar», di attori di varietà come Albert Chevalier, Harry Champion, Marie Lloyd, Gus Elen, dei canti di lavoro e delle pop songs dell’epoca come «Tottie», «The Plank-Bed Ballad», «A Little of What You Fancy Does You Good», di sport popolari come la boxe, di fiere di quartiere, di circhi e altre attrazioni… una cultura dalle radici lontane, che stava però decisamente indirizzandosi verso forme di massa e che comunque parlava un linguaggio tutt’affatto diverso, quasi a voler ribadire la propria separatezza dal resto della città e dell’Impero. E che molto di rado affiorava nella cultura dell’epoca: e, quando lo faceva, recava invariabilmente le stimmate di una visione attraversata da ostilità e angosce.

    È dunque in questo contesto (di miseria e prostrazione, ma anche di vitalità e combattività) che va collocata la nascita, negli ultimi due decenni dell’800, di una «narrativa sulla classe operaia», i cui principali rappresentanti furono George Gissing, Walter Besant, Arthur Morrison, i primi Ruyard Kipling e W. Somerset Maugham e alcuni minori appartenenti alla «scuola cockney », come Henry Nevinson, Edwin Pugh, William Pett Ridge, Arthur St. John Adcock, Clarence Rook, W.W. Jacobs. [10] E che sarà seguita, alcuni decenni più tardi e in posizione alquanto isolata, da Thomas Burke, autore di un’interessante serie di racconti ambientati nella comunità immigrata cinese di Limehouse [11] .

    III

    Arthur Morrison nasce nel 1863 a Poplar, nell’East End. Poco si conosce del primo periodo della sua vita: e la sua reticenza al riguardo forse rivela una sorta di meccanismo di rimozione nei confronti di queste origini. [12] Nella seconda metà degli anni ‘80, lo troviamo però impegnato nelle attività del People’s Palace, ideato da Walter Besant per l’elevazione sociale e culturale dell’East End: dell’istituzione, Morrison – che già scrive di boxe, ciclismo, letteratura – cura l’organo ufficiale, il «Palace Journal».

    Nel 1890, lascia il People’s Palace ormai in crisi, si trasferisce nel West End, entra in contatto con i circoli artistici e letterari della città, diviene amico di Kipling e inizia un’attività di giornalista e scrittore free-lance . Scrive alcuni racconti sul sovrannaturale (Shadows Around Us , 1891); e, tra il 1891 e il 1893, pubblica sulla «Macmillan’s Magazine» e sul «National Observer» una serie di racconti sulla vita nell’East End che viene poi raccolta in volume (Tales of Mean Streets , 1894): per l’appunto, la presente antologia. Il libro ha un grande successo e Morrison torna sull’argomento nel 1896 con A Child of the Jago : un romanzo che affronta il tema impegnativo – e raramente toccato dalla narrativa dell’epoca – della violenza quotidiana, dello hooliganism , in uno dei più atroci slums londinesi, l’Old Nichol (che nel libro diviene «The Jago» e di lì a poco sarà abbattuto). Il romanzo scatena un’aspra polemica relativa al realismo del suo autore (sono gli anni in cui è viva la «questione Zola») e resta una delle migliori prove di Morrison.

    Nel 1899, con To London Town – opera, questa, meno convincente – Morrison completa la «trilogia sull’East End». Nel frattempo, ha pubblicato i racconti polizieschi imperniati sulla figura del detective Martin Hewett, tentativo poco riuscito di creare un erede di Sherlock Holmes, «ucciso» (e in seguito resuscitato, come si sa) da Conan Doyle nel 1893. [13] E ha cominciato a dedicarsi a quella che diventerà la sua principale attività di rinomato collezionista ed esperto d’arte giapponese (The Painters of Japan è del 1911). Continua a scrivere, senza però ripetere i successi degli inizi: altri racconti polizieschi, due romanzi storici (Cunning Murrel , 1900; The Hole in the Wall , 1902), altre raccolte di racconti. Muore nel 1945.

    Il problema cui si dedica Arthur Morrison è trovare un nuovo modo d’accostarsi a una materia particolare come la vita nei bassifondi, cercando di non cadere nelle trappole costituite da una serie di convenzioni culturali e letterarie. Su di lui, infatti, come peraltro sulla grande maggioranza degli scrittori della seconda metà dell’800, gravava non solo il «gigante» Dickens, con la sua galleria di tipi umani, le sue atmosfere, le sue invenzioni e i suoi limiti. Altri condizionamenti, ben più gravi, venivano da quella narrativa di carattere sentimentale e romanticheggiante sviluppatasi nel corso degli anni ‘30 e ‘40, durante i quali aveva cercato di farsi strada una riflessione sugli effetti della rivoluzione industriale, con soluzioni letterarie però alquanto inadeguate.

    Mentre si propone di aggirare Dickens, Morrison tenta poi anche di rompere con le diffuse tentazioni scandalistiche, con le cupe, morbose descrizioni di un’umanità sub-umana che circolavano all’epoca. E individua invece il dato centrale dell’esperienza dell’East End nella monotonia, nel sempre eguale di giorno dopo giorno: le vie, le case, i lavori, le vite… Lo fa con tale efficacia da consegnare l’immagine di queste mean streets – di queste strade povere e squallide, che sono molto più che un semplice luogo fisico o una località topografica – a un’intera tradizione letteraria e culturale (ne è riprova il film omonimo, d’ambiente newyorkese, del primo Martin Scorsese).

    Morrison è poi consapevole dell’esistenza, al di sotto di quest’uniforme monotonia, di un insieme di comportamenti collettivi, di luoghi, passatempi, linguaggi e rituali, che per l’appunto concorrono a formare una cultura specifica. In ciò, è molto evidente il debito che egli ha con il Kipling di «The Record of Badalia Herodsfoot» (1890) [14] o di altri racconti degli inizi, che restituiscono lo spessore e la ricchezza della lingua parlata e la qualità a sé stante di quella cultura, da accostare per quello che è e non per quello che si vorrebbe (o non vorrebbe) che fosse. Proprio qui va collocato l’altro importante aspetto della narrativa di Morrison: la riflessione sulla violenza e la rappresentazione che egli ne dà e che tanto scalpore suscitò a scapito di una più equilibrata e complessiva valutazione della sua opera. Morrison sembra comprendere che la violenza di questo mondo – come egli ce la narra in A Child of the Jago o in «Lizerunt» [15] – non solo discende inevitabilmente dalla violenza generalizzata e diffusa che su di esso s’esercita e che costringe i suoi abitanti a lottare giorno dopo giorno per una sopravvivenza precaria. Quella violenza è ormai diventata un linguaggio quotidiano, una cifra di comportamento che pervade la realtà in ogni sua piega, quasi una rivalsa di quella fisicità che miseria e abbrutimento tendono a soffocare, deviare, pervertire. E né l’abito del censore né i mille esorcismi del moralizzatore bene intenzionato valgono a comprenderla e analizzarla.

    Fin dagli inizi, dunque, Arthur Morrison si muove diversamente dagli autori a lui contemporanei e in primo luogo da George Gissing (che molti considerano erede sui generis di Dickens) e da Walter Besant. Gissing infatti, in romanzi come Workers in the Dawn (1880), The Unclassed (1884), Demos (1886), Thyrza (1887) e The Nether World (1889), aveva piuttosto utilizzato scenari e tematiche operaie come sfondo al proprio tema centrale (e in qualche modo già pre-decadentistico) dell’outcast , dell’artista senza radici in cerca d’una comunità solidale. Besant invece, in All Sorts and Conditions of Men (1882) e Children of Gibeon (1886), s’era rivelato tutto interno a certe convenzioni letterarie di stampo sentimental-romantico, con i soliti eroi «alti» provvisoriamente (e provvidenzialmente) inseriti in un ambiente «basso» e con le inevitabili storie di redenzione ed elevazione.

    Ciò non vuol dire che Morrison sia sempre riuscito a evitare trappole e cadute di stile. Anzi. È vero che egli seppe mostrarci la complessità anche sociale dell’East End, tratteggiandone un volto più credibile che non nelle correnti descrizioni semplicistiche e stereotipate: ma quel suo universo ci appare

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