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Musica a specchio
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E-book129 pagine1 ora

Musica a specchio

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Dieci grandi compositori raccontati da altrettanti sommi interpreti del nostro tempo, in un dialogo a confronto tra note e parole, passato e presente. I compositori segnano i capisaldi della storia della musica, dal barocco di Bach al Novecento di Mahler. Gli interpreti vantano tutti una lunga storia legata a ciascun compositore, che quasi sempre risale agli anni dell'infanzia: per questo il fil rouge dei dieci ritratti è la frase "Il mio primo...". Ogni ritratto sarà corredato da due schede, che illustrano di volta in volta i dati salienti di compositore e interprete.

CON LE ILLUSTRAZIONI DI GUIDO SCARABOTTOLO
1 Frescobaldi/Cera
2 Bach/Schiff
3 Mozart/Muti
4 Paganini/Accardo
5 Schubert/Mehta
6 Chopin/Pollini
7 Wagner/Domingo
8 Verdi/Abbado
9 Puccini/Pappano
10 Mahler/Gatti

Quando il direttore stava per dare l'attacco
si accorse che Michelangeli teneva le mani
sulle ginocchia (si seppe poi perché:
non era contento del livello delle luci).
Celibidache cominciò a guardarlo con fare bonario,
come si fa con un bimbo che non vuole la pappa...
Dalla Prefazione di Francesco Micheli


LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2021
ISBN9788863458053
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    Anteprima del libro

    Musica a specchio - Carla Moreni

    Prefazione

    Quando finiva la festosa Bella estate, alla Pavese, iniziavano le due settimane di MiTo, copyright Vittorio Sgarbi – «ala del turbine intelligente» – il festival che ci eravamo inventati con Gae Aulenti, Marilisa Pollini ed Enzo Restagno. Realizzato grazie all’entusiasmo e al sostegno dei sindaci Sergio Chiamparino e Letizia Moratti e al compianto Fiorenzo Alfieri, assessore alla Cultura del comune di Torino, e all’amicizia di Banca Intesa, Eni ed Enel, partner attenti che assieme ad altri consentirono l’arrivo delle più grandi orchestre, dalla Cleveland alla Filarmonica di San Pietroburgo (in residence, con Termirkanov) e coi massimi solisti e direttori d’orchestra, segretario generale Francesca Colombo. Ma insieme anche col coinvolgimento delle migliori piccole società musicali cittadine. Si eseguivano le integrali di Chopin, Liszt, Brahms, Debussy, Rachmaninov e non solo, interpretate da decine di pulcini talentuosi allevati nel vivaio di Franco Scala, Creator Maximus di veri pianisti di successo. In più, con Carla Moreni, curatrice di questo volumetto, si diede vita a una collana che raccoglieva le confessioni dei più significativi artisti presenti alla kermesse. Tutto questo fino al 2015, anno dell’Expo, che sembra un secolo fa.

    Da appassionato lettore di Domenica, l’allegato culturale del Sole 24 Ore, l’aver ritrovato in copertina, negli ultimi mesi, una serie di confessioni analoghe mi ha riaperto il cuore, dopo quel clima malinconico che già da qualche tempo aveva preso il far musica, dovuto alla incapacità di reinventare un nuovo modo di porgerla. Dove l’arrivo del Covid ha poi dato il colpo di grazia, cancellando i concerti dal vivo, che proprio dalla presenza del pubblico traggono la capacità magica di ottenere, oltre al godimento della partecipazione, il massimo rendimento degli artisti, i quali sentono la presenza degli appassionati e danno il meglio di sé. Questo sul piano del sacro. Su quello del profano, poi, se non c’è concerto e non c’è cachet per i grandi, figurarsi per i giovani. Cachet peraltro che già negli ultimi anni si erano dimezzati, in conseguenza anche della pigrizia inventiva di tanti addetti ai lavori abituati a dormire sugli allori.

    Il dopovirus imporrà scelte nuove come è sempre successo nei dopoguerra. La Restaurazione che seguì il Congresso di Vienna alla caduta di Napoleone, nel 1815, vide il Regno di Sardegna tornare all’Ancien Régime, con polpe e parrucche incipriate, per esser poi spazzato via dalle insurrezioni pre-risorgimentali. Nella musica si dovrà trovare un nuovo modo per proporre l’offerta musicale, adeguata a un mondo totalmente cambiato. Per il teatro d’opera, il formidabile team Fuortes-Gatti-Martone, col Barbiere di Siviglia a Roma ne ha già anticipato una buona linea di sviluppo. Anche la didattica va ripensata: András Schiff, che considera Bach il Dio e gli altri i suoi profeti, suggerisce al posto dei terribili e noiosi esercizi per la tecnica (Hanon, Czerny), pillole di Invenzioni a due e tre voci, Suite, Preludi e fughe. E sarà da arginare la crisi dell’offerta formativa, non strutturata intorno all’allievo, come sottolinea Roberto Giordano, braccio destro di Franco Scala. È da lì che si dovrebbe ripartire, con un criterio ugualmente applicato alla scuola superiore per ridare credibilità a tanta classe dirigente italiana responsabile del declino del Paese. Con maggior sostegno alle università in linea con l’auspicata rifondazione della Sanità. Pure i teatri lirici dovranno darsi una mossa. Vediamo sì nuova luce da Roma, che negli ultimi anni ha acquisito un primato di visibilità e qualità, anche grazie al lavoro di Renzo Piano e del compianto Luciano Berio. Ma fuori spesso nebbia fitta.

    La musica aveva vissuto l’apice proprio alla Scala durante tutto il Novecento, fino ad Abbado e Muti e Barenboim. A Parigi allora si andava alla Salle Pleyel, dove André Furno proponeva settimane auliche, ora con l’integrale delle Sinfonie e dei Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven, ora con l’integrale Brahms, con i Wiener Philharmoniker agli ordini di Abbado e Pollini. Era la fine degli anni Ottanta. Nel ’92 a Tel Aviv il decennale della morte di Arthur Rubinstein fu celebrato con i concerti di Zubin Mehta, con un Pollini che indossava il frac prestatogli da Radu Lupu, perché il suo era rimasto in una valigia non consegnata all’aeroporto, e i due campioni del pianoforte sembravano appaiati da un gesto uguale a quello dello scambio della borraccia tra Bartali e Coppi, che fece impazzire il Tour del ’52.

    Ricordo il trionfo del Secondo di Brahms e del Terzo di Beethoven, e l’amabilità festosa di Zubin, che dopo la cena in cui tirava fuori con noncuranza dalla tasca della giacca i consueti peperoncini, offerti a destra e a manca, poi ci volle accompagnare a tutti i costi a Gerusalemme, a notte fonda – malgrado fosse un vero azzardo – guidando la sua splendida convertibile americana azzurra, da acchiappo. Mentre ascoltavo Maurizio che provava lo Steinway, in presenza del direttore del teatro, un caro amico gli chiese come mai la sala fosse dedicata a Thomas Mann: «No, non a lui…». «Forse al figlio Klaus o a Golo?», osai insinuare. «No, è intitolata ad Albert Mann», siglò freddo. «Ma... cosa ha scritto questo Mann?», sussurrai, ingenuo. Risposta: «L’assegno». Nella sala del concerto ero stato messo nella fila più sicura (o forse la più a rischio di attentati) quella del ministro della Difesa Ariel Sharon che avevo accanto, apparentemente senza scorta, come uno spettatore qualunque. Inimmaginabile altrove. Bei ricordi, come quello della notte insonne in un hotel a Bregenz, per gli schiamazzi nella camera accanto, dopo il tradizionale concerto di Benedetti Michelangeli organizzato da Antonio Mormone. Al mattino realizzai essere la stanza del Maestro, che faceva bisboccia con gli amici. Lo riascoltai nella sua ultima apparizione, a Monaco, sul podio Celibidache nel Concerto per pianoforte e orchestra di Schumann. Quando il direttore stava per dare l’attacco si accorse che Michelangeli teneva le mani sulle ginocchia (si seppe poi perché: non era contento del livello delle luci). Celibidache cominciò a guardarlo con fare bonario, come si fa con un bimbo che non vuole la pappa. Pochi secondi, che a tutti noi parvero un secolo. Ricordo le occhiate che ci scambiavamo con Alberto Arbasino seduto poco in là. Contrariamente a quanto faceva spesso, annullando il concerto, il sommo pianista pian piano si accostò alla tastiera. E fu il trionfo di due vecchi leoni, che presero un tempo dolcissimo, incantevole, anni luce dalle interpretazioni focose della gioventù.

    Francesco Micheli

    p01-01

    Musicisti e interpreti di questo libro ti accompagneranno

    nella lettura con le musiche suggerite da Carla Moreni.

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